Capitolo 8

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La mattina seguente, Luke si preparò con un'estrema cura, pettinando i capelli per bene, mettendosi il suo vestito più elegante e utilizzando il suo profumo preferito. E dire che doveva andare solo a colazione.
Era circa un mese che saltava quel pasto importante, ma da quel giorno voleva fare il possibile per non evitare Michael, anche se il suo cuore continuava a giocargli brutti scherzi. Luke aveva paura del suo cuore. Spesso quest'ultimo era in contrasto con la mente, più razionale, più attenta a non cadere nelle trappole della vita. Ma il cuore invece decideva per sé e Luke avrebbe voluto strapparselo pur di non provare emozioni che gli facevano paura, come quella che provava quando era chiuso nel labirinto degli occhi di Michael.
Luke aveva paura del suo cuore, ma quella mattina lo accontentò e scese nella sala della colazione.
Nonostante fosse presto, la sala era già piena come ogni mattina. Il pianista non era abituato a tutta quella confusione, aveva dimenticato quanto fosse fastidiosa la gente appena alzata. Il suo sguardo si perdeva tra la folla, in cerca di una divisa verde militare e i capelli perennemente arruffati che continuava a sognare ogni notte.
"Buongiorno Luke.". Sentì la sua presenza alle spalle e balzò per lo spavento, senza voltarsi. "Buongiorno Michael." sussurrò piano, cercando di calmarsi con respiri profondi. Si girò lentamente verso di lui e il suo sorriso lo colpì come un mare in tempesta, come una lama tagliente dentro al petto. Faceva male da morire quel sorriso, però Luke sapeva già dentro di sé che non poteva farne a meno.
Le labbra carnose di Michael si schiusero ancora di più, rendendo il sorriso ancora più luminoso. Luke cercò di ricambiare, ma la sua anima era troppo scombussolata per mostrarsi in un gesto così semplice, così dovette limitarsi ad un mezzo sorriso che probabilmente sembrava più una smorfia.
"Tutto bene?" chiese il soldato, spegnendo quel sorriso e corrugando la fronte.
"Sì." mormorò Luke, ritentando un sorriso decente.
Michael si rilassò e ricambiò, con gli occhi che brillavano più del solito. "Ho troppa fame! Hai già mangiato?" domandò all'altro, stiracchiando le braccia e sbadigliando apertamente.
Luke lo guardò quasi intenerito, scuotendo la testa in risposta.
"Allora andiamo a cercare qualcosa da mettere sotto i denti, dai."
Il soldato afferrò la manica della giacca di Luke, trascinandolo attraverso quella folla, tentando di avvicinarsi ai tavoli sovraffollati.
"Aspettami qui." sussurrò all'orecchio del pianista, prima di scomparire tra la gente.
Luke ebbe un tremito per la posizione ravvicinata in cui Michael aveva pronunciato quelle due parole, ma anche perché quella mattina, il soldato era maledettamente bello. Mentre lo aspettava si ritrovò a pensare a quanto gli stesse bene quell'uniforme verde che faceva risaltare i suoi occhi. Si ritrovò a pensare ai suoi capelli disordinati che lo attiravano così tanto. Si ritrovò a pensare alle sue labbra, rosse come una mela da mordere, succhiare, assaporare.
Infine, si ritrovò a pensare al fatto che tutte quelle cose, le pensava ogni santa notte.
Lo vide rispuntare con un piatto e due bicchieri dall'ammasso di servi e soldati che lottavano per avvicinarsi al tavolo. "Andiamocene." pronunciò svelto, sorridendo a Luke che faticò ad obbedire immediatamente. "Forza andiamo!" lo incitò ancora Michael, muovendo il capo in direzione della porta d'uscita.
E Luke lo seguì, anche se dopo tutto, non aveva per nulla fame.
Il Palazzo d'Inverno era enorme, infinito. C'erano 1057 stanze, 1786 porte e 1945 finestre, un labirinto di mosaici, oro e quadri spettacolari.
Michael sembrava essersi ambientato bene ormai in quell'edificio, tanto da conoscere quasi tutti i corridoi. Luke invece, che non usciva mai dalla sua camera se non per le lezioni ad Anastasija e a Marija, non aveva mai visto quei settori del palazzo in cui il soldato lo stava trascinando.
Camminarono per svariati minuti, Michael davanti a fischiettare qualcosa e Luke pochi passi dietro in assoluto silenzio. Ad un tratto il soldato si fermò di botto e per poco Luke non andò a sbattere contro la sua schiena.
"Eccoci qui." sussurrò, aprendo la porta davanti alla quale si era fermato. Entrarono in una stanza piccola, quasi al buio eccetto per una finestrella alquanto malandata. Tutti i mobili erano coperti da lenzuoli bianchissimi, il pavimento di marmo era ricoperto da almeno due strati di polvere, se non di più.
Luke storse la bocca, in segno di disapprovazione e Michael rise di gusto guardando il volto dell'altro contorcersi.
"Scusa, lo so che non è una stanza lussuosa, però è una delle poche che non viene utilizzata da nessuno." spiegò il soldato, porgendo a Luke il piatto i bicchieri. "Tieni un attimo."
Si allontanò dal pianista per spalancare la finestra, facendo entrare così un po' di aria pulita e fresca, anche se si gelava. Luke rabbrividì ma cercò di non pensare al freddo, "Mi porterò qualcosa di più pesante la prossima volta." pensò tra sé e sé, come se una 'prossima volta' fosse scontata.
Michael prese uno di quei lenzuoli bianchi che coprivano uno dei mobili e lo tirò via, facendo alzare un sacco di polvere. Sotto quel manto, vi era un divano bianco con dei ricami in verde, che richiamava i colori del Palazzo. Il soldato si avvicinò nuovamente a Luke, riprendendolo per una manica della giacca. "Vieni, sediamoci." sussurrò.
Il pianista lo seguì, sedendosi accanto a lui, col piatto sulle ginocchia e i due bicchieri in mano, ma incapace di muovere un muscolo. Michael gliene sfilò dalle dita uno dei due, iniziando a sorseggiare il contenuto.
"Ho preso il tè nero, perché non conosco nemmeno una persona a cui non piace, quindi suppongo piaccia anche a te."
Luke annuì, stringendo fra le mani il bicchiere con il tè caldo come, ormai di routine, le sue guance. Guardò il piatto sulle sue gambe contenente, adesso che ci faceva attenzione, due fette di pane bianco, due di pane nero, un vasetto piccolo di marmellata e un coltello. Era completamente paralizzato, lo stomaco si contorceva e Luke era sicuro che nessuna forma di nutrimento sarebbe passata da lì.
Michael finì il suo tè nero, rattristandosi e preoccupandosi un po' per il pianista. Lo vedeva in tensione, completamente spiazzato da quella situazione, sicuramente nuova per lui. Gli tolse il piatto grande d'acciaio dalle gambe, poggiandolo sul divano e si alzò. Luke lo guardò stranito, mentre l'altro si avvicinava ad un altro mobile coperto da un altro velo bianco. Sfilò proprio quest'ultimo, rivelando un vecchio pianoforte a coda, non troppo piccolo che occupava praticamente metà stanza.
Gli occhi di Luke si illuminarono improvvisamente e un sorriso sincero comparve sul suo volto, facendo perdere qualche battito ad Michael. Il pianista si alzò di scatto, come attirato da quel piano antico pieno di polvere.
"Ho scelto questa stanza perché sapevo che c'era questo aggeggio qua che poteva interessarti." spiegò il soldato, poggiando la mano sul pianoforte.
"E' bellissimo, è di una marca pregiata tedesca costosissima. Non ne avevo mai visto uno di presenza." mormorò Luke, sfiorando i tasti ormai logori del piano.
Provò a premere uno di essi, ma il suono che ne uscì era orripilante, segno che il pianoforte era scordato.
"E' la prima frase completa che ti sento dire." sussurrò Michael con un tono angosciato.
Luke staccò le dita dal piano lentamente, stringendole in un pugno. Teneva gli occhi bassi, fissi sul piano intarsiato da splendide decorazioni. "Mi dispiace. Non è colpa tua."
A Luke non piaceva giustificarsi, ma in quel momento sentì il bisogno di far sapere a Michael che non era colpa di quest'ultimo. Era soltanto colpa sua se non riusciva a pronunciare parola con gli sconosciuti, se aveva paura di sbagliare a parlare, di dire cose errate che potessero offendere la gente. Era solamente colpa sua se lo stomaco era in subbuglio ogni volta che vedeva Michael, se non riusciva a comunicare con lui perché troppo bloccato dalla mente. Era colpa sua se il cuore voleva ribellarsi ma non glielo permetteva.
"Perché dici così?" chiese Michael, sorpreso dalla risposta del pianista. Si avvicinò a lui col desiderio di sfiorargli per la terza volta la guancia, ma si limitò a carezzargli invece il dorso della mano chiusa in un pugno.
"Perché sono un disastro con le altre persone."
Luke sorrise amaramente, mentre regalava ad Michael questa confessione. Il soldato restò spiazzato da essa e fece scivolare le sue dita sul polso dell'altro stringendolo dolcemente. Aveva notato il leggero tremolio di Luke, aveva notato la voce leggermente spezzata e in quel momento più che mai avrebbe voluto abbracciare quel ragazzo di cui conosceva solo il nome e la professione.
"Sono un soldato, so affrontare i disastri." gli disse, tenendolo stretto tra le sue dita.
Gli occhi di Luke si riempirono di lacrime, ma con un groppo in gola, cercò di non farle scivolare giù sulle guance. "Mangiamo?" propose per cambiare discorso, sorridendo al soldato come non aveva mai fatto.
"Mangiamo." rispose Michael, con le labbra distese e gli occhi luminosi come prima.
Il cuore di Luke batteva in 'allegretto moderato'.

"Che palle questa storia, Ed."
"Taci Ash, tanto lo so che quando parlo di Michael e Luke pensi a te con Calum."
"Ok, sto zitto, ma non dire più queste cazzate."
"E allora perché sei diventato rosso?"

Dicembre 1916, San Pietroburgo.

Luke e Michael avevano fatto colazione insieme poche volte in quel mese, poiché i turni di guardia del soldato permettevano solo poche occasioni.
La routine era sempre la stessa: il soldato lottava contro la folla accalcata ai tavoli, prendeva del cibo per entrambi e fuggivano via il prima possibile.
La loro stanza segreta era testimone di infinite chiacchiere: Luke ormai si era sciolto, o quasi, e aveva iniziato a raccontare ad Michael un po' di sé stesso. Gli aveva raccontato che aveva ventidue anni, che era nato a Mosca dove aveva vissuto per circa sedici anni, prima di diventare discretamente famoso come pianista. Gli aveva raccontato ancora che la sua era una famiglia nobile e ciò gli aveva permesso di evitare la leva militare. Aveva una madre e due fratelli che amava più di sé stesso ai quali portava ogni compleanno tanti regali per farsi perdonare dell'assenza durante l'anno, ma comunque si sentiva in colpa. Gli aveva anche confessato che odiava i gatti e che la granduchessa Anastasija lo metteva in soggezione.
Di Michael invece aveva scoperto che aveva ventitré anni, che a sedici era stato costretto ad arruolarsi e che era stato mandato in guerra a diciotto. "La guerra non finirà mai, esiste da sempre e continuerà ad esserci." aveva detto amaramente, con lo sguardo perso nel vuoto. Luke aveva scoperto ancora che il soldato odiava le minestre, che avrebbe voluto provare il cibo occidentale e che quando si rattristava i suoi occhi diventavano verdi scuro.
Luke aveva sempre conosciuto soltanto due colori: il bianco e il nero. Il bianco, come i tasti del pianoforte ovviamente, ma anche della neve che cadeva giù in continuazione, ricoprendo tutto ciò che incontrava, dagli alberi del giardino del Palazzo alle case dei contadini. Il bianco degli argini del fiume Neva, il bianco dei muri che caratterizzavano l'edificio, il bianco dei vestiti delle granduchesse che erano sue allieve.
E poi c'era il nero. Luke il nero non lo aveva mai capito: sul piano musicale, era costretto ad usare i tasti neri. E fin lì tutto semplice, era il suo campo, sapeva in che dose somministrare quel nero alla gente.
Ma quando si trattava del nero dentro di sé, Luke proprio non si raccapezzava. La sua anima era un puzzle fatto di paure, continue preoccupazioni che si incastravano fra di loro formando un unico manto di angoscia nero. Il giovane avrebbe voluto tanto sfilarsi quel velo che lo copriva, che lo rendeva così fragile, ma non ci riusciva perché il freddo intorno a lui era troppo forte.
Non aveva nessuno con cui potersi confidare, da cui cercare riparo e calore. In fondo, Luke sotto quel manto nero, si sentiva protetto. Forse sbagliato, sì, ma comunque al sicuro in quell'involucro di silenzi e fobie.
Ma da quando aveva conosciuto Michael, qualcosa stava cambiando. Non esistevano più solo il bianco e nero, ma tanti altri colori, belli e brutti, che prima d'allora non aveva mai notato.
C'era il verde chiaro, ad esempio. Un verde splendente, bellissimo che si illuminava ancora di più con i riflessi del colore della neve. Luke iniziava ad amare quel colore, un po' perché gli dava pace e serenità, un po' perché era comunque il colore degli occhi del soldato.
C'era il verde scuro, un po' più triste del suo omonimo chiaro, poiché a Luke ricordava la divisa militare e quindi di conseguenza la guerra. La guerra era verde scuro, come l'ammasso di soldati dai cuori spaventati e i fucili puntati. Verde scuro, come le foglie macchiate del sangue di uomini che perdevano la vita per un'ideale che non apparteneva a loro. Verde scuro, come le pianure delle cartine che aveva visto una volta nella stanza dello zar che rappresentavano i luoghi dell'Europa divenuti nemici.
C'era il rosa chiaro della pelle di Michael. Pallido, delicato, morbido che Luke avrebbe voluto toccare senza mai fermarsi, facendo scorrere le sue dita su qualsiasi lembo rosa dell'altro ragazzo. Sfiorandolo leggermente o magari anche facendo pressione, per imprimere su di essa il suo marchio invisibile. Avrebbe voluto assaggiarla, un pensiero che teneva nascosto negli antri sperduti della sua mente. Con le sue labbra, avrebbe voluto assaporarla e gustarne ogni minimo particolare, come si fa con i piatti più prelibati.
Luke, grazie a Michael, aveva conosciuto un sacco di colori.
Eppure ce n'era uno che gli faceva particolarmente paura.
Il rosso.
Rosso come il sangue di millenni di storia russa, di guerre e battaglie inutili che avevano sconvolto milioni di vite. Rosso come le esplosioni delle bombe a mano, delle urla dei soldati e delle madri a casa alla notizia dei loro figli morti.
Rosso come quell'entità che, a detta dello zar, stava intaccando l'impero: il comunismo.
Rosso come le labbra carnose di Michael, da mordere e succhiare fino allo sfinimento, e ancora dormire su quelle labbra, sognarci e magari svegliarsi col sapore del soldato dentro la bocca e dentro le ossa, come il migliore dei veleni.
E Luke non era sicuro di voler permettere a quelle labbra di strappare a morsi il velo nero che lo avvolgeva.

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