Era il mio primo anno in quella squadra. Ero un giovane appena promosso dalla primavera e l'allenatore non mi aveva mai preso in considerazione, fino a quel momento. L'infermeria era in condizioni critiche e, per la partita successiva, l'unico portiere disponibile ero io. Il viaggio in pullman non era stato come gli altri. I miei compagni erano stranamente taciturni. Va bene, la nostra squadra non andava a gonfie vele, ma non andava nemmeno malissimo. Lo stadio non era molto distante dalla sede della nostra società e, in nemmeno un'ora, arrivammo a destinazione. Guardai fuori dal finestrone oscurato del pullman: da dietro le transenne il pubblico ci acclamava e mi sembrò che alcuni stessero anche per sentirsi male, tanta era la gioia nei loro volti.
Il pullman si fermò nel parcheggio sotterraneo, scendemmo e nessuno concesse alcuna intervista. Entrammo negli spogliatoi e iniziammo a prepararci. Misi la divisa da riscaldamento e mi incamminai verso il campo da gioco.
Sono sempre stato un tipo particolarmente resistente alle emozioni, ma calcare il terreno di quello stadio che, prima di me, aveva visto giocare campioni della storia del calcio, per un momento mi fece mancare il fiato. Gli spalti erano mezzi vuoti. Mi meravigliai di questo, perché la quantità di persone fuori ad acclamarci sembrava veramente immensa. Mi scrollai le emozioni di dosso e iniziai a scaldarmi, concentrato come sapevo di dover fare.
Pian piano lo stadio iniziò a riempirsi e, poco prima di rientrare negli spogliatoi, mi sembrò di non riuscire a scorgere nemmeno un seggiolino libero sugli spalti.
L'allenatore, anch'egli alla prima stagione nella squadra, restò calmo e sereno, anche se riuscii a scorgere un velo di agitazione nei suoi occhi mentre ci faceva il discorso prepartita. Ci raccomandò di giocare come sapevamo e di non farci prendere dall'emozione, questo lo disse guardando me, che agitato non ero. Il capitano fece partire l'applauso e tutta la squadra lo seguì, alcuni iniziarono anche ad urlare per scaricare la tensione.
Misi prima i calzettoni, poi le scarpette e successivamente i parastinchi. Infilai la divisa e, insieme ai miei compagni, iniziai ad incamminarmi nel tunnel antecedente al luogo della battaglia. Strinsi la mano ai miei avversari e, al segnale dell' arbitro, iniziammo a marciare. Il suono che proveniva dalla fine del tunnel era assordante e mi bastò mettere un solo piede su quell'erbetta, che fino a pochi minuti prima mi sembrava innocua, per capire che quella partita non sarebbe stata come la immaginavo. Davanti a me si ergeva un muro rossonero e, su un enorme striscione sostenuto dal pubblico, c' era scritto a caratteri cubitali:
«BENVENUTI NELLA TANA DEL DIAVOLO»
Compresi il silenzio dei miei compagni sul pullman e sentii che qualcosa dentro di me stava crescendo. Ero teso, spaventato, emozionato e orgoglioso di poter essere lì a rappresentare tutta la passione che i tifosi ci stavano dimostrando dai loro posti a sedere (che a sedere non erano più, dato che tutti erano balzati in piedi al nostro ingresso). Ci mettemmo in fila e i giocatori avversari ci strinsero la mano, stessa cosa facemmo noi con l'arbitro e i suoi assistenti.Mi assegnarono la porta sotto la curva sud. Il direttore di gara, una volta controllata la regolarità della situazione, fischiò l'inizio del match. Mi tremarono le gambe.
Oltre ad essere la prima presenza da titolare, era anche il mio primo Derby della Madonnina.