Assecondò le grida della madre e ritornò in camera. Pochi minuti dopo, quando sembravano più calme le acque, uscì in silenzio di casa.
Le giornate di Vittorio si alternavano tra scuola, studio in casa e sprazzi di gioco al parco. Inutile dire che per il ragazzino, il quale aveva da poco compiuto otto anni, quest'ultimo era il più ambito e desiderato, anche perché il più rado.
Di frequente giocava con un suo compagno di scuola, Albert, il suo "amico immaginario". O almeno così era chiamato dai coetanei, a causa dell'esile corporatura e della quasi totale assenza di partecipazione in classe che lo rendevano trasparente agli occhi dei più. Ma non a quelli di Vittorio, che lo aveva preso sotto la sua ala protettiva passandoci assieme interi pomeriggi per provare a farlo uscire dal suo guscio.
Quel pomeriggio di settembre, ancora mite, Vittorio varcò la soglia di casa in direzione dell'abitazione dell'amico. Albert risiedeva in un quartiere piuttosto lontano rispetto a quello di Vittorio e il ragazzino impiegava circa quaranta minuti per raggiungerlo. Era sempre lui ad andarlo a trovare, tanto che anche la madre cominciava a chiamarlo malignamente "il tuo amico immaginario", non avendolo per l'appunto mai visto.
Il suo percorso si sviluppava in più tappe: l'edicola di Piazza San Giovanni da cui prendeva tutti i lunedì le figurine, il negozio di caramelle in Via della Liberazione, il Bar dello Sport in Via del Molino. La via ufficiale per la casa di Albert durava in realtà mezz'ora in più, ma Vittorio accorciava i tempi passando per la Pineta Serena, la più grande area verde della sua città. Era sconsigliatissimo andarci: qualche mese prima si parlava di strani riti accaduti di notte e di ritrovamenti di resti animali da cortile.
Vittorio non ebbe timore ad inoltrarsi tra la fitta vegetazione, nonostante l'alone di mistero ed il leggero vento che faceva vibrare le foglie ogni volta che varcava le recinzioni.
I pini più importanti avevano i nomi dei calciatori storici della squadra locale. Superò il Felice Moretti, il più vecchio, che ricordava il portiere che militò nella squadra degli albori fino ai cinquantatré anni; accarezzò il Fonseca, il veloce terzino sudamericano morto recentemente in un incidente stradale e si fermò davanti al Friedl, un alto abete rosso che portava il nome del goleador austriaco che segnava raffiche di gol nel secondo dopoguerra. Rimaneva sempre inebetito davanti a quell'albero che riportava alla memoria il suo calciatore preferito, anche se ne aveva sentito parlare solamente dai vecchi del bar e visto negli archivi in biblioteca. Un numero sette forte e robusto, dalla chioma rossastra e crespa, impossibile da inseguire nelle accelerazioni palla al piede.
In quel momento sentii un grido, come un ululato. Pensò all'inizio che fosse il vento, o le urla di bambini lontani, ma ogni minuto che passava le grida si facevano più acute e più animalesche. Il terrore cominciava a propagarsi dalle dita dei piedi fino alla punta dei capelli mentre le grida si facevano più lamentose e vicine.
Corse un po' a destra e un po' a sinistra. Un po' come faceva il suo beniamino, anche se come lui non vedeva i propri avversari dietro. Raggiunse per caso la quercia Terechenko, imponente centrale russo degli acerrimi nemici omaggiato per aver aiutato, durante la guerra, molte famiglie locali, e si riparò nell'insenatura dell'albero, aspettando la quiete. Da lì a poco i rumori smisero e Vittorio cominciò a fare capolino fuori dall'albero. Uscì dall'insenatura e si spazzo via la terra e le foglie dagli abiti.
Una grande forza lo colpì al fondoschiena facendogli perdere l'equilibrio. Ripresosi si girò.
-Mi spieghi chi diavolo ti ha dato il permesso di uscire oggi pomeriggio? Li hai fatti gli esercizi di grammatica? Perché non hai sistemato la tua camera? Che ci fai nella Pineta a quest'ora da solo? Andavi dal tuo amico Albert? Non è che in realtà è quest'albero? San Giuseppe! Ho un figlio che vede i morti! Speriamo non mi cresci dendrofilo... - e tante altre cose che Vittorio non riusciva a percepire, tanto era l'odio verso quella vita da segregato e il dolore numero 39 che gli aveva sconquassato l'osso sacro.
E pensò che sì, un giorno sarebbe successo.
Avrebbe ucciso sua madre.