C'era una volta..
Era l'anno della maturità, il mio anno della maturità.. ciondolavo ogni mattina ai bordi della strada, la solita vecchia strada maleodorante che da casa porta alla stazione/dalla stazione a casa, percorsa migliaia di volte trascinando i piedi pesanti, saltellando sulle pozzanghere grigiastre d'acqua piovana, calpestando le foglie croccanti..
Mi fermavo solo un attimo al mattino, per assistere al sorgere del sole dietro uno di quegli abomini di cemento dentro cui ci scaviamo una casa e che arrediamo con operosa cura.. il cielo si velava di sfumature rosa e dorate, il mondo intorno frenava il suo frenetico volteggiare per lasciarsi innamorare un po’ da quel miracolo, ed io con lui.. facevo incetta di quei colori, me ne riempivo le tasche dei jeans, e poi mi costringevo a proseguire la mia corsa verso scuola..
La pompa di benzina, l'autofficina, il panificio, la macelleria.. le strisce pedonali, l'istituto alberghiero, uno spazio vuoto che si popolava di maschere e zucche ad Halloween, di luci e palline d'ogni sorta a Natale, di cuori gonfiabili a S. Valentino.. la panchina, su cui qualcuno si era assopito ubriaco la notte prima,magari sperando che al risveglio sarebbe tornato tutto a posto. Ma chiunque fosse, ogni mattina subiva la stessa amara delusione. Quindi la stazione..pochi binari impolverati, un McDonald's, un affollatissimo bar che emanava un inconfondibile odore di caffè.. e tutt'intorno gente, tanta gente; gente indaffarata, gente con la valigia, gente che viene, gente che va, e chissà poi dove, chissà poi perché. Mi divertivo a scrutarne i volti assonnati, incazzati, annoiati, indispettiti, assorti, i riflessi di pensieri e ansie dietro gli sguardi persi nel ripetersi di giorni sempre uguali, senza sorprese.. immaginavo la storia di ognuno, la vita dentro quei giubbotti, dietro quegli occhiali scuri, le parole che quelle labbra non riuscivano a pronunciare, le preoccupazioni che aggrottavano le sopracciglia, il lavoro che li costringeva a viaggiare ogni giorno.
Li sentivo vicini.. dopo tre anni da pendolare condividevo i loro scoglionamenti e le loro sommesse imprecazioni, li capivo e mi sentivo capita, un po’ come a casa. Scendevo a patti con l'orologio e con la vocina che annuncia i treni per fumare un po’, quel poco che bastava a bucarmi lo stomaco dopo il caffè non-preceduto dalla colazione. Caffè bollente e sigaretta.. il fumo sulle mie svogliate mattine, il fumo fra i miei capelli scapigliati, fra i miei pensieri disordinati e appassionati.. un velo di fumo sul mio silenzio, che nessuno riusciva a rompere.
Non è proprio liscia,non va così liscia per noi che chiediamo "che or'è?
cantava il Liga dalle cuffie alle vene, e mi perdevo nelle parole di quella canzone, scritta per chi ha gli occhi sgranati, le pupille fisse sull'orologio e si chiede insistentemente se ha fatto bene, se ha goduto del tempo concesso, se ha costruito qualcosa.. o se è semplicemente stato uno spettatore passivo della vita che gira, che non ha girato bene dalle sue parti e non è riuscito a prenderla in tempo per farci qualcosa di buono. Io ero fuori tempo. Avevo solo carta e penna.. i soliti amici, la mia sbadataggine cronica, e un appena percettibile ghigno di sufficienza che dedicavo alla società che non faceva altro che annoiarmi. Per il resto,vivevo con il costante sentore che qualcosa di straordinario, da qualche parte, aspettasse proprio me, e fremevo anche solo nell'attesa di voltare un angolo, certa che prima o poi avrei trovato qualcosa che meritasse la mia attenzione.
Ero viva.. in religioso silenzio o in convulso frastuono, io c'ero.. e il mondo intorno parlava con me in una lingua che solo io e lui capivamo, come un codice segreto bisbigliato dai bambini. Fronteggiavo decine di disavventure ogni giorno, prima di varcare il grande cancello della succursale, ed entrare in cortile.. lì ero finalmente al sicuro. Ad aspettarmi, i miei compagni di sigaretta in bagno, i miei compagni di impreparato in fisica. I sorrisi più maledettamente contagiosi che avessi e che avrei mai visto. Erano loro, il mio senso del dovere, il mio coraggio, la mia ironia, la mia pazza voglia di fare, di dimostrare che potevo spaccare il mondo fra due dita, che potevo essere di più. Ricordo nitidamente l'aroma di quei giorni, la frenesia di berseli tutti fino all’ultimo alcolico zuccherino sorso.. le ultime interrogazioni, le tesine.. e tutto il caos di pre-durante-post esami di maturità. Ma il mio sguardo, da un po’ di tempo, oltrepassava la barriera dell'immediatamente visibile.. lì fuori e qui dentro, avvertivo un sentore di cambiamento che non lasciava spazio a scuse né attese. A condividere le mie pene e le mie turbe mentali quei sorrisi contagiosi di cui sopra, con i quali era diventata solo questione di sguardi. Ad ogni mio sguardo ne corrispondeva uno uguale e contrario, come per una assurda legge fisica che avevamo inventato per capirci al volo, senza la necessità di aprire la bocca, stanchi com'eravamo di tutto quel correre su e giù per le anguste stradine dell'esistenza, stanchi come eravamo di sprecare il fiato. Fu lo sguardo morbido di Fabio una mattina a distrarmi dal mio fitto vagheggiare e a riportarmi col culo al di qua..
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FORSE UN ROMANZO
Short StoryEmozioni adolescenti e racconti di fine liceo, musica rock e sigarette spente su giorni incerti, e vita che corre nelle vene.