Così mi ritrovai di nuovo qua dentro, non ne potevo più...camminando lungo il sentiero centrale mi venivano già i brividi. Tanta gente malata, chiusa lì dentro, quelle luci così pallide, tutte accese, e le famiglie tristi, gente ridotta veramente male. Ogni volta che passo da un ospedale quasi mi distruggo.
Continuai a camminare ed entrai, era enorme, salii al primo piano, al reparto di neurologia...quel posto mi metteva una tristezza indescrivibile. Ci vuole molto coraggio certe volte, anche solo per entrare lì ce ne vuole tantissimo.
Eccola là, tutta la famiglia davanti al reparto di terapia intensiva, tutti ad aspettare. Poi i soliti saluti ipocriti: "Sei cresciuta tanto!", "Diventi sempre più bella!"; cercavano di staccare un po' il pensiero dallo zio.
Intanto mia madre parlava con Francesca e mio padre con Marco.
"Papà mi ha detto: se io dovessi morire prenditi cura di mamma" disse Francesca; parlava quasi con disinvoltura, ma a quella frase quasi le vennero delle lacrime agli occhi, le veniva da piangere ma si tratteneva. A volte ci vuole molto coraggio. Per tutto. Per sopravvivere.
Quel posto era orribile, sarà per quelle pareti bianco giallastre o per quella striscia verde sul pavimento, ma era comunque orribile, gli ospedali sono così, forse ti rassicurava il fatto che lì fossero tutti uniti, tutti un po' nella stessa situazione, tutti con un po' di solidarietà.
Quando uscii mi veniva da piangere, ma mi serviva coraggio e cercavo di resistere, ma non ce l'ho fatta, mi sono messa il cappuccio e ho pianto, quel caldo cappuccio peloso e celestino era forse il mio coraggio. Cercavo di non farmi vedere mentre piangevo, sarebbero partiti abbracci e commenti, ma volevo solo stare sola, sola nella mia mente, con la mia mente, io e lei.
Camminavo sulla punta del marciapiede cercando di non cadere, forse era infantile ma mi paragonavo alla vita dello zio, indecisa tra cadere o restare sul marciapiede.
Tornai a casa così, con il cappuccio in testa e i lunghi monologhi nella mia mente.