Unjust Life

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Unjust Life




"Non ti preoccupare, Thomas" singhiozza la donna, "la mamma... La mamma ti vuole bene!".


Gli accarezza le guance, gli scompiglia i folti capelli biondi; il bambino la fissa con i grandi occhi smeraldini, le afferra la mano, la stringe con le piccole dita. È tutto quello che può fare.


La donna si asciuga una lacrima con un singhiozzo, sul dito le rimane una sbavatura nerastra di trucco. Sa che non può sentirla.


Sa che non può risponderle 'Ci proverò' o 'Ti voglio bene mamma', ma glielo legge nello sguardo.


Sente anche la sua voce, quella voce che non riesce ad usare, rimbombarle nella testa dicendo 'Non andartene, mamma'. La sente, come il richiamo malinconico e supplicante di uno spettro.


Lo solleva e lo appoggia sul divano cigolante. Afferra il telecomando infossato tra i cuscini dai bordi sfilacciati e lo punta contro la tv; dal comodino su cui è poggiato, l'apparecchio si accende ed il piccolo soggiorno si riempie con i ritmi hip-hop di un qualche canale musicale, insieme al rumore scrocchiante delle interferenze.


"Mamma torna, Thomas. Mamma torna sempre, ok?" gli bacia la fronte e poi scappa via dalla porta d'ingresso.



Thomas rimane da solo, il segno rossiccio e appiccicoso del bacio sulla fronte.


Solo come sempre.


Fissa le rovinate immagini in movimento della televisione, senza riuscire a sentire nemmeno una nota. Il cantante muove convulsamente le labbra come fanno tutti intorno a lui, bambino di nove anni che non riesce a vivere come gli altri.


Thomas si alza dallo scomodo divano, corre in cucina e afferra dei fogli ripiegati sotto il frigorifero ronzante. È il suo nascondiglio.


Qualche volta gli è capitato di tagliarsi i polpastrelli, perché le schegge di vetro sono insidiose e si nascondono insieme al luridume sotto il frigo. Schegge brillanti e verdastre, come i suoi occhi; ogni tanto sente quando la madre fa cadere sul pavimento le bottiglie: lui si chiude in bagno, facendo scattare la serratura, e aspetta lì in mezzo alle trousse di colori variopinti sparse ovunque, fino a quando, passato un po' di tempo, esce dal suo rifugio.


Passa accanto alla madre che russa rumorosamente stravaccata sul divano o per terra, va in cucina, prende uno straccio e asciuga la birra con molta attenzione, cercando di raccogliere tutti i frammenti di vetro e di non lasciare il liquido in terra perché sa che altrimenti diventerà una macchia appiccicosa.


Questa volta per fortuna non si taglia: con i fogli stretti in mano torna in salotto, si siede sul tappeto grigiastro davanti alla televisione e dispone in ordine i suoi fogli spiegazzati davanti a sé.



Sono testi di canzoni



Thomas sa leggere, e il suo desiderio più grande è quello di poterle dire, quelle parole.


Alcuni testi glieli ha stampati mamma, perché vedeva che il figlio era molto interessato a quella musica che non poteva sentire, ma che mimava con le labbra.


Il bambino scorre con l'estremità dell'unghia sulle parole, poi si alza di scatto e guarda il televisore.


Imita un po' di street dance, incrociando le gambe e girando su se stesso, muovendo le mani in tutte le direzioni senza logica e senza regolarità.


Ed eccolo, il piccolo Thomas, immerso nella tetra miseria di quell'appartamento sudicio e disordinato, a imitare i suoi miti, le loro parole, i loro gesti con l'innocenza di chi desidera qualcosa con tutto il cuore.

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