Forgive me first love.

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Sto dirimpetto, due passi dalla linea irregolare, spessa ed immensamente gialla di pericolo.
Se ci avevo mai pensato di non rispettarla o far finta di non saperne il significato? Sì, era capitato.
Ma importa? Sono ancora qua.
Infermo, malato, morente, ma son qua.
Oggi si torna a Bari.
È strano dirlo davvero, io che a Bari dicevo non ci sarei più tornato una volta all'estero.
E invece, scappo dalle strade grigie dell'entroterra Inglese perché sono stremato, soffocato.
Ubriaco di un amore che doveva finire.
Mi nasce un sorriso mentre cerco le sigarette nel giubbotto di pelle scura e smunta.
E non posso non trovarlo, perché le tasche sono così piccole che rischio di perderle sempre.
Quando mi decido a far scattare il meccanismo di piegamento della carta dura e rigida sorrido definitivamente.
Perché tra le sigarette, al posto di quella che lei aveva rubato uno dei nostri giorni ci sta un'incantevole margherita.
Appassita e morta, ma sta lì.
Un tempo, quando l'aveva tolta dal gambo di peluria, era succosa e piena, i petali, ora senza vita e marroni, erano bianchi come il sale. Il centro del piccolo fiore era del colore delle uova.
Ma non del loro involucro carne, e neanche della spuma bianca che si monta chiamata albume, no, più come il tuorlo che da piccolo mamma mi preparava con la frusta elettrica e lo zucchero.
Come lo adoravo.
Anche il gambo non è più paragonabile alla vita, ricorda solo un ramoscello esile e fragile color sottobosco.
Quasi nero, aggiungerei.
Tenere questo piccolo ricordo tra le mani fa male.
Ma fa anche bene.
Perché non è marcita, è restata la bella margherita che aveva tanto attirato la vista aguzza di Meg.
Megara, per così meglio dire.
Pensavate non si potesse chiamare così una mortale?
Ed invece i genitori, intellettuali follemente innamorati dell'arte, proprio come la figlia, avevano deciso di chiamarla con quel nome così elegante, che ti faceva rabbrividire al solo sentire.
Ma a me piace chiamarla Meg.
La mia Meg, che arriccia il naso e sorride quando si imbatte in qualcosa che non conosce.
Con i suoi capelli pomposi che profumano di pesca ed echinacea.
Perché "è lo shampoo che preferisco".
Lei e quella sua pelle così bella interrotta da delicati puntini scuri, a volte lentiggini a volte nei, che la facevano diventare la mia costellazione preferita ogni volta che il suo corpo nudo e gracile giaceva al mio e con le dita tentavo di unirli, quei punti.
Lei rideva senza motivo e riprendeva a baciarmi.
Le ripetevo che l'amo mentre si contorceva al mio tocco e rideva ancora così forte sulle mie labbra che diventava contagioso.
Un ammasso di verbi gettati al vento.
Passato e presente costantemente assieme perché è difficile raccontare di noi usandone solo uno.
Perché noi eravamo ma siamo, anche se divisi su rotaie difficilmente ricongiungibili, siamo ancora.
Siamo perché quella margherita è ancora qua e il profumo di pesca e echinacea è inebriante sulla mia giacca.
Siamo perché il mio giovane guardo si posa su donzelle sin troppo scarne e nude e il suo invidiabile corpo mi si ripresenta in mente.
Il suo viso soave, le sue altrettanto dolci dita.
Le sue parole, così poche e complicate che spesso le chiedevo che intendesse dire.
Perché Meg comunicava poco con le parole, tutto il resto stava a me capirlo.
Credo si divertisse, era il gioco più bello per lei vedermi perso nei suoi ragionamenti contorti.
Le piaceva prendersi gioco di me in quel modo così innocente.
Meg sta indietro di quattro anni, ma sembrava quasi raggiungermi quando stava sveglia con i gomiti al letto e le nocche a tenerle su la testa.
Parlava, parlava, parlava.
Discutevamo, talvolta, arrivavamo ad urlare ma non ci arrabbiavamo mai.
Perché la sua postura restava quella, la sua espressione tale, non si alzava, non puntava il dito, e così facevo io.
Stavamo stesi e parlavamo, poi ridevamo fino a quando si faceva mattina e il tempo passava veloce.
Poi ci alzavamo e le mie mani ruvide accompagnavano i fianchi di lei sino in cucina, dove mi obbligava alla sedia perché "a cucinare me la cavo meglio di te".
Perciò restavo ad osservarla, arrampicarsi sulle punte per raggiungere ante troppo lontane, fermarsi per riportare la camicia di seta sulle cosce che si rialzava a mostrarmi il fondo schiena di lei quando si protendeva di nuovo.
Perché Meg, con la sua grazia e la sua innocenza era tanto timida.
Timida anche di me, che l'amo.
Come si può essere timidi davanti a chi t'ama?
Ma infondo l'adoravo, adoravo le sue camicie per la notte.
Che poi non lo erano, perché erano le stesse che, lavate e ben stirate poteva indossare anche tra le donne di classe a cui Meg non importava il confronto.
Però lei era comoda, con quelle camicie di seta che le cingevano perfettamente i fianchi e le braccia fini.
Ne abbottonava solo uno dei due bottoni al polso e l'ultimo del collo prima era chiuso, ma dal mio arrivo era sempre aperto perché intravedere nella penombra del tessuto, leggero ma comunque filtrante, le fredde e spigolose ossa delle sue clavicole quando mangiavamo la sera ed era tardi che lei già stava comoda nelle sue camicie mi faceva scoppiare d'amore.
Perché l'amavo e l'amo.
Meg non adorava bere, quando alzavo il gomito lei diventava triste, e quasi sembra non m'amasse più.
Tutta curva e imbronciata nei suoi pensieri di pioggia e burrasca stava, ma le offrivo un misero ombrello per riparala e lei mi rivolgeva quello sguardo speranzoso, perché se le avessi sul serio offerto un riparo avrebbe così recitato: "A patto che la smetta di bere. Allora accetterò questo suo buon gesto, mio cavaliere." E io avrei riso prima di contornarle la punta del naso con le labbra per darle un piccolo bacio.
E sarebbe tornata quella di sempre.
A Meg piacevano tanto i giradischi.
Adorava le canzoni che io, con il mio animo da musica urlata, trucco e parrucco anche sul sesso maschile e note forti potevo distinguere in noiose.
Lei non si abbatteva mai quando le dicevo di cambiare canzone, non lo faceva e basta.
Rimetteva di nuovo il grande cerchio sulla puntina e cominciava una lagna infinita di accordi bassi al pianoforte e chitarre suonate con fragilità.
A volte osservavo le sue labbra che assorbivano a loro volta le note, e cantavano, poi i suoi occhi che lentamente si chiudevano e i suoi capelli che seguivano i movimenti mormorati dal suo capo, che si lasciava trasportare in spasmi e cenni alle note che scivolavano dolci ma insipide tra noi.
Quando capì una sera che la mia voce le piaceva, da quel momento non si stancò di sentirla.
Voleva le cantassi tutte quelle canzone che, prima di lei, mi facevano cadere le braccia morte alle parole triste che quelle donne cantavano.
Le canzoni cantate dal gentil sesso erano in minoranza, tutte più difficili e lontane dal mio calibro.
Alcune però mi attiravano come le api e il miele.
Erano cantate da uomini profondamente tristi nell'animo.
Con la loro voce graffiata, che Meg venerava.
La adoravo quando si lasciava alla mia voce e ballava per me.
Con quelle camicie che per l'occorrenza erano rosse.
Le sue braccia esili si alzavano al cielo, lei sorrideva e lentamente si esibiva a me, ed era tutto così intimo, così bello.
Non ci sarebbero state copie di quei balli, perché ogni volta era una persona nuova, ogni volta danzava allo stesso identico modo ma qualcosa era diverso.
Eravamo entrambi più vecchi di qualche notte, c'erano certe camicie che ormai erano di un rosso opaco perché consumate, e c'erano volte che i suoi piedi sfregavano la moquette nudi, altre in cui erano accompagnati dalla suola pesante che l'aveva sorretta poco prima, quando a casa non eravamo ancora arrivati.
Meg adorava leggere, adorava usare i suoi libri come un piano di vita.
Si scriveva promemoria per i giorni seguenti al fianco delle pagine appena lette, sporcava involontariamente i bordi della carta di cioccolato, sottolineava frasi e disegnava volti senza nome togliendo l'importanza alle lettere inghiottite ed inzuppate di colore.
Lei li viveva i libri, e quelli si crepavano allo spessore delle sue lacrime e si curvavano alla forma del suo cuscino.
Megara adora quelle storie tristi, dove ci si incallisce sulla morte dei protagonisti.
Meg adorava piangere per loro.
Piangeva sempre se si trattava di libri, perché lei era tutti i personaggi che incontrava, con i suoi occhi vispi e le labbra rosse.
Meg era così fragile che dovevo badare alle cose che dicevo sui suoi libri perché era capace di premere il pomello e scendere dalla macchina per continuare il tragitto, ovunque stessimo andando, da sola.
Perché lei leggeva sempre in macchina ed io adoravo commentare le righe che riuscivo a prendere ai frequenti stop.
Lei si scaldava se era una bella giornata, altrimenti se ne stava zitta e mi perdonava quando le mie mani dure e grandi le circondavano la gamba e le sue calde e minuscole mi accarezzavano.
Meg riusciva sempre a sorprendermi, perché non amavo il caffè ma perdevo sempre il sonno per colpa sua.
Per colpa del suo viso che sorrideva fissando il vuoto, dei suoi fianchi che mi mozzavano il fiato quando, uscita dal bagno, la sera, veniva tra le mie braccia sotto le coperte.
Mi faceva impazzire quando arricciava i miei capelli alle sue dita, quando mi costringeva a fare cose che erano nostre, che solo chi si accuzzava a cercarci tra le tende alla finestra poteva vedere, tranne noi, certo, tranne noi.
La adoravo quando, prima di portarsi alle labbra l'ampolla di vino che sceglievo accuratamente apposta per lei, tirava su il profumo con le narici e il suo sguardo sul mio bruciava, perché l'amo.
Mi guardava come se quello che le davo era veleno e lei ancora non era pronta a morire.
Poi beveva e si leccava le labbra piene di gusto, ma io la punivo del silenzio, e lei allora rideva, perché ancora una volta quel vino le piaceva.
Adoravo quando le sue dita circondavano i miei polsi e portavano le sue mani al suo ventre perché il mio corpo dietro al suo a cingerla la convinceva che nulla l'avrebbe portata via da me, che forte la tenevo e appassionatamente la baciavo.
Quando la baciavo mi sentivo quasi se non fossi io, perché quella ragazza era troppo per me eppure mi si intrecciava tra le dite e sbuffava sull'incavo del mio collo.
Adoravo i suoi sospiri quando facevamo l'amore, adoravo il modo in cui forte mi guardava e contorceva il viso perché lì, sul nostro dolce nido d'amore, si stava un incanto.
Adoravo le sue incertezze, quelle che si portava appresso nelle grandi tasche delle giacche in lana nera, o quelle che le se impigliavano come nodi ai capelli.
Adoravo che i suoi occhi mai mentivano.
Erano vispi ed attenti anche appena sveglia, che si rigirava nel letto e sussurrava il mio nome perché lì faceva immensamente freddo e che stessi alla sedia invece che a scaldarla non le stava bene.
Le sue unghie mi sfioravano spesso la barba quando decideva di poggiarsi sulle mie gambe ripiegate al bordo del letto.
Lei mi stava in braccio ed osservava in silenzio, poi mi protendevo per morderle il labbro inferiore, che stava sempre all'infuori e lei quasi perdeva l'equilibrio perché non voleva la baciassi.
Era persa nel mio sguardo perché m'amava eppure non gradiva il mio tocco perché era occupata a pensare.
La nostra storia si basava su fatti concreti e fantasie nostre, il passato ci apparteneva singolarmente, il presente lo vivevamo sfamandoci l'uno dell'altro e il futuro lo volevamo nostro.
L'imperfetto però era il tempo dell'eccellenza.
Ci stava del sublime che noi contemplavamo da lontano lì.
Perché era sempre escluso, in parte, insipido alle altre coppie di innamorati.
Perché noi non pretendiamo l'impossibile.
Noi non abbiamo mai scambiato progetti con promesse, non ci infiammavamo come  zolfo al fuoco, stavamo calmi e inermi ai giudizi.
Mise quella margherita nel pacchetto di sigarette perché alle sue due ne mancava una.
Per Megara è sempre stato una sorta di rito, restava giorni senza fumo e non protestava, eccetto nelle crisi in cui neanche il fumo le bastava, ma quando toccava nicotina non smetteva fino a numero perfetto.
Le sigarette sul piano erano sempre tre.
Bilanciate dallo stesso tempo, nessuna pausa.
E se io uscivo più volte con una sola per un solo accendino, lei usciva poco ma per star fuori tanto.
Ed in quel pomeriggio di sole il suo pacchetto era a quota due ed il mio ventisette.
"Che male c'è? I debiti son debiti, pagherò il mio pegno o ti ricompenserò della stessa moneta", perché in quei momenti in cui fingevo di non volerle far favore lei si atteggiava aggrappandosi forte a convinzioni, parolone e fatti matematici.
Mi pagava con la superbia ma sapevo bene di che pasta era fatta.
Allora avevo infilato la mano nella tasta, dove i tanti anelli spessi avevano tintinnato, e le avevo porto il pacchetto.
"Solo perché t'amo."
Lei aveva fatto andare le dita lente sopra la superificie fragile e poi ne aveva scelta una, che non stava in centro e non agli angoli.
Le cose scontate non facevano per lei.
Aveva poi strappato una dolce margherita, perché dove stavamo seduti, in mezzo al folto strato di erbacce che tanto bene fiorivano, se ne trovavano tante.
Ma aveva agito d'astuzia, aveva tagliato subito vicino al fiore, perché il gambo era lungo e avrebbe dovuto reciderlo con le stesse unghie un'altra volta se l'avesse preso alla radice.
"Debito pagato." E mi aveva stregato con il potere di uno sguardo, pieno di convinzione e sensualità che diavolo, quella donna era la mia.
Non mi ero trattenuto poi dall'osservarla lì, tra i fiori che si piagavano al suo lieve peso.
Ci andavamo spesso a quel prato, perché stare nell'imperfetto implicava andare in posti che nessuno calcolava.
Era un pò il nostro luogo, stavamo sotto il salice dai mille colori quando pioveva lieve, e se c'era il sole stavamo tra le gemme fiorite.
Sotto l'albero delle lacrime non ci stavano fiori, era solo terra.
Terra secca che al tatto non dava fastidio.
Meg portava spesso le sue barrette preferite, quelle alla ciliegia, del colore della sua bocca con il lucidalabbra.
Quando me ne offriva una la tenevo con cura, mangiando poco alla volta perché era come mangiare lei, e quando sarebbe finita, non ce ne sarebbe stata più per nessuno.
I baci di Meg sapevo in modo scontato di frutta, ma era un sapore spesso più sfumato, unito a quel qualcosa che non sapevo definire.
Respiravo pesche ed echinacea e assaporavo le dolci ciliegie estive ogni volta che mi lasciava anche un semplice bacio e le sue ciglia svolazzavano alle mie.

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