La mia vita è un disastro

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Il clima di questi primi giorni di aprile è particolarmente mite. Sole, fresco, un'esplosione di colori fulgidi e brillanti, la primavera che rifulge sembra un invito irresistibile a dare il meglio: non solo la natura risponde, tutta la città si è fatta più bella. La pioggia arriverà, ma più avanti, senza spegnere gli eccessi dell'estate in arrivo.

Io ho appena compiuto 32 anni e la mia vita è un vero disastro. Da un giorno all'altro, dopo quattro anni Luca ha deciso di dare un taglio alla nostra relazione e il lavoro nel quale mi sono buttata a capofitto per non pensare a lui, a noi, si è fatto più precario che mai. Dopo l'incidente in cui ha rischiato di lasciarci la pelle, Marco ha deciso di chiudere lo studio. Entro un paio di mesi io e i miei due colleghi ci ritroveremo senza stipendio, o con un mare di debiti se accetteremo l'offerta del grande capo di rilevare l'attività.

La ciliegina sulla torta me l'ha servita Matteo, il padrone di casa, grande amico di Luca ai tempi dell'università: una sera a cena in cui non ho praticamente toccato cibo come al solito in questi mesi, dopo averci provato con me in maniera talmente goffa da farmi pensare che non facesse neanche sul serio, mentre ancora tentava di sfregare il suo piede tra i miei, mi ha comunicato di avere intenzione di vendere il monolocale in cui abito. Confida di concludere un buon affare presto, entro l'estate. Potrei acquistarlo io, naturalmente. Come se l'affitto "di favore" che gli verso da due anni non fosse abbastanza esoso da impedirmi qualunque risparmio. Luca è montato su tutte le furie quando gli ho raccontato di quella serata in una delle interminabili telefonate quotidiane cui lo costringo da quando mi ha lasciato. La gelosia è l'ultima cosa che lasciamo andare quando chiudiamo una relazione.

Sembra proprio che tutti gli uomini di cui sono circondata si siano coalizzati per complicarmi la vita, renderla triste e difficile. Tutti tranne mio padre. Ci vediamo poco, cerco di evitare le visite a casa dei miei in questo periodo per non sentire i loro sguardi preoccupati che mi seguono di stanza in stanza, le mille domande senza risposta su amore, casa, lavoro, le imprecazioni contro Luca - che improvvisamente scopro non essere mai piaciuto a nessuno -, per non mettergli sotto gli occhi il fallimento della loro bambina, nonostante tutti i sacricifi fatti. Sono la piccola di famiglia, ma pure la ribelle: hanno disapprovato compagnie e stile di vita da adolescente e durante l'università. Non che fossi particolarmente dissoluta, ma volevo i miei spazi, ero curiosa, di certo più trasgressiva di mia sorella maggiore - lei meriterebbe un capitolo a parte - ed era estremamente facile disobbedire alle regole severe di mio padre, un uomo all'antica, tutto d'un pezzo, abituato a badare a se stesso e lavorare sodo fin da bambino per tirare avanti; il tempo libero non è una categoria che gli appartiene. Nonostante gli scontri, nonostante l'odio per quei modi severi e le restrizioni che mi imponeva, non mi aveva mai deluso, sempre pronto com'era a provvedere ai bisogni di tutta la famiglia. Ora che stava diventando davvero vecchio e che a scontrarmi con il mondo del lavoro e la fatica di tirare avanti ero io, cominciavo a provare sempre più tenerezza per quei suoi modi burberi e di poche parole.

A Pasqua non ho potuto esimermi da fargli visita. Dopo pranzo, mentre bevevamo il caffè, mia madre, preoccupata, ricomincia con le sue mille domande. "Statte zitta!" la rimbrotta lui col suo colorito accento napoletano, "Lascia stare a piccirella. Non tieni i piatti da fare?".

Una volta rimasti soli mette via la tazzina di caffè, mi guarda negli occhi e con fare rassicurante di chi sa sempre come cavarsela mi dice: "Se dobbiamo parlare con qualcuno a Milano..."

"Pa'..." faccio in tempo a dire mentre mi sento esplodere per la tensione. Ma lui mi sorrise calmo e rassicurante, mi attira a sé come quando voleva consolarmi da bambina dopo una sbucciatura o un rimprovero, la faccia premuta contro il suo petto. Mi pare di sentire ancora l'odore dell'officina che si portava addosso allora. Mi sciolgo in un pianto tanto disperato quanto sommesso, singhiozzando e tremando tra le sue braccia forti. Non diciamo più una parola: lo sento fremere di rabbia per l'impotenza, eppure riesce a trasmettermi solo calma e sicurezza.

Devo assolutamente fare qualcosa per tirarmi fuori fuori da questo vicolo cieco nel quale sono finita.



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