Parte 3

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«E adesso?»
«Adesso dormi e domani ne parleremo.»
«Ma è già domani, Zayn. Sono le cinque del mattino.»
«Allora ne riparleremo quando ci sarà già il sole fuori, mh?»

Dieci ore prima.

Perrie non aveva la minima intenzione di perdere la testa. Non ci pensava nemmeno di passare delle ore allo specchio e poi davanti all'armadio per decidere cosa indossare o per cercare di essere cosa? Perfetta? Neanche per sogno. Aveva lavorato al suo saggio per tutto il pomeriggio, contenta di aver trovato la giusta ispirazione e sentendo quasi che tutte le convention tenute per Londra, la nuova capitale del mondo, incominciassero a dare i suoi frutti. Poteva veramente fare un'apologia sulla sua Parigi e sfatare tutti i falsi clichés che le ruotavano intorno. E poi, si diceva che a Zayn Malik, lei non doveva proprio nulla. Nemmeno lui a lei, effettivamente. Beveva una tazza di tè, poi riprendeva a scrivere e poi guardava l'orologio, per l'ennesima volta. 18:55. Da dove stava lei, le voleva veramente un quarto d'ora a piedi per raggiungere l'Atlas Centre. Eppure nonostante questo, in un mese non lo aveva mai incrociato per la sua strada. Assurdo. Scriveva un paragrafo e poi sbuffava, lanciando lo sguardo verso la camera da letto, perché sapeva che lì c'era il quadro. Alla fine, si decise che non aveva nessuna importanza, avrebbe potuto restarci male per un poco, ma la vita andava avanti e lei aveva già Gabriel, che meritava di essere conosciuto un po' meglio. Lei e Zayn avevano passato delle belle giornate, magari in un altro contesto avrebbero potuto essere pure amici e si era sentita importante quando lui le aveva regalato un suo quadro, l'aveva interpretato come se le stesse cedendo una parte di sé. Ma poi se lo era ritrovato lì e quei stessi quadri che aveva giurato si sarebbe tenuto per sé, li stava esponendo ad una mostra e poi venduti – perciò, loro non si dovevano niente. Sarebbero usciti una sera, si sarebbero raccontati le ultime novità e fine. Alla prossima, forse.
19.23. Perrie chiuse di scatto il computer, al diavolo si disse. Prese una maglia a maniche lunghe nera, neutra, dei jeans chiari, il solito rossetto e fanculo a Malik. Lei non avrebbe nemmeno dovuto pensare a lui, non avrebbe dovuto essere tormentata dal suo ricordo per tre mesi, quando avevano passato solo che un paio di settimane insieme.
Zayn invece alle 19.23 era già davanti all'Atlas Centre e si sentiva un'idiota. Il fatto è che lui aveva sempre amato la sua quotidianità – i film a noleggio e una birra, le corse la mattina e un lavoro stabile, sì beh a lui piacevano. Perrie Dubois non aveva avuto nessun diritto di intromettersi nella sua vita e poi ripartire. E Zayn, a fare la stessa vita di prima, solo, non c'aveva più voglia. Si sentiva pure un codardo, perché sapeva perfettamente che Perrie ce l'aveva a morte con lui, dopo averlo colto con le mani nel sacco e lui non aveva alcuna scusa.
Entrambi non sapevano sarebbe stata una lunga notte.
Perrie uscì dalla metropolitana, cento metri e lui era già lì con una rosa blu in mano.
«Ciao.»
Le spiegazioni gliele avrebbe chieste più tardi. Annusò la rosa e pensò solo che quei girasoli, trovati sulla sua scrivania un lunedì mattina, non avrebbero mai potuto reggere il confronto.
«Conosco un bel posto in cui potremmo cenare, se ti va.»
Fredda come il ghiaccio, la solita, pensò Zayn. «Perfetto. Ti seguo.»
Perrie si voltò e scesero nuovamente nella metro. Presero la linea quattordici in direzione Olympiade, dove poi scesero due fermate dopo, senza mai rivolgersi una parola. Là iniziarono a camminare verso Place d'Italie, Perrie manteneva il passo spedito, ma controllando sempre che Zayn le fosse al suo fianco.
«Adesso capisco perché ti piace tanto questa città.» sbottò lui ad un certo punto, perché di stare in silenzio non ci pensava neanche, era già durato troppo a lungo.
«Non hai ancora visto il meglio.»
«Ho percepito l'atmosfera di cui mi parlavi, mi è bastato. Si respira aria nuova, c'è tutta la speranza e gioia che una persona abbia bisogno, qui.»
Perrie lo guardò con la stessa luce con cui l'aveva guardato quella sera, sul tetto del suo appartamento, quando Londra era nelle fiamme del tramonto. «È una sensazione che non se ne va mai via.»
Al quinto arrondissement ci arrivarono dopo venti minuti, in cui Zayn si azzardò appena ad accennarle ciò che aveva visto della città – senza smettere di sentirsi in colpa, neanche per un secondo.
«Questo è Le Cafè Parisien, è uno dei miei locali preferiti, perché i camerieri sono veramente gentili e poi si mangia divinamente.» pensò che Zayn era già abbastanza mortificato e quasi dimenticò che non si era nemmeno degnato di dirle perché era lì. Lo avrebbe punzecchiato quell'ultima volta e poi basta, potevano tornare ad essere i due ragazzi sul terrazzo di un vecchio condominio, «Mi ha portata qui Gabriel – sai il ragazzo che frequento. Prima non lo conoscevo.» E come s'immaginò, Zayn si rabbuiò appena, ma poi prese posto scrollando le spalle, come se avesse già mandato via tutto quello che c'era nella sua mente.
«Parlami un po' di lui.»
Perrie alzò le spalle, «Ci siamo conosciuti all'università, frequentava la mia stessa facoltà. E non molto tempo fa ci siamo ritrovati per caso e abbiamo deciso di provare ad uscire insieme, tutto qua.»
«Ti ho chiesto di raccontarmi di lui, non di spiegarmi perché vi frequentiate.»
Si sentì in colpa lei, perché sapeva che quelle parole le erano uscite più come una giustificazione, che un semplice raccontarsi le proprie vite. Si schiarì la voce, prendendo tempo. «È un tipo apposto lui. Abbiamo un sacco di interessi in comune e—è piacevole, ecco.» Perrie fissava il suo Burger Parisien, che la prima volta che l'aveva assaggiato le era sembrato la cosa più buona che avesse mai mangiato, ma in quel momento le era passata la fame. Intanto continuava a tenere in grembo la rosa blu, data così senza neanche una parola. E Zayn guardava fuori dalla vetrata, che dava sulla strada e avrebbe voluto dirle che non bastava un corso di filosofia seguito insieme anni prima, a renderli due persone con interessi in comune. Ma rimase zitto, perché questo Gabriel non l'aveva nemmeno mai visto e lei aveva la sua vita lì e non stava a lui giudicare.
Mentre mangiavano, ognuno perso nei suoi pensieri, muti come tombe, non sapevano che avrebbero ordinato tre pinte di birra a testa, sempre seduti su quel tavolino e che una volta usciti di lì, non più a mente così lucida come quando erano entrati, Perrie Dubois avrebbe fatto una scenata a Zayn Malik in mezzo alla strada. Tanto lì, tutti si facevano i fatti loro e a nessuno importava.
«Cosa ti costava una telefonata? Una, punaise! Dirmi "ehi, tu, guarda che sono qui a Parigi, ti va un caffè?" avremmo preso quel dannato caffè e poi ognuno a casa sua. Ma no, ovviamente, devi fare l'uomo del mistero di 'sto cazzo.»
«Perché tu invece ti sei fatta molto sentire in questi mesi, mh? Miss-odio tutto e tutti, guarda che è una minestra già sentita, non sei Victoria Beckam che non ride neanche a pagarla perché ha la faccia di plastica.»
«Come scusa? Che ne sai di me, chi sei tu per giudicare la mia vita? Guarda che qui, quello che gioca a fare l'artista sei tu, non io. »
Continuarono per esattamente ventitré minuti, poi tacquero e si guardarono fissi negli occhi per trentasei secondi. I trentasei secondi più lunghi della storia, a loro avviso. E di tutto quello che avevano detto, non pensavano neanche la metà di quelle cose. Zayn non credeva che Perrie fosse uguale a tutte le altre e sapeva perché avesse un certo comportamento. Perrie non poteva veramente dare tutta la colpa a Zayn, perché okay forse era stata lei la prima a voler cancellarlo dalla sua mente, consapevole che aveva cominciato ad affezionarsi a lui più di quanto fosse lecito e la cosa la spaventava a morte.
«Credo sia meglio se torniamo a casa.»
Nella metro, seduti uno di fronte all'altro e un corridoio a separali, nessuno dei due guardava l'alto. A Châtelet les Halles scesero entrambi, senza averlo nemmeno previsto.
«E tu perché scendi qua?»
«Perché ho una stanza in un bed and breakfast qui. Tu piuttosto, perché qui?»
Lì vicino ai binari, con la gente che cominciava ad ammassarsi di nuovo, in attesta del treno successivo, Perrie optò per la verità. «Perché non ho voglia di tornare a casa.»
Zayn avrebbe dovuto voltarle le spalle, uscire da quel buco e tornare nella sua stanza. Era stata una lunga giornata, era stanco. Invece si avvicinò a lei e con un braccio solo le cinse le spalle, portandosela un po' più accanto a sé. Era tornato lì perché voleva dirle che non potevano essere amici, che lei era tutto ciò di cui aveva bisogno per la vita e poi la paura di un rifiuto l'aveva bloccato. A quella fermata della metro, non gli importava più, preferiva essere respinto che saperla ferita. «Scusa. Per prima.» le sussurrò tra i capelli, sapevano di lavanda. Perrie annuì, aveva riconosciuto il profumo di Iris Blu del suo maglione – era una fragranza piuttosto femminile, ma a lui calzava bene comunque.
«Conosco un posto in cui potremmo andare.»

Le Café Egyptien, era all'inizio di rue Mouffetard, sulla sinistra. Se non fosse stato per il forte odore di aroma alla vaniglia che circondava quel posto, avrebbe pure potuto passare inosservato.
«Narghilè?» chiese Zayn scettico.
«Così ti sentirai Brucaliffo per una sera. E non dimenticarti del tè speziato.»
Mezzi distesi su un divanetto, Perrie e Zayn passarono le due ore seguenti a fumare narghilè e bere infusi di tè caldo.
«Quando avevo otto volevo essere inventore. Diciamo che è durata per una settimana come cosa, però è stato da lì che è nata la mia passione per il disegno.» Perrie teneva la testa appoggiata alla sua spalla, sentendo che i sensi si stavano disperdendo di poco a poco. «E poi una notte non riuscivo a dormire. Mi ero svegliato, perché avevo fatto un incubo, ma non volevo andare da mia mamma e dirglielo – avevo dieci anni, i ragazzini a scuola con me dicevano che era l'età in cui si diventa adulti.» Zayn ridacchiò, «Allora ho preso i miei colori, sono andato in salotto, ho spostato il divano e mi sono messo a colorare tutto il muro. Mi sono riaddormentato lì, il giorno dopo mia madre mi ha quasi sbattuto fuori di casa.»
«E adesso vendi i tuoi quadri in una delle capitali più famose al mondo.» mormorò Perrie, al limite delle sue forze. Aveva voglia di dormire, le palpebre non le erano mai state così pesanti e la voce di Zayn era rilassante, quasi una ninnananna.
Alle due, quando il locale chiuse e loro dovettero uscire, Perrie non era mai stata così in forma, come se là dentro si fosse staccata dal suo corpo per un attimo e poi fosse ritornata sé stessa. Non seppe chi dei due prese la mano dell'altro per primo, fatto sta che rimasero così per tutto il tempo finché non raggiunsero il Panthéon, attraversando quelle vie strette, di cui nessuno ricordava il nome. Non c'era alcuna macchina che passasse per di là, il grande viale che si apriva in discesa era completamente deserto. Allora Zayn si sedette per terra, nello spazio proprio di fronte al Panthéon, circondati da palazzi – poche finestre erano illuminate – e la Tour Eiffel che si scorgeva appena, con il suo fascio di luce che neanche riusciva a raggiungergli. Perrie lo imitò e finirono per stendersi lì, sul terreno freddo e sporco, sicuri di essere al sicuro da tutto e da tutti.
«È un peccato che non si vedano le stelle.»
Erano ormai in autunno, le giornate cominciavano ad essere sempre più nuvolose. Perrie annuì, senza staccare gli occhi dal cielo. «Poche volte c'è il sole d'inverno qui, per questo preferisco la notte. Sembra di entrare completamente in un'altra città, tutte queste luci, tutta questa vita.»
Non c'erano più metro quando decisero di tornarsene a casa e anche se nessuno dei due lo disse espressamente, non avevano voglia di separarsi. Zayn non voleva andare in una camera completamente anonima, non sua e Perrie non ce la faceva a pensare di entrare in una casa vuota. Tornarono indietro, ripercorsero gli stessi vicoli, attraversarono nuovamente Rue Mouffetard, ora spenta e abbandonata, salirono verso Place Monge e poi dritti fino a Censier Daubenton, passando giusto davanti a Le Café Parisien – Perrie si ricordò di quando aveva cinque anni e viveva nel quinto, in un appartamento così minuscolo che ci stavano a stento in tre e lo pagavano un occhio della testa, i suoi genitori. Camminarono piano, barcollando, alternando momenti di silenzio a momenti di risate così fragorose che echeggiavano per tutta la via. Stremati, arrivarono al tredicesimo e si abbandonarono sul letto. Uno di fronte all'altro, ma senza neanche più toccarsi. Ad ogni battito di ciglia, le palpebre indugiavano un po' più del dovuto, chiuse.
Zayn aveva già comprato il biglietto per tornare a Londra, una settimana dopo, esatta. Glielo aveva detto a Le Café Egyptien, Perrie non aveva risposto nulla. Sarebbe stato meglio se il giorno dopo ognuno avesse continuato la sua vita, magari questa volta si sarebbero sentiti per telefono. Ma a Perrie tutto questo sembrava surreale, dopo quella sera Parigi sarebbe stata più vuota. E Zayn, dal canto suo, non era così sicuro di voler partire e riprendere il suo lavoro alla tavola calda come se niente fosse. Ancora con le scarpe addosso e i piedi che uscivano dal letto, entrambi chiusero gli occhi definitivamente. Perrie gli prese la mano e forse stava già sognando, la voce le uscì come un mormorio, ma non riuscì a non chiedere: «E adesso? »
«Adesso dormi e domani ne parleremo.»
«Ma è già domani, Zayn. Sono le cinque del mattino.»
«Allora ne riparleremo quando ci sarà già il sole fuori, mh?»


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