Mi sveglio di soprassalto da un sonno profondo. Appena spalanco gli occhi, intravedo le sagome scure dei pochi mobili che ho in camera. La flebile luce arancione dei lampioni li illumina entrando dalle grandi finestre coperte dalle veneziane polverose rimaste sollevate di qualche centimetro. Il mio cervello è sorprendentemente sveglio e, nel momento in cui me ne accorgo, mi chiedo se prima di andare a letto avessi impostato la sveglia. La mia mano, svogliatamente, sguscia fuori dal caldo piumone e, senza fare alcun movimento con le altre parti del mio corpo, tasto il tratto di cornice di legno che sostiene il letto sul quale solitamente appoggio il cellulare durante la notte. La stanza è talmente piccola che non esiste spazio per nemmeno un piccolo comodino. Dopo svariati tentativi e mugugni soffocati, riesco ad afferrare il cavo che lo collega alla corrente e, ripercorrendolo, trovo finalmente la mia "sveglia". Non appena il mio dito preme il tasto home, la camera si illumina a giorno e i miei occhi si strizzano istintivamente per non rimanere accecati. Passati alcuni minuti durante i quali continuo ad accendere quel maledetto aggeggio e cerco molto coraggiosamente di tenere le palpebre alzate, riesco infine a fissare lo schermo in cerca del simbolo che tanto odio. "Non l'avevo puntata, per fortuna mi sono svegliata" penso mordendomi il labbro inferiore ma, molto tristemente, mi accorgo che posso restare in quel caldo e morbido paradiso solo per un'altra decina di minuti. Nel frattempo mi giro su me stessa e, sotto alle coperte, visualizzo tutte le notifiche che mi erano arrivate ieri sera. Mail di lavoro, un'altra mail di lavoro, messaggio della buonanotte da parte di Hannah, "Oggi è il compleanno di Albert, fagli gli auguri!", a Cecilia piace la tua immagine di profilo. Ma prima di impegnarmi a rispondere a tutti cercando di scrivere qualcosa di sensato, accedo a Facebook per farmi un po' di affari degli altri e leggo l'oroscopo del giorno.
Con lo stesso coraggio con il quale ho affrontato la dolorosa luce, scendo dal letto appoggiando i piedi sul parquet gelido. "E ora come faccio ad andare in bagno? Maledizione! Ho bisogno di un paio di pantofole nuove". Desolata, però, mi rendo conto del fatto che si stia facendo tardi, quindi mi decido a soffrire pur di arrivare puntuale a lavoro. Ecco il classico esempio di chi si immola per una buona causa, che poi, se vogliamo dirla tutta, questa famosa "buona causa" io la chiamo "stipendio". Giorno diverso, stessa routine: doccia, capelli, trucco, vestiti, rifai il letto, colazione e di corsa giù per le scale più rumorose del mondo cercando di non svegliare nessuna delle mie coinquiline.
Mentre scendo la rampa che collega l'edificio biancastro all'accesso e poi alla strada trafficata da auto parcheggiate su entrambi i lati della carreggiata, vengo investita da un vento gelido, presagio di un autunno che ben presto sarebbe diventato inverno. Il mio sguardo punta il cielo plumbeo e la coltre di nuvole senza forma promette pioggia, ma non mi sorprende, dopotutto è Londra. Sistemo bene la sciarpa sopra al trench beige e, dopo aver collegato le cuffie al cellulare ed essermele infilate, con il mio passo svelto raggiungo la fermata dell'autobus. Il 98 mi porta fino a Tottenham Court Road e una camminata di dieci minuti mi fa arrivare a Covent Garden, quel piccolo centro felice e trafficato ogni giorno da migliaia di turisti. Scendo le scale velocemente, molti negozi sono ancora bui, ma Blanca, la manager del bar-ristorante di fronte alla pasticceria in cui lavoro, sta aprendo la porta, puntuale come sempre. "Buongiorno!" mi dice sorridente, l'animo ispanico risplende con lei. Ricambio il saluto e, disperatamente, reclamo del caffè. Dopo qualche minuto di chiacchiere e qualche risata, decidiamo che è ora di darsi da fare.
Per prima cosa sistemo i due piccoli tavolini di legno all'esterno e, con loro, alcune sedie; poi mi chiudo finalmente all'interno del locale che si intiepidisce mano a mano che i forni si scaldano. Una volta indossati il grembiule vermiglio e la toque, sono pronta per mettere le mani in pasta. Muffin, brownies, apple pies, cookies e molte altre delizie mi tengono occupata fino alla pausa pranzo. Il grande bancone si riempie e si svuota periodicamente con l'affluire ininterrotto dei clienti.
Lascio la pasticceria nelle ottime mani di Emma qualche ora dopo pranzo: la mia giornata lavorativa è finita.
La stanchezza della scorsa notte quasi insonne grava sulle mie palpebre, ma devo ammettere che, nonostante la fatica, ciò che faccio mi rende tremendamente felice. La pasticceria e più in generale la cucina mi avevano affascinata fin da bambina e, in quel momento, come metodo di sostentamento, stavo utilizzando la seconda tra le mie più grandi passioni per pagarmi gli studi (anche se i contributi dei miei genitori erano i più sostanziosi), l'affitto e la spesa. I doppi turni per me non erano una novità, anzi, solo una manna dal cielo. Più soldi entravano, meglio mi sentivo.
Le mie gambe affaticate mi portano alla lontana fermata dell'autobus e il 390, per grazia divina, non tarda ad arrivare. La vibrazione del cellulare mi aiuta a non addormentarmi a sedere durante il viaggio. È Hannah e vuole organizzare una serata a casa per dare il benvenuto al suo nuovo coinquilino, che immagino abbia scelto minuziosamente, sapendo quant'è schizzinosa. Nonostante la voglia di buttarmi a peso morto sul mio morbido materasso e di rimanerci distesa per sempre, il pensiero di non dover cucinare almeno per una sera mi alletta, ulteriore motivo per il quale decido di accettare l'invito con piacere.
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Lifetime.
General FictionGrace è una ragazza inglese che, per realizzare i suoi sogni e raggiungere la totale indipendenza, decide di trasferirsi nella città dalle infinite possibilità: Londra. Amicizie, studio e lavoro la risucchiano in un vortice dal quale ogni tanto vor...