La cittadina brulicava di cullante allegria fra i colori spumeggianti d'un imminente autunno, il sole lasciava il suo caldo manto di fine estate. Le tenere coppie respiravano profumo di festa, di fremente amore sulla soglia del finire d'ogni divertimento; uomini tarchiati già spopolavano in salopette di jeans e zappa alla mano, lungo vicoli stretti di pietra scomposta nelle piazze del centro; cani al guinzaglio s'abbeveravano alla fonte di risplendenti monetine sul fondo; giocose le risate di madri e bambini, di nonni e nipotini, sfondo d'una caotica vita di paese.
Una perfetta pace sconfinata che il giovane Jaeger era solito ammirare tra le fessure di mura sgretolate d'uno scadente granito dai pallidi toni spenti, che la malta, ormai vecchia e rinsecchita, faticava a coprire. Teneva gli occhi saldamente chiusi per cogliere il cinguettio di rondini passeggere, il tremolio di foglie spazzate al vento, lo zampettare di piccoli topolini coraggiosi che facevano incursione al mercato nelle principali vie centrali. Il forte profumo di pane caldo, sfornato di primo mattino, si scontrò con l'aroma delicato di lavanda, limone, menta fresca. E poi c'era l'immancabile Marsiglia.
Immobile, stringendo le palpebre ancor di più, sperò di aver assistito ad un miraggio, ad un incubo spaventoso. Uno dei tanti incubi che ormai potevano darsi il nome di realtà. Non sapeva più se era nei sogni che immaginava spensierata gioia e la fuga dal corpo armato, o sgattaiolare peggio d'un furetto per scorciatoie e pertugi segreti era diventata una routine quotidiana. Ma quel che era convinto di sapere era che non importava quanto provasse a nascondersi, quanto poteva trattenere il respiro per non essere scoperto: doveva avere un microchip nelle sue vene, nella carne, nei singoli capelli di quella chioma cioccolata. Perché, vi chiedete? Mai stato più chiaro.
Con la fronte aggrottata e madida, poggiata alla rugosa parete, e le mani strette a pugno, sentiva i nervi pulsare e attorcigliarsi. La serenità di quella nuova soleggiata giornata s'era dissolta, come polverizzata era la fiancata destra del muro grinzoso, alla pressione del calcio maestro. E ora si trovava lì, imprigionato tra quello che avrebbe dovuto avere la funzione di "nascondiglio", ma che, come tutti gli altri, lo aveva tradito, e una gamba fasciata da uno stivale di gomma nera, il fiato sulla nuca. Ah, la punizione. Gli mancava sì o no da 24 ore, ovvero la mattina precedente.
«Eren Jaeger.» soffiò tenebroso e scuro in volto. La sua schiena era leggermente curvata e il braccio sinistro posava il gomito sul ginocchio che bloccava una delle due possibili uscite. Forse, era ancora in tempo.
«L-Levi Heichou...» commentò incerto. Malediceva la sua insicurezza: per quanto quella voce minacciosa risuonasse nelle sue orecchie giorno dopo giorno, la paura che decidesse di aggravare improvvisamente il rimprovero, lo faceva affogare in una costante soggezione. Ma più seguitava a non muoversi, più rischiava che la situazione peggiorasse. E come, vi chiedete? Mai stato più logico.
«La tredicesima volta, Jaeger. La tredicesima in un mese.» rifletté calmo e severo. Ma poi un ghigno divertito gli alzò un angolo della bocca, scoprendo una dentatura priva d'ogni minimo difetto. «E così ti piacciono molto le mie punizioni.» ecco che via via prendeva piede quel presentimento che gorgogliava sulla gola: la faccenda iniziava a sfuggire di mano. «Ma a quanto pare, addetto alle pulizie e servo personale non bastano...» Probabilmente la faccenda aveva imparato a correre molto più veloce di quanto ricordasse. «Vuoi proprio che ti metta le mani addosso?» Decisamente, troppo veloce.
Per quanto avesse voluto rispondere con un "no" secco, fermarsi a discutere non rientrava nel suo programma. Lui doveva andarsene, al diavolo tutte le minacce e provocazioni. Non poteva permettersi di venire nuovamente coinvolto in uno scontro che lo vedeva come trofeo. Proprio non poteva, non voleva.
Ammiccò un passo alla sua sinistra, ma un'ombra che riconosceva molto bene oscurò la figura del giovane. Tremante e solo dopo aver deglutito più volte, alzò gli occhi al cielo. Svolazzava leggera la famosa sciarpa rossa, i setosi capelli neri soffiati al vento. Ma lo sguardo era tutt'altro che amorevole.
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Due Calamità e Mr. Sfortuna
Fanfiction"Come lupi che si avventano sulla preda, Levi e Mikasa erano le sue calamità, due belve selvagge e assassine, pronte ad ottenere un verdetto di condanna sulla controparte. E lui? Beh, lui era nientemeno che Mr. Sfortuna in tutta la sua brillantezza...