Molti anni fa, nell'America statunitense, Atlanta era conosciuta per le sue credenze popolari. C'era chi riteneva importante non guardare indietro quando si percorreva un rettilineo, oppure non prendere la tredicesima fermata per chissà dove. Ma forse ciò che era più temuto era un ammasso di capanni in periferia. Vi viveva un uomo sulla sessantina, capelli macchiati ancora dalle ultime chiazze caffellatte, una mania per la religione e i veleni.
Secondo le testimonianze che mi sono raggiunte, sembra che la sua solitudine, la sua devozione e la sua passione lo avessero trasformato in tutto fuorché normale. La gente diceva di sentirlo ridere mentre parlava da solo, e il solo suono maniacale della sua risata impauriva chiunque.
Usciva di tanto in tanto, dicono i testi, e comprava caramelle, mappe della città, merce d'ogni tipo. E poi la gente si chiudeva in casa. Era iniziato il suo gioco.
Attendeva con pazienza fino all'arrivo di qualche bambino, stranieri in cerca di informazioni, chiunque fosse attratto da lui. Che fosse per curiosità, necessità o qualsiasi altro bisogno, lui non faceva differenze. Perché significava una cosa sola: tutti coloro che lo cercavano erano destinati all'inferno.
Era stato Dio a dirglielo, ad affidargli un compito che andava oltre le possibilità del resto del mondo: "L'inferno non ha più spazio. Puniscili per me con la vita eterna" era stato il suo ordine. Sentendosi prescelto, aveva condotto esperimenti ogni notte attendendo un unico risultato, quel per sempre che avrebbe chiuso la catena in un continuo ciclo, senza fine.
Una sola fiala di soluzione in vena, e la Terra avrebbe ospitato la nuova fornace di peccati.
Il braccio gonfio pulsava tra gli affanni di una spasmodica febbre, mentre le risate non lo abbandonavano per un secondo. Il suo sacrificio era un bene necessario alla distruzione; il suo martirio lo vedeva artefice della nascita di un nuovo impero. Un impero di erranti, ambulanti, cadaveri strappati all'inferno. E tutti di un unico capostipite: il suo morso viscido e maleodorante.
Benvenuti, quindi, nella storia.
***
"O cara speranza,
quel giorno sapremo
anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Sarà come smettere un
vizio,
come ascoltare un
labbro chiuso.
Sarà come un
vecchio rimorso,
o te sola allo specchio."***
Flashback 「Rin & Len」
La via si nascondeva fra cespugli selvatici e lunghi tappeti erbosi, grilli e cicale facevano da accompagnamento alla silenziosa e umida notte. Rin stringeva la pezza rattoppata del coniglietto in tessuto, mentre Len la trascinava premendole il polso, come per scaricare la tensione, come se quel contatto potesse evitare le lacrime rigargli il volto. Piangeva lei per entrambi, lasciando che le stille si seccassero alla fredda aria della sera. Eppure non un singhiozzo, non un grido, sfuggì dalle sue labbra per tutto il tempo. Len si portava dietro la grande valigia del padre, la stessa grande valigia che usavano come automobile a due posti solo tre anni prima, quel gioco fantasioso che tanto amavano. Non era pesante: pochi abiti ammucchiati alla rinfusa e gli avanzi di cibo sarebbero anche stati abbastanza per una sola giornata di viaggio. Ma i loro visi erano sfatti, gli occhi vuoti e un magone fermo sulla gola, le ginocchia tremavano ad ogni passo per il freddo, la fatica e il dolore.Il tempo per riposare, per sciogliere gli aghi della tristezza, per evitare gli errori, non c'era. Il tempo non c'era mai per nessuno e la fortuna non era da meno.
***
Len si era fermato improvvisamente alla stazione ferroviaria, gli occhi vigili e sgranati, la sorellina appisolata sulle spalle, la valigia stretta e salda fra le dita. Un'alta ed elegante figura sul ciglio dell'ingresso del vagone s'avvicinò con un cordiale sorriso.
«Buonasera signorino Kagamine, sono il maggiordomo che ha l'incarico di scortarvi da milady Miku. Seguitemi, per favore.»
Il biondo non se lo fece ripetere e seguì passo passo l'uomo di mezza età in giacca e papillon. Il treno correva sui binari stridendo malamente e cigolando di tanto in tanto, mentre Rin raggomitolata sul sedile nascondeva il volto assonnato nella manica destra del maglioncino di Len. Len fissava intensamente il cielo trapunto da due sole stelle, la luna inesistente.
«Len, dove sono mamma e papà...?» Sussurrò la piccola Rin tra sbadigli e sospiri.
Il gemellino l'avvolse in un forte abbraccio, di possesso, di paura. Paura potesse perdere anche lei.
«Sono ancora in città, Rin.Torneranno.» Ma era proprio queltorneranno a preoccuparlo, senza un quando e senza un come, senza veramente sapere chi sarebbe tornato. Ad essere sinceri, a lui non interessava saperlo, essere in grado di proteggerla era l'unico pensiero fisso nella sua mente.
Il maggiordomo li ammirava beatamente assorto, mentre il volto si dipingeva di tenera gentilezza. Eppure non sapeva che un solo amorevole sorriso ricordava loro il baratro senza fine, la morte.
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Deathless ➵ Vocaloid
Fanfiction| Cross-over: Vocaloid, The Walking Dead | Pairings: Rin/Len - Miku/Kaito/Meiko - Gumi/Gumiya - Gakupo/Luka - Rin/Oliver | Avvertimenti: Kagaminecest! - Tematiche delicate | ❝ La morte Si sconta Vivendo. ❞ Quando Ungaretti scrisse, sapeva d'aver ra...