GIOCHI
D’ACQUA
romanzo
di
Redpicchio
Per i temi trattati e il linguaggio utilizzato, il romanzo è riservato a un pubblico adulto
Non esistono racconti morali o immorali. Ci sono solo racconti scritti bene o racconti scritti male. Questo è tutto.
Oscar Wilde
1
Il funerale
All’orizzonte, su un molle crinale, la cerchia di mura di possenti blocchi di travertino d’epoca etrusca era lì a proteggere, ancora una volta, gli abitanti della città capoluogo. I nemici non erano più le schiere d’eserciti che si erano susseguite nei secoli, ma la sottile nube che ristagnava sugli insediamenti industriali e che aggrediva la città dal basso, avvolgendola in un velo di morte. Gabriele aveva lasciato la statale “3 bis”, percorsa incessantemente da camion a cinque assi con rimorchio, lunghi come treni, che rendevano difficile i sorpassi al suo fuoristrada, un Suzuki Santana lento nella ripresa. Ora guidava senza la tensione che lo aveva accompagnato sino a quel momento, mentre osservava il paesaggio, reso uniforme dalla luce tarda della mattina, non adatta per fotografare. Riusciva a memorizzare i luoghi solo dopo averli studiati attraverso l’obiettivo della vecchia reflex automatica, appartenuta al padre, una Canon che aveva la stessa sua età, dal corpo metallico, diversa dalle macchine digitali moderne tutte di plastica, dove il computer svolgeva le funzioni del fotografo. Lui, invece, una volta individuata l’inquadratura, ragionava sui tempi d’esposizione in funzione della profondità di campo; valutava le tonalità delle masse che influivano sull’apertura del diaframma. Elaborava le informazioni, secondo il suo estro creativo, che trasferiva alla macchina, sicuro d’ottenere foto d’effetto. Delle volte, quando con sé non aveva la reflex, incrociava le dita per simulare il mirino, solo così riusciva a tenere a mente i soggetti preferiti, che inseguiva ogni volta che aveva un po’ di tempo libero. Conosceva tutti i luoghi più suggestivi dell’Italia centrale: gole inaccessibili, torrenti dalle acque cristalline, eremi sperduti, che raggiungeva con il piccolo fuoristrada, ideale per arrampicarsi per sentieri impervi, anche se il consumo eccessivo di benzina metteva in crisi le sue scarse finanze. Per trovare la strada diretta al cimitero, aveva dovuto servirsi della carta che consultava ad ogni incrocio per non perdersi tra quei nastri bianchi che collegavano vecchi casali e minuscoli borghi. Ora finalmente era giunto a destinazione. Numerose macchine affollavano lo spiazzo antistante il camposanto di campagna, dall’architettura semplice come la gente che vi era sepolta. Innestò le quattro ruote motrici per superare il dislivello del terreno, riuscendo ad appollaiarsi su un mucchio di ghiaia, utilizzata per imbrecciare i vialetti interni. Gabriele era partito la mattina dalla sede universitaria d’Urbino dove frequentava da un anno l’istituto di giornalismo, per essere accanto alla sua amica Ilaria, una compagna di corso, cui avevano ammazzato il padre, esperto fiscalista. Sul pavimento della vettura c’erano alcuni giornali che riportavano il fatto di cronaca. Li prese in mano e scorse di nuovo i titoli:
“Matura signora, moglie di un noto chirurgo, in un raptus di follia, uccide il marito e il titolare di uno studio commerciale, amico di famiglia, sorpresi nudi nel letto, sparandosi alla testa con la stessa arma per la vergogna.”
“Il fatto di sangue è accaduto in un prestigioso albergo di Verona dove i tre amici si erano recati per assistere all’Arena la rappresentazione del Nabucco di Verdi.”
“É stato appurato dall’autopsia che il commercialista, padre di una ragazza, è stato raggiunto da due colpi d’arma da fuoco, di cui uno solo mortale.”
Da quando Ilaria si era recata a Verona per il riconoscimento della salma, Gabriele non l’aveva più rivista. Lei era figlia unica. Sua madre era morta tre anni prima per un male incurabile. Per questo il giovane aveva deciso di andare al funerale per non lasciarla sola. Una leggera brezza agitava le cime dei cipressi, che come sentinelle facevano la guardia al sacro luogo, trasportando le parole del parroco che officiava il rito sul sagrato della piccola chiesa. Aveva montato alla macchina fotografica un obiettivo di lunghezza focale variabile, che andava bene sia per inquadrature panoramiche sia per fotografie ravvicinate e con l’occhio sul mirino aveva cominciato a fare i primi scatti, per cogliere ogni aspetto della cerimonia, convinto di fare cosa gradita alla ragazza. Come sovente gli accadeva quando aveva la macchina fotografica in mano il suo volto cambiava espressione. Non era più l’amico d’Ilaria, ma il fotoreporter impegnato in un servizio. Gli ritornavano in mente le parole del professore di fotografia:
“Individuato il tema, dovete descriverlo con le immagini. Ogni scatto deve rappresentare la sintesi del momento saliente. Moltiplicate sempre i punti d’osservazione. Solo attraverso diverse prospettive riuscirete a dare il senso dello spazio, della realtà e quindi della vita. Il primo scatto deve abbracciare l’intero luogo dove si svolge l’evento e corrisponde al nostro colpo d’occhio, cui devono fare seguito scatti ravvicinati, sino ad isolare l’azione che vi interessa.”
Gabriele, in ossequio agli insegnamenti ricevuti, aveva cominciato con un totale del piccolo cimitero ripreso con il bosco che degradava verso valle, dove pigramente scorreva il fiume. Voleva restituire il senso di pace che la morte evoca. Un foglio di carta sollevato dal vento volteggiava di fronte al cancello d’ingresso del cimitero.
“Dovete essere sempre pronti a cogliere l’atto irripetibile. Le migliori foto sono sempre dovute ad un elemento casuale che reinterpreta la quotidianità del soggetto, sino ad elevarlo a simbolo.”
Era un altro monito del professore ad illuminare il suo agire. Inseguiva quel pezzo di carta che ai suoi occhi era diventato uno spirito, un’anima in pena di una persona morta, indecisa se prendere la via del cielo o ritornare sulla terra. Le foto che realizzava, per l’inquietudine che suscitavano, invitavano sempre alla riflessione, ed era questa la ragione che il suo lavoro fosse apprezzato da tutti gli studenti che frequentavano il corso di giornalismo.
All’esterno del cimitero aveva raccolto abbastanza materiale: ora voleva documentare il dolore. Sulla cinta muraria di mattoni rossi, insistevano i loculi disposti in triplice fila, addobbati di fiori e di lumini accesi. Le poche tombe di un certo pregio artistico erano in un totale stato d’abbandono, a dimostrazione che gli eredi, vendute le terre avite, si erano trasferiti in luoghi più promettenti. Al riparo di una lapide dall’epigrafe sbiadita, osservava, attraverso il teleobiettivo, le numerose persone intorno al feretro. Eccetto Ilaria non conosceva nessuno, ma riusciva, ugualmente dall’espressione dei volti, comprendere i sentimenti che li univano al defunto. Un’elegante signora, dagli occhi rossi di pianto, stringeva la mano d’Ilaria. Era la compagna del padre, direttrice di un’emittente televisiva locale. Laura non si dava pace sulle circostanze in cui il suo uomo fosse stato ammazzato. Il fatto di cronaca aveva suscitato scalpore e lei si era trovata al centro di un caso di deontologia professionale. Aveva dovuto garantire un’informazione corretta, ma si era rifiutata di fornire notizie che avevano il sapore del pettegolezzo, nonostante le continue telefonate di telespettatori curiosi di conoscere particolari sulla presunta omosessualità dell’uomo. C’era stata persino l’invasione di giornalisti di testate scandalistiche nazionali, che avevano passato al setaccio ogni aspetto della vita privata del professionista, da cui non era emerso nulla. Era questa circostanza che lasciava perplessi tutti. Come poteva essere accaduto che una persona dalla vita irreprensibile avesse come amante un anziano uomo, tanto da essere sorpreso dalla moglie di quest’ultimo in flagrante adulterio in una camera d’albergo?
Mauro, il socio dello studio e amico sin dai tempi dell’università, era al lato del catafalco. Accanto c’erano gli amici d’infanzia del defunto Daniele e Riccardo. Erano stati loro tre che avevano aiutato l’uomo delle pompe funebre a trasportare a spalla la bara all’interno del cimitero. Quel gesto di sottomissione stava a dimostrare il legame profondo che li univa alla persona scomparsa. Per tutta la cerimonia avevano tenuto la mano sulla bara, ormai diventata reliquia, per prolungare ancora il contatto fisico che dopo la tumulazione sarebbe stato possibile solo attraverso il ricordo. Gesti simbolici, il cui significato non era sfuggito a Gabriele, il quale li aveva catturati in splendide inquadrature per esaltare la sacralità dell’ultimo viaggio. I tre uomini si sentivano accomunati dallo stesso obbligo morale nei confronti della figlia. Non l’avrebbero mai lasciata sola e Ilaria lo sapeva che poteva far conto su di loro. Si capiva dai teneri sguardi che si scambiavano, che non erano di solidarietà, ma di condivisione del dolore per la persona scomparsa. Se nei funerali esiste un ordine gerarchico, in cui è il vincolo di parentela che consente di stare più vicini al feretro, ebbene, non c’era dubbio alcuno che erano loro i familiari della persona scomparsa. Era una linea invisibile che nessuno oltrepassava, per una forma di rispetto per chi soffre intensamente. Poi c’erano gli altri: i conoscenti, i colleghi, la gente in genere che testimoniava con la loro presenza la stima alla persona. Più ci si allontanava dal feretro, diminuiva anche lo stato di tensione, sino al punto che i presenti più esterni non si facevano scrupolo di salutare persone che da anni non vedevano con calorose strette di mano, come se l’incontro fosse avvenuto nella piazza principale. Gabriele aveva colto anche quest’aspetto, con tutta la gamma dei gesti e delle espressioni. Rimase colpito di notare attraverso il teleobiettivo, la figura di una donna che singhiozzava sommessamente. Ogni tanto alzava gli occhiali scuri che le coprivano il viso per asciugarsi le lacrime. Per come si comportava e il dolore che esprimeva, doveva essere accanto al feretro, tra i parenti, le persone care, invece se ne stava lontana, oltre il limite della folla, per vivere in solitudine il proprio strazio. Quella donna lo incuriosiva specialmente quando, senza aspettare il termine della cerimonia, si allontanò in fretta per non essere vista. Lui uscì dal suo nascondiglio e fece in tempo a scattare alcune foto mentre saliva in macchina.
Laura non aveva voluto che le telecamere della sua emittente riprendessero il funerale. Lo aveva chiesto al caporedattore non tanto per lei quanto per Ilaria. Un moto di stizza si stampò sul suo viso nel vedere un fotografo che si aggirava per il cimitero a scattare foto. Avrebbe voluto dirgli di lasciarli in pace ed invece, con quel teleobiettivo puntato, era lì a carpire primi piani di volti affranti. Si voltò anche Ilaria e la ragazza riconobbe subito l’amico, tanto che i suoi occhi s’illuminarono di una luce intensa, che esprimevano riconoscenza e che Gabriele congelò con un clic. Il giovane abbassò la macchina che gli copriva il viso e mosse il capo in segno di saluto, mettendosi in posizione eretta, come un militare di fronte al superiore. Ilaria capì che quel gesto di rispetto era rivolto alla salma del padre e gliene fu riconoscente, perché l’amico aveva escluso qualsiasi giudizio morale sulle circostanze tragiche della sua morte. La ragazza aveva conseguito la laurea di storia e filosofia presso l’università di Firenze, mentre Gabriele quella di Scienze politiche, nella città natale di Roma. Si erano conosciuti alla prova d’ammissione al corso di giornalismo riservato a soli trenta allievi. In quell’occasione per prepararsi avevano preso in rassegna i quotidiani nazionali delle ultime due settimane, superando le prove, anche grazie al loro inglese “parlato fluente” come prescriveva il bando. L’amicizia era diventata ancora più salda dopo l’inchiesta “Giovani e tempo libero” da loro realizzata. Per più di un mese avevano frequentato biblioteche, locali, palestre, intervistando giovani del luogo e studenti dell’ateneo feltresco. Il lungo articolo, apparso sull’ultimo numero del quindicinale dell’istituto per la formazione al giornalismo e distribuito gratis in tutti i luoghi pubblici della città, aveva suscitato un vasto interesse. Anche le foto, in bianco e nero, che accompagnavano l’articolo, avevano contribuito al successo. Gabriele le aveva sviluppate e stampate nel laboratorio dell’istituto. Avrebbe fatto la stessa cosa con le fotografie del funerale, appena la sera sarebbe ritornato, per fare in modo che Ilaria la mattina successiva potesse visionarle al suo indirizzo di posta elettronica.
“È un mio amico,” disse Ilaria rivolta a Laura che continuava a seguire con sguardo minaccioso il giovane. “Frequentiamo lo stesso corso di giornalismo. Le foto che sta realizzando non andranno a finire in nessuna rivista, stai tranquilla. È qui solo per me.”
Solo allora la donna si acquietò e ritornò a seguire il rito che stava volgendo al termine. Gabriele, riposta la macchina nella custodia, andò verso l’amica. Non dissero una parola, ma si strinsero in un lungo e tenero abbraccio.
“Questa sera ti fermi a dormire a casa mia,” gli sussurrò la ragazza, che lo considerava come un fratello.
“Non posso; devo ritornare ad Urbino. Mi hanno concesso un giorno di permesso,” rispose il giovane, continuando a stringerla. “Gli amici del corso e tutti gli insegnanti ti sono vicini. Mi hanno incaricato di dirti che qualsiasi cosa avessi bisogno puoi contare su di loro.”
“Ringraziali da parte mia,” continuò la ragazza, rincuorata per l’espressioni di solidarietà. D’altronde aveva bisogno di sentire l’affetto delle persone, ora che non le era rimasto più nessuno. Un lutto simile coglie tutti impreparati, figuriamoci lei che era figlia unica. Avesse avuto un fratello o una sorella sarebbe stato più facile affrontare la morte dell’unico genitore rimasto. Essere soli in simili circostanze, quando ancora non si è formata la propria famiglia, la sola che riesce a lenire le grandi sofferenze, è un peso troppo grande, ecco perché aveva la costante sensazione di avere un macigno sulle spalle che non riusciva a scrollarsi di dosso.
Daniele e Riccardo, ora che le persone avevano lasciato alla spicciolata il cimitero, stavano dando disposizioni agli operai su come sistemare le corone di fiori. Erano così numerose che non riuscivano a trovare posto sulla tomba, che accoglieva i corpi dei due coniugi, di nuovo insieme. Mauro, il socio dello studio, stava liquidando al parroco le spese delle onoranze funebri.
“Ti chiedo scusa; saluto una persona e poi sono di nuovo da te,” disse Ilaria allontanandosi da Gabriele.
La ragazza raggiunse Laura ferma all’estremità del vialetto ancora con il viso voltato verso la tomba, come quando la donna aveva salutato l’uomo alla stazione di Milano l’ultima volta che si erano visti.
“Dobbiamo rivederci,” disse Ilaria, prendendo la donna sotto braccio.
“Sì, entrambe gli volevamo bene,” sospirò scotendo la testa. “Ho molte cose nel mio appartamento che gli appartenevano. Oltre agli indumenti, ci sono oggetti di valore.”
“Puoi tenere tutto. Mio padre ti voleva bene. Eri la sua compagna ed è giusto che quello che ha lasciato in casa tua ti appartenga.”
“Sei sempre cara,” disse Laura abbracciandola. “Non sai come mi sono di conforto le tue parole.”
“Tu conoscevi le persone, coinvolte nel tragico fatto?” chiese Ilaria.
“Non ne avevo mai sentito parlare. Ho appreso solo dopo che avevano la stessa passione per la musica, frequentando diversi teatri italiani. Sai con il mio lavoro, anch’io molte volte ero fuori. Era nei patti che ognuno di noi potesse continuare a coltivare i propri interessi.”
“La polizia cosa dice?”
“Non esclude nessuna ipotesi, anche se la più probabile, dalle prove raccolte, sembra propendere per una sorta di raptus omicida da parte della donna per avere sorpreso il proprio marito in compagnia di tuo padre. Ma questa versione non convince. Ero la sua compagna. Abbiamo fatto l’amore prima che partisse per Verona. Per il lavoro che faccio, conosco molte persone dell’ambiente gay, anche bisex felicemente sposati e con figli; non fraintendermi, hanno tutti la mia stima, perché un individuo non si giudica per le sue inclinazioni sessuali, però nei loro comportamenti avvertivo sempre qualcosa di diverso. Con tuo padre questo non è mai accaduto. Per una questione di pudicizia, non posso raccontarti particolari della nostra vita intima. Ma mi devi credere, tuo padre non è la persona descritta dai giornali. Siamo rimaste entrambe sole: tu hai perso il genitore io il mio uomo,” concluse con le lacrime che le imperlavano le gote.
“Si parla spesso di doppia personalità. È possibile che siamo di fronte ad un caso di questo genere?” ribatté Ilaria.
“Lo escludo. Parla con Daniele, Riccardo i suoi amici d’infanzia, o con Mauro, compagno d’università e collega di lavoro.”
“Ma è stato veramente provato che i due uomini avessero avuto un rapporto?” accennò ancora la ragazza.
“Sì, l’autopsia ha confermato che tra i due ci fosse stato un rapporto intimo, per le tracce di sperma...” La donna s’interruppe subito per quelle affermazioni. Ebbe un gesto d’affetto, e stringendo la ragazza con voce lamentevole continuò: “Scusami sto usando un linguaggio crudo, da redazione di giornale dove si commentano i lanci d’agenzie, e non mi rendo conto che tu sei la figlia.”
“Frequento la scuola di giornalismo e nei seminari teorici pratici tenuti da esperti trattiamo tutti gli argomenti compresi quelli di cronaca nera. Sono abituata a questo tipo di linguaggio,” la tranquillizzò Ilaria. Poi riprendendo il filo del discorso continuò: “Ma è certo che sia stata la moglie ad ucciderli e non sia stato un altro a fare quella messa in scena?”
“La polizia ha seguito anche questa pista, ma la circostanza che nella camera d’albergo non fosse stato toccato niente esclude questa ipotesi. Le prove raccolte dicono che sia stata la donna a premere il grilletto e poi puntare l’arma contro se stessa.”
“Ti sembra logico il comportamento di lei, secondo la ricostruzione ufficiale,” replicò Ilaria. “La donna esce dal parrucchiere, pronta per assistere alla rappresentazione del Nabucco all’Arena. Entra nella camera d’albergo; scopre il marito disteso sul letto con mio padre, uccidendoli entrambi. Dove ha preso la pistola dalla matricola abrasa? e poi perché si toglie le mutandine, si slaccia il reggipetto prima di spararsi?”
“Sì, hai perfettamente ragione la versione ufficiale non convince per niente,” disse Laura. “Dobbiamo seguitare a vederci. Ho tante cose da raccontarti di tuo padre,” aggiunse mentre si allontanava.
Gabriele aveva accettato l’invito di pranzare con Ilaria. Erano diretti a bordo del suo fuoristrada all’abitazione dell’amica, una casa colonica completamente ristrutturata, distante alcuni chilometri dal cimitero.
“Voglio rendermi utile. Che cosa posso fare per te?” chiese Gabriele per rompere il silenzio che si era creato tra i due.
“Lo stai già facendo con la tua presenza,” rispose la ragazza con un sorriso.
“Non intendevo questo, ma qualcosa di più concreto.”
Ilaria stringeva tra le mani i quotidiani che riportavano il fatto di cronaca, alcuni dei quali non aveva ancora letti.
“Vuoi veramente darmi una mano come nell’inchiesta “Giovani e tempo libero”?
“Non chiedo altro che fare coppia con te di nuovo,” rispose l’amico.
“Alcuni giornali li hai già conservati,” disse mostrando la pagina di un quotidiano con la foto del padre. “Non sono sufficienti. Occorre raccogliere tutto quello che la stampa ha scritto su questo caso; in particolare i numeri arretrati dei giornali locali della provincia veneta. Se non riesci a trovarli in edicola, chiedili attraverso la scuola direttamente alle redazioni regionali. Incominciamo a costruire il nostro archivio. Inviami per posta elettronica le foto del funerale di questa mattina, voglio vedere bene i volti delle persone che seguivano il feretro.”
“Hai qualche idea?”
“Niente di preciso. Non siamo gli inquirenti che, una volta appurata la verità, hanno bisogno di prove certe per sostenerla. A noi interessa ricostruire in maniera attendibile come si sono svolti i fatti, a me solo questo importa. Mi hanno colpito le parole della sua compagna, Laura. Continuava a ripetere che mio padre non era un omosessuale.”
“È importante dimostrare che non lo era?”
“Non te lo so dire. D’altronde bisogna cominciare da qualche parte. Vado per intuito: se il sesso è il fattore che ha scatenato la tragedia, è necessario partire da lì. Per conoscere le vere inclinazioni di mio padre è fondamentale ascoltare l’opinione dei suoi amici d’infanzia.”
“Dubito che Daniele, Riccardo e Mauro siano disposti a parlare delle loro giovanili esperienze sessuali con te. Ti considerano una figlia.”
“Dovrò fargli capire che è necessario. Sono convinta che tutto quello che potranno raccontarmi, non supererà mai il linguaggio volgare usato da certi giornali,” continuò Ilaria, azionando il telecomando per l’apertura a distanza del cancello dell’abitazione. “Puoi parcheggiare di fronte alla vetrata del soggiorno. Io scendo per ritirare la posta.”
La cassetta era piena di telegrammi di condoglianze. Ilaria ne contò più d’ottanta, mentre percorreva il vialetto del giardino. Li avrebbe consegnati alla segretaria di suo padre per i ringraziamenti.
“Pensi di restare a vivere in questa gran casa?” chiese Gabriele appena furono entrati.
“Avevo sei anni quando ci siamo trasferiti in campagna,” rispose lei, prendendo il telefono cellulare che aveva lasciato sotto carica. “I miei genitori, per arredarla hanno fatto il giro dei mercati d’antiquariato di mezza Italia. Come potrei vendere Casa degli Elci? Se chiudo gli occhi vedo ancora mio padre nello studio che lavora, ascoltando la sua musica preferita e mia madre di là nel soggiorno con un libro in mano o nel giardino ad accudire i fiori. Ma sto dimenticando i doveri d’ospitalità,” disse come se si fosse dimenticata del suo ospite. “Se vuoi lavarti le mani la porta del bagno è in fondo al corridoio.”
“Sì, n’approfitterò,” assentì l’amico.
“Compartiti come se fossi a casa tua,” aggiunse la ragazza, mentre accendeva il telefono cellulare. Una serie di bip segnalarono l’arrivo di messaggi brevi. Erano gli amici del corso di giornalismo, i quali le esprimevano la loro solidarietà.
“Ti siamo vicini,” “Conta su di noi,” “Non sarai mai sola,” “Ti vogliamo bene,” erano queste le frasi più ricorrenti seguite dai nomi di: Germano, Andrea, Giovanni, Cristina, Damiano, Mattia, Simona, Arianna ed altri ancora.
Gabriele era partito subito dopo mangiato, diretto alla sede universitaria. Aveva promesso ad Ilaria che le avrebbe inviato per posta elettronica le fotografie scattate al cimitero, scansionando i negativi della pellicola. La ragazza, dopo avere rassettato la casa, si era recata nello studio del padre. Nell’archivio del computer aveva trovato solo relazioni tecniche riguardanti la sua attività professionale, non una traccia da seguire per comprendere il drammatico epilogo. Era stata ventilata da alcuni giornali l’ipotesi che le tre vittime erano assidue frequentatrici delle maggiori manifestazioni musicali che si svolgevano nei più importanti teatri italiani. Come poteva essere possibile che la donna avesse potuto compiere un gesto così violento che contraddiceva la natura del sodalizio che li univa?
Cominciò a scrivere il diario della giornata. A fianco dei nomi delle persone, aveva riportato le loro opinioni. Il dialogo con Laura lo aveva trascritto con fedeltà, ritenendo importanti le sue osservazioni. La scrittura per Ilaria era come la fotografia per Gabriele. Riusciva a ricordarsi, a distanza di tempo, anche del più piccolo dettaglio, bastava che lo avesse vergato nel suo taccuino che teneva sempre nella borsa. Salvò il documento con la data del giorno e scaricò la posta elettronica. Numerosi messaggi di condoglianze erano pervenuti dagli insegnanti del corso di giornalismo. Anche gli amici del periodo universitario di Firenze avevano voluto esprimerle la vicinanza in un momento difficile. Accese la stampante per avere una copia delle comunicazioni, per consegnarle, insieme ai telegrammi, alla segretaria dello studio. Non poté fare a meno di constatare che le espressioni di solidarietà ricevute attraverso telegrammi, posta elettronica e messaggi SMS erano inversamente proporzionali all’età dei mittenti.
La mattina Ilaria andò a trovare Riccardo, l’amico d’infanzia del padre. Vendeva mobili in un capannone industriale di circa diecimila metri quadrati. Erano esposti con luci d’effetto, per invogliare i clienti che venivano ad acquistarli da tutta la regione per i prezzi concorrenziali. Aveva cominciato dal piccolo negozio d’elettrodomestici di famiglia subito essersi diplomato, diventando uno dei commercianti più affermati della zona. I camion, con il suo nome scritto a caratteri cubitali, si vedevano sia nei quartieri alti della città sia nelle costruzioni popolari sorte a ridosso della zona industriale, testimoniando lo stato di salute dei suoi affari. L’uomo stava mostrando a due giovani fidanzati alcuni modelli di camere, ma appena vide la ragazza chiamò con il cellulare un commesso per essere sostituito.
“Mi fa piacere che sei venuta a farmi visita,” disse l’uomo abbracciandola.
“Aspetto se hai da fare,” rispose la ragazza.
“Non ti preoccupare, tu sei più importante.”
“Volevo stare con te, magari pranzare con Daniele… parlare un po’ di mio padre. Voi due eravate i suoi migliori amici d’infanzia.”
“Hai già avvertito Daniele?” chiese l’uomo.
“Volevo che lo facessi tu.”
“Vediamo se lo convinciamo.”
L’uomo era direttore di una filiale di banca, la stessa dove Riccardo effettuava le transazioni commerciali. Per questo Daniele accettò l’invito di pranzare con Riccardo senza alcuna esitazione, rientrava tra le sue incombenze intrattenere rapporti con la clientela di riguardo.
“Va bene ci vediamo al ristorante “Le fontane,” confermò Daniele.
“Diciamo tra un’ora circa, così stiamo un po’ con la nostra bambina,” chiosò Riccardo, consapevole di esercitare su di lui lo stesso ascendente di quando erano ragazzi.
Il locale era situato in una località caratteristica, meta di visitatori durante la stagione estiva per le acque risorgive che formavano minuscoli laghetti circondati da salici piangenti. Riccardo per tutta la durata del pranzo, da persona loquace qual era, si era fatto carico di intrattenere gli ospiti, per riempire i silenzi improvvisi. Le pause rendevano ancora più commovente la mancanza dell’amico, come se la parola, in quei momenti di quiete, fosse aspettata a lui; e allora i ricordi s’insinuavano prepotentemente nei pensieri dei tre commensali.
Fu Ilaria a portare la discussione sugli argomenti che le interessavano. E lo fece in maniera diretta senza giri di parole al termine del pranzo.
“Eravate i migliori amici di mio padre,” esordì guardandoli negli occhi, mentre gustavano il caffè. “Chi meglio di voi poteva conoscerlo? Siete diventati uomini attraverso le stesse esperienze: di questo dovete parlarmi!”.
Nell’animo della ragazza, non c’era tanto l’interesse di apprendere particolari che negassero l’omosessualità del padre, quanto il desiderio di conoscerlo attraverso le parole dei suoi amici, i quali non potevano liquidare la richiesta, affermando semplicemente che quello che i giornali avevano scritto erano falsità.
“Ti racconterò chi era Giampiero, tuo padre,” disse Riccardo, aggrottando la fronte, con la stessa espressione di quando fanciullo era solito prendere una decisione importante.
“Sì, ti parleremo della grande amicizia che ci univa,” aggiunse Daniele.
I due uomini, finalmente, erano disposti ad aprirsi alla ragazza, tuffarsi nei ricordi di un periodo della loro vita che essi stessi avevano dimenticato, raccontando episodi dell’adolescenza comuni alla stragrande maggioranza dei ragazzi di quell’età. Certo ne parlavano poco tra loro, solo per una questione di pudore, non perché ci fosse qualcosa di cui vergognarsi.
Giampiero
L’amicizia tra Giampiero, Daniele e Riccardo nacque per caso. Forse questo avvenne mentre si scambiavano le figurine degli animali raccolte con le tavolette di cioccolato Ferrero, molto in voga negli anni ’50; o forse durante l’ora di catechismo nella chiesa parrocchiale. In età adulta, una sera che si erano rivisti per festeggiare il ventesimo anniversario del diploma, avevano cercato di ricostruire l’evento e benché si sforzassero di andare indietro con la mente, non c’era episodio che valesse la pena di essere ricordato in cui non fossero stati insieme. Formavano una sorta di triade, tanto che ragazzini d’altre comitive asserivano che dove c’era Giampiero c’erano anche gli altri due amici e viceversa. Giampiero era più giovane di un anno dei suoi amici, ma vederli insieme, sembrava che fosse, lui, il più grande. L’anno in cui era nato, il 1950, sua madre, che gestiva insieme alle sorelle un negozio di generi alimentari, si era iscritta alla gita del giubileo, organizzata dal maestro della scuola, un uomo bigotto che aveva fatto parte dei comitati civici, durante l’elezioni del 1948. La donna aveva tenuto la testa fuori del finestrino per tutto il viaggio, per non vomitare e, pur capendo la natura delle continue nausee, non aveva voluto rinunciare di cantare gli inni religiosi dedicati alla Madonna. A novembre nacque il suo unico figlio, cui fu imposto il nome del nonno paterno: Giampiero.
L’estate del primo anno delle medie i tre amici trascorrevano le ore più calde della giornata al fiume, distante sei chilometri dal paese. Vi andavano in bicicletta per un tratto di strada tutto in discesa. Daniele, che non aveva la bici, si faceva trasportare da Riccardo. Se ne stava seduto in canna con le mani aggrappate al manubrio e la testa bassa per non togliere la visuale all’amico, che pedalava come un forsennato per arrivare primo. Giampiero non riusciva a stargli dietro e li lasciava andare, consapevole che avrebbe pareggiato il conto al ritorno, quando lo stesso tratto di strada diventava una faticosa salita. Il luogo preferito era una placida ansa del fiume, rotta solo dal gracidare delle rane. Appoggiavano le biciclette a ridosso di un canneto ed entravano in acqua completamente nudi. I tre amici, con le mani strette sui testicoli per vincere il freddo, dopo il bagno, si sdraiavano sull’erba a prendere il sole, toccandosi fino a farlo diventare duro per verificarne le dimensioni.
“Il mio è lungo cinque dita,” diceva Giampiero, appoggiando la mano a paletta sul pene.
“Io provo a scappellarlo?” gli faceva eco Riccardo.
La delicata operazione consisteva nel fare scivolare la pelle che avvolgeva il prepuzio come una guaina. Il passaggio più doloroso era superare la base del glande. Quel giorno per dimostrare il proprio ardimento, Riccardo era riuscito a scoprirlo interamente, ma le smorfie di dolore che avevano accompagnato il temerario gesto avevano svilito la solenne messinscena.
Scappellare il pene rappresentava la prima importante tappa per sentirsi grandi, ma il più ambito dei traguardi era riuscire ad eiaculare e per accertarlo era molto diffusa la masturbazione. I tre amici, tutte le volte che andavano al fiume, riparati dal canneto spremevano il loro pisello sino allo spasimo, ma dalla piccola fessura non sgorgava mai lo sperma, che sapevano essere sostanza lattiginosa. Per i ragazzi l’età della puerizia era un’affannosa ricerca della propria identità, a differenza delle ragazze che dovevano semplicemente aspettare, che il loro orologio biologico le informasse con le mestruazioni, che erano diventate signorine. Sì, certo, ai maschi potevano accadere le polluzioni notturne, ma era un fenomeno così ambiguo e che variava da individuo e individuo, che creava in loro solo disorientamento. Imitavano i grandi, nei gesti e nelle parole, per apparire quello che ancora non erano, con un linguaggio scurrile e gesti volgari, come quello di strofinare il proprio pene sui glutei dell’amico vicino.
Guai a cadere nella trappola; anche se il tono era scherzoso, non si trattava di un gioco, ma semplicemente il gesto per sottomettere l’altro. Toccare un pene significava perdere di colpo il prestigio all’interno del gruppo. Da un lato, per dimostrare la propria virilità, si doveva insidiare costantemente anche l’amico più caro, dall’altro, l’amico oggetto delle attenzioni, doveva rifiutare sdegnosamente l’offerta, utilizzando persino l’uso della forza, che era la risposta giusta all’affronto.
Avevano poco più di dieci anni e già quella piccola appendice tra le gambe stabiliva la gerarchia del gruppo.
A ben guardare quegli adolescenti agivano come i maschi di certe società primitive. Là, l’affermazione della virilità avveniva attraverso cerimonie d’iniziazione. Qui, gli stessi codici comportamentali affioravano nei loro giochi, mantenendo inalterato il significato ancestrale. E come nelle civiltà tribali il guerriero per diventare adulto doveva superare prove di virilità, coraggio e lealtà, quei ragazzi, senza rendersene conto, riproponevano atteggiamenti che si perdevano nella notte dei tempi.
Conoscevano il figlio del farmacista, un ragazzo della loro età, un po’ grassottello, noto per le numerose volte che si masturbava in un giorno. Anche se il prete, cui confessava i suoi peccati, gli diceva che avrebbe perso la vista se continuava quelle pratiche onaniste, lui non solo lasciava cadere le raccomandazioni, ma era andato oltre, scoprendo i piaceri della fellatio. Il termine lo aveva appreso, come l’altro, dal confessore quando gli chiedeva la natura di certi atti impuri. Dopo una corte esasperata, fatta di promesse e persino di regali, aveva sedotto l’amico del cuore, un tipo magro, dall’aria dolce, delicata e femminea. Questi inizialmente lo aiutava a masturbarsi quando l’amico aveva il braccio stanco, più per gioco che per altro. Ma poi aveva ceduto di nuovo alle insistenti lusinghe: glielo aveva preso in bocca, succhiandolo a dovere, né più e nemmeno come se si fosse trattato del dito pollice, che aveva ciucciato sino alla seconda elementare.
Era indubbio che manifestare la propria mascolinità, significava godere il massimo del prestigio tra i coetanei. Per questo, i tre amici, cui una leggera peluria incorniciava il pube, ogni qualvolta s’incontravano, incentravano tutti i discorsi su argomenti legati al sesso, e questo accadeva ancor prima di frequentare le superiori. Nelle tasche avevano ritagli di riviste di donne in bikini; se le passavano, fantasticando avventure erotiche, ma dopo alcuni giorno la carta non resisteva ai continui stropicciamenti.
Una volta Giampiero, ai giardini pubblici, aveva incontrato un ragazzo che lo succhiava solo agli amici del gruppo. Cominciò a dargli del finocchio, facendogli delle proposte accattivanti: un semplice esercizio verbale per apparire maschio, senza che nelle sue intenzioni ci fosse il desiderio d’ottenere alcuna prestazione. Fu colto di sorpresa quando il ragazzo, molto più grande di lui, gli disse di seguirlo dietro un muro di sostegno che delimitava il giardino. Lui non dovette fare niente, ci pensò il ragazzo a slacciare la patta dei suoi pantaloni e cercare tra le mutande il pisello che si ostinava a starsene quieto. Con abilità cominciò a menarlo, fino a quando Giampiero raggiunse un orgasmo, senza eiaculazione, di tale intensità da provare dolore, tanto che dovette fermargli la mano. Questi, senza scomporsi, abbandonò la presa e con gesti quasi meccanici, tirò fuori il suo pene. Chiese a Giampiero se voleva toccarlo, ma lui si rifiutò sdegnosamente. Cominciò a masturbarsi con una tale frenesia che in pochi attimi da quella specie di salsicciotto, nemmeno duro abbastanza, schizzò una quantità di sperma da lasciarlo a bocca aperta. Era la prima volta che assisteva ad una vera eiaculazione, e la visione di quel liquido, che sgocciolava dalle mani, gli provocò una nausea violenta, che fuggì via sconvolto.
Alla stazione di servizio della piazza, nel centro del paese, lavorava un garzone, più grande dei nostri amici. Lo conoscevano tutti, perché, con indosso una tuta colore grigio cenere della Esso, lo si vedeva in qualsiasi ora della giornata ad erogare carburante alle auto di passaggio sempre con il sorriso sulle labbra. Non c’era macchina che si fermasse, cui non pulisse il vetro, che asciugava con la pelle di daino che teneva sulla spalla a mo’ di sciarpa, ricevendo in cambio qualche spicciolo. Si occupava anche del lavaggio delle macchine, nel qual caso s’infilava degli stivaloni e con una lancia indirizzava il potente getto d’acqua sulla carrozzeria che sotto le sue mani diventava come nuova. Per evitare ai suoi abituali clienti il ricorso ad officine specializzate, che avrebbero presentato conti ben più salati del suo, effettuava cambi dell’olio, filtri per l’aria, piccola manutenzione, anche se era pronto a mettere le mani sulle parti più complesse del motore. Con lui i clienti della stazione di servizio aumentavano, tanto che il proprietario lo portava, come soleva dire, sul palmo della mano. Questi era titolare di una licenza di noleggio. Possedeva una berlina Fiat 1800, con cui trasportava viaggiatori nei centri viciniori della valle e persino nella capitale e sovente, nei viaggi più lunghi e impegnativi, portava con sé il garzone, che aveva tutte le doti per diventare un ottimo conducente. Il giovane, durante le soste nella capitale, se n’andava in giro per conto proprio. Conosceva così bene la città, che il padrone non poteva fare a meno dei suoi servigi. Il garzone aveva una particolarità. Era stato lo stesso cugino a rivelarla ai nostri amici. Si diceva che avesse un pene spropositato, tanto da fare esclamare di meraviglia persino le puttane con cui andava. Al ritorno dai suoi viaggi i ragazzi si fermavano alla pompa di benzina, pronti ad ascoltare con dovizia di particolari le sue avventure, cosicché la fama, viaggio dopo viaggio, cresceva. Sembrava una sorta di fratello maggiore, sempre pronto a dare consigli. In lui non c’era l’aggressività solita dei maschi che volevano apparire tali più nei comportamenti esteriori che nei fatti. La sua fama di ragazzo dotato gli permetteva d’essere diverso, perché non doveva più nulla dimostrare. I nostri tre amici sapevano tutto sul Vicolo del Mandrione, la via delle puttane di Roma. Il garzone gliela aveva descritta così bene, che potevano fare credere di esserci stati. Chiudevano gli occhi e nella loro mente gli appariva la periferia romana, sul cui orizzonte si stagliava la costruzione ciclopica dell’acquedotto d’età imperiale dai grandi archi, con addossate una fila ininterrotta di casupole. Vedevano le puttane sedute sull’uscio, con le gonne tirate all’altezza delle cosce da fare intravedere le mutande e la sigaretta pendula tra le labbra. Intuivano persino il colore delle bluse slacciate per mettere in mostra i seni procaci. Udivano le loro voci querule che invitavano i clienti a fare l’amore. Sentivano il lezzo d’orina, il tanfo delle fogne a cielo aperto, odori che accrescevano la voglia di visitare quel luogo che evocava istinti animaleschi.
“Quando si passa per la via bisogna stare attenti a non bagnarsi,” diceva con aria seria il garzone. “Finita la scopata la puttana, oltre a toglierti il preservativo, ti lava e ti asciuga il cazzo, gettando l’acqua del bacile nella via, senza tanti riguardi per chi passa. Mi hanno fatto la doccia la prima volta che ci sono andato. Ma la colpa è stata mia. Si sono accorte che ero lì per curiosare. Era la quarta volta che andavo avanti indietro per il vicolo. Perciò quando andate a puttane, dovete dare l’impressione, che siete clienti.”
“Ma come si fa?” l’interruppe Daniele.
“Fate finta di contrattare il prezzo, ma non fate la faccia di chi non ha mai visto una donna.”
“Quanto tempo si può stare con la puttana?” l’incalzò Giampiero.
“Il tempo di venire. Una volta ci ho portato un amico. Lei era una morona con due tette così,” disse facendo il gesto con la mani, “glielo aveva appena tirato fuori e dato qualche sgrullata per farglielo diventare duro, ma quello stronzo le è venuto tra le mani a cazzo moscio. Lei senza scomporsi, glielo ha lavato, mettendolo fuori della porta, perché la prestazione era terminata, anche se lui protestava per quella mezza sega.”
Erano queste le brutte figure che i tre amici volevano evitare. Se nel primo rapporto tutto fosse andato liscio, le insicurezze sarebbero svanite di colpo e spianato la strada ad una crescita consapevole, ma se qualcosa fosse andato storto avrebbe influito negativamente sui loro caratteri da renderli perennemente insicuri con le donne. Perdere la verginità rappresentava un passo importante che inconsciamente stavano preparando da quando se lo misuravano ragazzini al fiume. Non potevano più rinviare la decisiva prova, altrimenti sarebbero rimasti bambini in un corpo d’adulto. Le domande che rivolgevano al garzone erano gli ultimi consigli. Lui, ai loro occhi, era l’eroe, specialmente da quando avevano saputo, sempre dal cugino, che, per far durare più a lungo il rapporto con le puttane, si masturbava prima di entrare.
Non avevano ancora diciotto anni, quando decisero che era giunto il momento di affrontare la fatidica esperienza. Ormai dal garzone della pompa di benzina avevano ricevuto tutti consigli necessari. Si erano fatti spiegare persino come rimorchiare le puttane che battevano la strada, che portava ad un grosso centro siderurgico distante qualche decina di chilometri dal paese. I clienti abituali erano camionisti di passaggio, ma anche molti giovani frequentavano la zona, semplicemente per osservarle da vicino, mentre contrattavano la prestazione con i frettolosi clienti. Il posto era raggiungibile solo con la macchina. A bordo di una fiat 500 color ocra, prestata per l’occasione da un amico, sempre disponibile quando si trattava di dare una mano in fatto di donne, con al volante Riccardo, che aveva preso da poco la patente, i tre si diressero nel luogo dove le puttane battevano. Fecero cinque passaggi prima di decidere quella con cui andare. Una donna di mezza età, dal trucco pesante e le vesti succinte infastidita dalla macchina con i ragazzi a bordo che allungavano il collo, urlò con accento romanesco:
“A moré e vedi d’annattene che me scacci la clientela!”
La donna aveva accompagnato l’urlo con un eloquente gesto della mano e Giampiero per niente intimorito, forte dei consigli del garzone, con la stessa cadenza della donna rispose:
“A bella mora quanto alzi?”
La donna non pensava che fossero clienti, dato il loro aspetto giovanile e con voce professionale, continuò:
“Tremila col guanto.”
“Siamo in tre: devi farci lo sconto comitiva,” s’intromise Riccardo sempre in vena di battute spiritose.
“Siete venuti qui per scopare o per rompere il cazzo,” l’apostrofò la donna, aggiustandosi la gonna.
“No! Siamo venuti per scopare,” ribatté Giampiero. Poi rivolgendosi agli amici aggiunse: “Chi va per primo?”
“A te l’onore,” ripose Daniele.
La donna aprì lo sportello sfregando l’indice e il pollice. Giampiero capì l’eloquente gesto e dalla tasca dei jeans tirò fuori le banconote richieste.
“Porta la macchina vicino alla siepe e punta i fari verso il viottolo,” ordinò la donna agguantando il denaro.
I fari della macchina illuminarono un tratto di strada in leggera pendenza. La donna fatti alcuni passi, uscì dal cono di luce, dirigendosi verso un luogo più appartato a ridosso di un grosso leccio, i cui rami agitati dal vento rendevano quel posto irreale. Giampiero seguiva i suoi pensieri. La prostituta gli ricordava nell’aspetto la fotografia di una donna nuda che aveva visto per la prima volta con gli amici, per questo forse l’avevano scelta tra le tante che battevano la zona.
“Sbrigati! Sono qui, non mi vedi!” disse la puttana con voce stridula. “Vuoi passarci la notte.”
Abituata ai camionisti di passaggio che si fermavano dopo centinaia di chilometri di guida, sudati e con aliti puzzolenti per la cattiva digestione e le troppe sigarette fumate, le piaceva trascorrere il tempo con ragazzi lindi e ben educati. Fu lei a prendere l’iniziativa e, come il solito, toccò la patta dei calzoni. Si rese conto che il pene era completamente floscio.
“È forse la prima volta?” disse la donna abbassando la lampo.
“No,” si affrettò a dire il giovane, con tono quasi offeso. “Al Vicolo del Mandrione sono di casa,” continuò mentendo in modo spudorato.
Maledetto orgoglio di ragazzo: perché mentire alla donna? Perché non confessarle la verità? Dirle semplicemente: sono vergine. Forse la donna si sarebbe comportata come la prostituta del film “Mamma Roma” di Pasolini, quando Anna Magnani, la protagonista, affida il proprio figlio, che non era stato mai con una donna, all’amica prostituta, perché lo aiutasse a farlo entrare nel mondo degli adulti. Giampiero aveva il cuore che gli scoppiava. Agiva come un automa, compiendo i gesti che nella mente aveva ripetuto numerose volte, tanto che la puttana credette al giovane, per i suoi modi decisi. D’altronde lui era convinto che le prove, anche le più impegnative, dovevano essere superate con le proprie forze. Piagnucolare la propria inferiorità, voleva dire che la competizione si svolgesse con regole truccate. E lui sarebbe rimasto nel dubbio se fosse stato capace di gestire il rapporto anche in condizioni difficili. Non voleva barare con se stesso. Erano più di dieci anni che si allenava all’evento e doveva assolutamente farcela.
“Siamo emozionati,” disse la prostituta. “Rilassati vedrai che faremo presto,” continuò con voce suadente.
Infilò la mano tra gli slip e la canottiera, raggiungendo il pene che ripiegato su se stesso non dava segni di vita. Giampiero intuiva che, per vincere l’attimo di smarrimento e riacquistare il controllo, doveva far qualcosa. Non poteva rimanere in piedi come un salame. Gli stessi istinti ancestrali che, in una società tribale, guidavano l’adepto al rito d’iniziazione, erano lì che gli suggerivano i comportamenti. Si calò i pantaloni all’altezza delle cosce, per agevolare la puttana nelle sue manipolazioni.
“Bravo dai una mano alla zia,” disse accogliendo lo scroto nel palmo della mano come se volesse saggiarne il peso.
Le dita della donna salirono sul pene, massaggiandolo con delicatezza. Giampiero chiuse gli occhi. Sentiva le mani della donna muoversi con maestria sul membro, che non tardò a diventare duro. Sarebbe rimasto fermo fino ad eiaculare se la donna fosse rimasta in silenzio.
“Ma che bel cazzo che hai mio caro giovane,” esclamò, muovendo velocemente la mano.
Il giovane, inorgoglito dal complimento, l’aveva lasciata fare, ma poi gli sovvennero i consigli del garzone. Capì subito che quella sorta di pantomima serviva per diminuire il tempo di penetrazione.
“Signora: io le ho dato il denaro per una scopata, non per una sega,” sbottò Giampiero trattenendole la mano.
“Come sei permaloso,” disse la donna prendendo dallo stretto reggiseno, da cui debordavano due giganteschi seni, un preservativo.
Con gesti meccanici alzò la corta gonna all’altezza dei fianchi. Si piegò in avanti per slacciare i bottoni automatici del body nero che indossava, le cui estremità infilò nella cinta della gonna. Finalmente Giampiero poté vedere nella semioscurità il triangolo del pube. Non resistette all’impulso. Allungò la mano stringendo la vulva. Sentiva tra le dita le grandi labbra. Se non si fosse trattato di una prostituta, vi avrebbe affondato il viso per riempirla di baci. Si limitò a passare le dita sulla fenditura carnosa oggetto di tanti desideri. Provò una carezza più profonda, ma la donna gli scostò la mano in segno di fastidio e afferrò il pene che infilò nella capiente vagina. Lui con le mani volle accertare la penetrazione. Non voleva farsi fregare. Il garzone diceva sempre di stare attenti. Era frequente, specialmente con giovani alle prime armi, che la prostituta si limitasse stringere il pene tra le cosce; con quel buio chi se ne sarebbe accorto? La donna cominciò a dimenarsi come una cavalla, imprimendo un ritmo frenetico per accelerare i tempi, mentre Giampiero avrebbe voluto movimenti più lenti, per imprimere nella mente le sensazioni della prima volta. Ma lei non gliene dette il tempo, gli strappò un orgasmo in tempo da record.
“A morè, abbiamo finito,” disse allontanando da sé il giovane che indugiava ansante sul suo petto giunonico.
Gli tolse il preservativo che gettò tra i cespugli. Dalla borsetta prese un fazzoletto di carta, con cui asciugò il pene, che si ostinava a rimanere duro, come se fosse pronto per un altro coito.
“Hai proprio un bel cazzo,” disse la donna mentre si asciugava la vulva, con voce cantilenante. Lo diceva, non perché fosse convinta, solo per lusingare il giovane cliente ed invogliarlo a ritornare.
Giampiero le infilò la mano tra i seni, mentre con l’altra le accarezzava il pube.
“Che fai? Togliti…Non facciamo aspettare i tuoi amici.”
La puttana si comportò nella stessa maniera anche con gli altri due. Dovette difendersi dall’assalto di Riccardo che voleva baciarla sulla bocca, ed essere paziente con Daniele che non era riuscito ad avere una tosta erezione, allungando, con disappunto della donna, i tempi di eiaculazione. Sul palcoscenico di strada, ai bordi del boschetto di lecci, ogni sera si recitava la stessa commedia, con poche varianti: chi impersonava la parte del maschio, chi della donna sottomessa. Quella puttana li aveva fatti sentire uomini e i tre amici gliene erano grati. In quel rapporto mercenario, che consumarono più volte nel mese, il fine non era il piacere sessuale. Lo ammettevano loro stessi, che provavano maggior piacere a masturbarsi, che infilarlo in quella fessura senza consistenza. No, per i tre amici era una sorta di palestra in cui esercitare le proprie attitudini, facendone sfoggio con gli amici, cui raccontavano con dovizia di particolari le loro bislacche avventure.
Una sera accadde un fatto imprevedibile, in cui i tre si erano sentiti come un legno sulla cresta dell’onda. L’episodio contrastava con il loro consueto modo di agire, anche se si attennero ai codici comportamentali che la situazione imponeva. Non avevano fatto i conti con l’imprevedibilità di certe pulsioni. E non seppero se classificare l’avventura tra quelle che davano prestigio o vergogna.
Quella sera i tre amici discutevano di donne e di calcio i loro argomenti preferiti. Nella quiete vita di paese, gli avvenimenti della capitale giungevano come un’eco lontana, raccontati da un amico, studente di legge che, tutte le volte che ritornava a casa, li coinvolgeva in lunghe e appassionanti discussioni politiche sulle lotte del movimento studentesco. Stavano girando un film dedicato ad un Santo nei luoghi dove era vissuto. La troupe era composta da numerosi omosessuali e la sera, al termine delle riprese, cominciava l’adescamento dei giovani del posto. Era la terza volta che incrociavano una macchina, guidata da un caratterista, dalla faccia alquanto particolare. Nel film in questione impersonava un alto porporato della chiesa. Lo sguardo ambiguo, il naso affilato, la fronte alta, ben si addicevano alla parte che doveva interpretare, che sullo schermo si traduceva in alcune inquadrature. Era tardi e solo i tre ignari amici continuavano ad accapigliarsi per le mancate prodezze d’alcuni giocatori nella partita vista qualche ora prima al bar. L’uomo fermò la macchina all’inizio della piazza e prontamente abbassò il finestrino quando i tre amici gli passarono accanto.
“Volete fare un giro!” li apostrofò con voce vellutata che non lasciava adito a dubbi a quale categoria di persone appartenesse.
I tre non gli badarono tanto erano presi nella discussione e continuarono per la strada.
“Dico a voi! Non siete stanchi di andare avanti e indietro,” insistette l’uomo, alzando il volume del suo apparecchio radio. “Salite che ascoltiamo un po’ di musica insieme.”
“No, grazie: si è fatto tardi. È ora di andare a letto,” rispose Giampiero, sapendo cosa preludesse l’invito.
“Non c’è un locale da queste parti, dove si possa bere qualcosa e parlare,” continuò l’uomo.
“Non ci sono locali,” tagliò corto Giampiero.
“Anche per te è tardi,” disse l’uomo, che doveva avere meno di quarant’anni, rivolto a Daniele.
Il ragazzo non rispose e si riparò dietro Riccardo per evitare lo sguardo dell’uomo, che lo imbarazzava.
“Hai una bocca fatta a posta per succhiarlo,” s’intromise Riccardo con aria spavalda.
La provocazione del giovane era semplicemente un gioco. La stessa battuta la rivolgeva agli amici per divertimento.
“La mia fama è arrivata sin qui,” rispose prontamente il frocio, i cui occhi si erano riempiti di gioia, e con movenze femminee continuò: “Io vado matto per i pompini.”
Il giovane non si aspettava un’offerta tanto esplicita e, per non perdere la faccia di fronte agli amici, continuò con le solite spacconate.
“Quanto sei disposto a pagare per questo?” disse, appoggiando le mani sulla patta dei pantaloni.
Pretendere un compenso per un rapporto omosessuale rientrava tra i comportamenti accettati; bisognava, però, mantenere un atteggiamento passivo, senza alcun coinvolgimento emotivo.
“Sul denaro troveremo un accordo. Io non faccio questioni di soldi con bei ragazzi come voi.”
“Vedi: noi siamo amici inseparabili,” continuò Riccardo, con la solita sfrontatezza. “La mia proposta è valida solo se lo succhi contemporaneamente a tutti e tre.”
L’intento del giovane era di mettere fine quell’assurda trattativa, che aveva coinvolto anche gli amici, che seguivano divertiti lo scambio di battute.
L’uomo guardò il ragazzo e i suoi amici che sorridevano, convinti d’averlo messo nel sacco per la richiesta impossibile da accogliere, ma la risposta che dette li lasciò di stucco.
“D’accordo. Ma dove lo facciamo? In macchina è impossibile.”
“Noi non ci spostiamo dal paese,” sibilò Riccardo, per mettere ulteriori ostacoli al mercanteggiare.
“Per me è sufficiente una panchina,” ribatté, scendendo dalla macchina. “Non ci sono da queste parti giardini pubblici?”
L’uomo dalla statura esagerata, come si conviene a chi lavora nel cinema, attendeva un cenno d’assenso.
“Avete perso la parola?”
Ormai il gioco si era fatto serio. Riccardo, scrutato l’espressione di biasimo degli amici, si fece carico della decisione.
“Vai avanti con la macchina e aspettaci in fondo alla via,” disse contravvenendo a ciò che gli amici si aspettavano che dicesse.
“Perché lo hai fatto? Noi non veniamo,” disse Giampiero appena l’uomo si fu allontanato.
Era la prima volta che l’amico contestava una decisone in maniera decisa, cui si associò lo stesso Daniele.
“Abbiamo sempre condiviso tutto e voi mi mandereste da solo con quel gigante? Non fate quelle facce ci divertiamo solo un po’ e, poi, ce ne andiamo a letto.”
Alla fine prevalse lo spirito di avventura, che contraddistingueva il carattere dei tre amici, sempre in cerca di nuove esperienze. Attraversarono le vie del paese completamente deserte, sino ad arrivare ai giardini pubblici, che per la prima volta gli apparvero infidi. Sapevano che tra le ombre si celava l’individuo che avrebbero voluto non incontrare.
“Cosa vi dicevo, se ne è andato,” saltò su Riccardo rincuorato, non vedendo la macchina.
“Meglio così,” gli fece eco Daniele.
“Ehi! Sono qui dove andate?” disse il frocio a mezza voce, uscendo da una zona d’ombra all’inizio del vialetto dei giardini.
Aveva parcheggiato la macchina qualche centinaio di metri più avanti, per non insospettire i carabinieri della vicina stazione, che facevano giri d’ispezioni a bordo della volante. Molte famiglie si erano lamentate con le forze dell’ordine per le molestie che i giovani avevano subito dagli uomini della troupe cinematografica e i controlli la sera si erano intensificati.
I tre giovani si diressero verso la siepe che divideva i giardini pubblici dall’aperta campagna. Scorgevano la sagoma imponente dell’uomo seduto sulla panchina.
“Venite a sedervi,” disse rivolto ai ragazzi, che si erano fermati al limite dell’aiuola.
Daniele si sedette sul lato sinistro, Riccardo su quello destro. Per evitare qualsiasi contatto con l’uomo, tenevano le braccia conserte, immobili come statue, mentre Giampiero stava accanto a Riccardo, l’artefice dell’assurda serata, con la mano che premeva sulla schiena dell’amico.
“Siete dei giovani proprio simpatici,” disse il frocio per rompere il silenzio. “Non mi era mai capitata una proposta così interessante,” sussurrò appoggiando le mani sulle cosce dei giovani che aveva accanto.
Parlava con voce suadente, accarezzandoli con la punta delle dita, quasi a provocargli solletico. Quel contatto discreto servì a tranquillizzare i ragazzi che osservavano, come se quella parte della gamba non fosse la loro.
“Perché te ne stai così lontano?” continuò rivolto a Giampiero, allungando la mano sulla sua coscia.
Solo quando ebbe la certezza che i giovani fossero a loro agio, spostò la mano sulla patta dei calzoni, ma si guardò bene di aprire la cerniera come aveva fatto la battona. Si limitò a studiare con delicate palpate la posizione dei loro peni mollemente ripiegati. Individuato il glande, iniziò a grattare con delicatezza quella parte dei jeans. Un sottile piacere attraversò i giovani. L’uomo sentiva i loro sessi crescere sotto le sue dita che si muovevano con agilità e precisione. Distese le verghe lungo la coscia per agevolare l’erezione, continuando ad accarezzare con lenti movimenti circolari il glande. Erano incapaci di resistere alla manipolazione dell’uomo condotta con maestria. Le dita indugiavano sul pene di Riccardo. Lo sentiva sotto i jeans di una circonferenza spropositata. Slacciò la cinghia dei pantaloni e con delicatezza fece scorrere la cerniera della patta, liberando prima il pene del giovane, poi quelli degli amici che gli erano accanto e finalmente poté osservare i loro sessi svettare nell’aria come le guglie di una cattedrale. Si tuffò su quello di Daniele lungo e sottile, leggermente ricurvo in punta. Lo stringeva con la forza delle labbra, percorrendolo per tutta la lunghezza, con movimenti rapidi. La particolarità del pene di Giampiero era il glande, simile ad un grosso fungo. Non resistette alla voglia di agitarvi la lingua intorno. Passava da un pene ad un altro dispensando ad ognuno identiche cure, prolungando quel rapporto orale multiplo.
Esibire il pene significava per i tre giovani esprimere il massimo della virilità. Erano loro che detenevano il potere esercitato attraverso il sesso. La posizione china dell’uomo lo dimostrava. I codici comportamentali erano tutti assolti. Chiunque dei coetanei li avesse visti nell’atteggiamento distaccato, avrebbe condiviso il modo di fare. Così ci si comporta con un frocio, che lo prende in bocca, sembravano volere dire i loro sguardi complici. Non erano sfiorati dal minimo dubbio che potevano essere loro al servizio del frocio. Perché, nella sostanza, il più forte era lui che li aveva piegati ai suoi desideri; che li possedeva; che aveva catturato le loro anime. Era lui il vincitore di quella serata e loro si crogiolavano su una presunta superiorità. Bastava che il frocio avesse stretto le mascelle, che la tagliola avrebbe fatto a pezzi la loro virilità.
I giardini, a quell’ora della notte, erano deserti. Nella strada prospiciente l’entrata era passata la Giulia dei carabinieri. La luce dei fari aveva per un attimo squarciato il buio luogo, sfiorando appena la panchina dove i tre giovani scoprivano i piaceri legati al sesso, per il tramite di un uomo.
Il frocio aveva il pene di Giampiero in bocca. Sentiva dai gemiti che il giovane stava per venire. Agitò la testa velocemente come uno stantuffo. Fu a quel punto che avvertì la contrazione del muscolo e il primo fiotto di sperma gli riempì la bocca. Continuò più veloce, succhiando il glande come se volesse fare uscire dal corpo del giovane ogni umore. Il giovane era soggiogato dall’uomo, delle sue arti amatorie, che lo avevano condotto a forme di piacere sconosciute, tanto da vergognarsi di avere goduto così intensamente a causa di un frocio.
L’uomo era sul pene di Riccardo, che gli riempiva la bocca, impedendogli di muovere la lingua, come avrebbe voluto. Furono sufficienti alcune energiche succhiate, con movimenti circolari delle labbra, che sentì la verga del giovane pulsare, cui seguì un violento schizzo di caldo liquido sul palato. L’odore di sperma eccitava l’uomo che aveva accelerato i movimenti per portare a termine l’atto, ma già con una mano era sul pene di Daniele per saggiarne la consistenza. Era turgido, e da come era bagnato in punta si capiva che il giovane stava per venire. Sputò lo sperma di Riccardo e si portò con le labbra sul pene di Daniele, facendo appena in tempo ad intercettare il liquido che gli invase la bocca.
I tre giovani erano frastornati, svuotati d’ogni forza, incapaci persino di toccare i loro sessi unti di sperma. Il frocio prese dalla tasca alcuni fazzolettini di carta. Cominciò ad asciugare il pene di Daniele che stava afflosciandosi; poi passò a quello di Riccardo. Per pulire meglio il pene di Gianpiero lo rimise in bocca inumidendolo. Il frocio sapeva che dopo di lui si sarebbero divisi. Prolungò ancora l’atto e l’asta si fece di nuovo dura tra le labbra. Sentiva la pelle del prepuzio tesa. Lo baciò in punta, come se salutasse un amico da cui ci si accomiata. Fu a quel punto che la mano di Giampiero premette sulla nuca. L’uomo accolse l’invito, prodigandogli nuove attenzioni fino a quando il giovane eiaculò di nuovo. Non era della stessa consistenza della prima venuta, ma sufficiente per riempirgli la bocca. L’uomo, questa volta, deglutì il liquido dietro lo sguardo sbalordito dei tre giovani, che non avevano mai immaginato che si potesse arrivare a tanto. Non chiesero alcun compenso, che sarebbe servito a tacitare le loro coscienze. Fu per questo che non accennarono ad anima viva dell’incontro della sera. Evitarono di parlarne anche tra loro, come se volessero rimuovere l’episodio.
2
Nello studio del padre
Con la morte del padre, Ilaria aveva ereditato l’intero patrimonio. L’avvocato Mauro lo aveva valutato a circa tre milioni d’euro e comprendeva oltre allo studio di commercialista, di cui il padre era socio di maggioranza, Casa degli elci, appartamenti situati in una zona residenziale della città, un negozio nel centro, denaro contante, titoli di stato, tanto che la ragazza avrebbe potuto vivere di rendita per il resto dei suoi giorni. Non era nel suo carattere condurre una vita senza fare niente. Il suo obiettivo era di terminare gli studi, nonostante che Mauro le avesse prospettato l’idea di metterla a capo della divisione gestione risorse umane, dove non erano richieste conoscenze giuridiche particolari, ma altre attitudini che l’uomo era convinto che la ragazza possedesse.
Erano le dieci quando varcò la soglia dello studio, già pieno di clienti che attendevano di essere ricevuti dalle numerose impiegate per il disbrigo delle pratiche ordinarie. Nella borsa aveva i telegrammi di condoglianze che consegnò alla segretaria del padre. La donna aveva avuto l’incarico dall’avvocato di gestire l’intera operazione dei ringraziamenti, con l’intento di tranquillizzare i maggiori clienti. Lo studio, nonostante la scomparsa di uno dei titolari, avrebbe continuato a fornire le stesse elevate prestazioni professionali: era questa la risposta che tutte le impiegate avevano l’obbligo di fornire quando rispondevano al telefono.
La donna fece accomodare Ilaria nell’ufficio del genitore, sulla cui scrivania faceva bella mostra di sé un fascio di rose rosse, avvolte in carta trasparente.
“Un pensiero veramente gentile,” disse Ilaria accarezzando alcuni boccioli.
“Sono state le colleghe dello studio,” rispose prontamente la donna, anche se l’idea era stata unicamente sua. Tra le impiegate era quella che più aveva risentito della morte del professionista con cui aveva condiviso dieci anni d’attività, contribuendo all’affermazione dello studio.
“Le ringrazi da parte mia,” rispose la ragazza.
Ilaria provò una sorta d’emozione sedersi sulla poltrona del padre. Osservava, nel portaritratti accanto al telefono, l’immagine della madre con lei accanto all’età d’otto anni. Entrambe chinate, porgevano il cibo ai piccioni di piazza San Marco, i quali in un vortice d’ali, lo beccavano direttamente dalle loro mani. La fotografia era proprio bella, non solo per l’espressione dei soggetti, un misto di timore e meraviglia, ma per il movimento circolare dei volatili che davano dinamicità alla foto. La stessa basilica sullo sfondo, illuminata da una luce obliqua, contribuiva a dare all’intera composizione un sapore arcano ed era questa particolarità che colpiva l’osservatore.
“Questa è sua,” disse la segretaria porgendole una chiave appesa ad un nastrino rosso. “Il dottore aveva voluto che una copia la tenessi io. Apre il cassetto centrale della scrivania. Credo che ci siano documenti personali,” continuò con un tono di voce velata di tristezza.
Ilaria strinse la chiave nel pugno, ma vedendo la donna indietreggiare disse: “Non vada via. Ho bisogno di scambiare qualche parola con lei. So bene la stima che mio padre nutriva nei suoi confronti.”
La segretaria abbassò il viso per una sorta di pudore per il complimento inatteso. Era lei ad assegnare il lavoro alle altre impiegate; a controllare che fosse svolto con precisione e puntualità; a fare in modo che tutte le scadenze fiscali e contributive, delle trecento ditte cui fornivano l’assistenza, fossero rispettate.
“Qualche volta mio padre si sarà confidato con lei, magari per dirle come avesse trascorso un fine settimana,” proseguì la ragazza, stringendo la chiave nel pugno.
“Suo padre si è sempre attenuto al precetto di non confondere la vita privata con il lavoro,” continuò la segretaria. “Siamo il primo studio della città, e questo impone un’organizzazione che non concede spazio alle chiacchiere di corridoio.”
Ilaria capì subito che dalla bocca della donna non sarebbe uscita alcun’indiscrezione e fu grata per la riservatezza dimostrata, una sorta di baluardo a difesa della figura paterna.
“Sto cercando di ricostruire i movimenti di mio padre,” continuò Ilaria. “L’ultima volta che lo ha visto, quando è stato?”
“Se aspetta prendo l’agenda,” rispose la donna, la cui precisione era proverbiale all’interno dello studio. Ritornò con la pagina aperta sul giorno interessato. “Non lo vedevo da due settimane, dal giorno in cui è partito in vacanza con la signora Laura per la Tunisia.”
Ilaria sapeva della vacanza del padre. L’uomo l’aveva avvisata qualche giorno prima della partenza. Era stato l’ultimo dialogo avuto e se ne dispiaceva, perché in quella circostanza si era limitata ad ascoltarlo, forse perché era impegnata a preparare un esame.
“In Italia quando sono giunti?” proseguì.
“Il volo di rientro era previsto per il 30 agosto alle ore 10, all’aeroporto di Linate. Vede è scritto qui,” disse mostrandole il calendario dell’agenda con l’annotazione vicina.
“Lo stesso giorno dello spettacolo all’Arena,” disse Ilaria, mentre prendeva nota nel suo taccuino del particolare. “Si era interessata lei per la prenotazione dei biglietti per la rappresentazione del Nabucco?”
“No,” disse la donna.
“Allestimenti d’opere liriche richiamano persone da tutto il mondo ed è impossibile trovare un posto libero senza una prenotazione fatta con largo anticipo,” continuò Ilaria, come se riflettesse ad alta voce. “Siamo di fronte ad un gioco ad incastro dalla precisione sconvolgente. Mio padre rientra dalla Tunisia dopo una breve vacanza con la sua donna. A Milano si separano. Lui sostiene che ha un impegno in città, invece prende il treno per Verona, dove l’attendono il chirurgo con la moglie. Quest’ultima va dal parrucchiere, al rientro in albergo, sorprende i due uomini fare l’amore e in un raptus di follia li uccide, togliendosi la vita. No, quella della polizia è una ricostruzione assurda,” sbottò Ilaria alzandosi di scatto dalla poltrona per dare sfogo alla sua collera.
“Sono d’accordo con lei,” assentì la donna. “Non credo una parola di ciò che hanno scritto i giornali.” Dal tono di voce si capiva che non lo diceva per assecondare la ragazza. Aveva fatto anche lei le sue valutazioni. “Non può essere quello il movente, sono altre le ragioni che hanno causato la tragedia. Conoscevo bene il carattere di suo padre. Egli non avrebbe mai acconsentito ad avere rapporti con chicchessia se il gesto poteva offendere altre persone,” sentenziò.
“Che cosa intende dire?” chiese la ragazza.
“Dico semplicemente che se doveva esserci una relazione tra i due uomini, la donna ne era al corrente, di questo ne sono più che certa.”
“Sono anch’io dello stesso avviso,” ribatté Ilaria appoggiando la mano sulla spalla della donna, per esprimerle gratitudine per quella lettura dei fatti molto simile alla sua. “È necessario scoprire qual era il rapporto che legava la coppia a mio padre, solo così è possibile capire cosa realmente accadde in quella camera d’albergo.”
Non era nel temperamento d’Ilaria aprirsi con gli estranei, ma sentiva d’avere fiducia nella segretaria del padre; inoltre la sua discrezione la rendeva un’alleata preziosa.
“La coppia amica era venuta a trovare mio padre in ufficio qualche volta?”
“No, ho sempre visto la signora Laura. Le sue erano visite brevi, il tempo di prendere un caffè al bar di sotto.”
“Al telefono, almeno, lo avranno cercato?”
“L’uomo, un paio di volte. Ricordo la circostanza molto bene, perché dovetti disdire una serie d’appuntamenti, per permettere a suo padre di recarsi a Milano per due giorni.”
“Non sa che cosa fosse andato a fare?”
“Lo ignoro, però il lunedì successivo notai un cambiamento.”
“Di che tipo,” si affrettò a chiedere Ilaria.
“Lo vedevo euforico, un modo di fare insolito. Mi parlava delle opere di Wagner, ricevendo l’impressione che avesse assistito al Lohengrin al teatro La Scala di Milano, per quell’aria del primo atto che sussurrava continuamente.
“Saprebbe dirmi le volte che mio padre si è recato fuori città, negli ultimi mesi?” l’incalzò la ragazza alla ricerca di prove sui presunti incontri in altri teatri.
“Posso verificare solo le assenze per motivi professionali,” rispose la donna. “Dove si recasse nei fine settimana è difficile dirlo: era persona molto riservata.”
“Attraverso la sua carta di credito, potremmo risalire agli alberghi dove potrebbe avere soggiornato, se avesse scelto questo modo di pagamento: non le pare?”
“Certo è possibile, però tenga conto che per le spese non inerenti all’attività dello studio adoperava la sua carta di credito personale e le ricevute arrivavano direttamente al domicilio privato.”
“Lei mi aiuti a ricostruire gli spostamenti fuori città per motivi di lavoro, io penserò agli altri.”
La ricerca d’Ilaria si muoveva su due piani: il primo rivolto a conoscere il padre, attraverso le persone che gli erano state amiche; il secondo scoprire la vera natura del rapporto con la coppia con cui s’incontrava periodicamente. Era convinta che fosse questa la strada giusta per risolvere l’enigma della sua morte.
La solerte segretaria chiuse l’agenda sui cui aveva preso nota delle istruzioni ricevute. Per un istante aveva avuto la sensazione che il suo capo fosse ancora vivo, tanto che rivolse ad Ilaria la stessa espressione che utilizzava al termine degli incontri di lavoro.
“Se non ha più bisogno di me, ritorno nella mia stanza,” disse guadagnando l’uscita a passettini veloci come se dovesse ricuperare il tempo per quel colloquio imprevisto che le aveva scombussolato i piani di lavoro della mattinata.
Ilaria attese che la porta si chiudesse, e solo quando sentì la segretaria muoversi nella stanza accanto, infilò la chiave nella serratura della scrivania. Con gesti rapidi esaminò il contenuto del primo cassetto per rendersi conto della natura del materiale custodito. Non c’era niente d’interessante, solo fotocopie di articoli pubblicati nelle riviste tributarie cui collaborava il padre, che documentavano il suo impegno nel fornire dotte interpretazione su casi risolti nell’ambito dell’attività dello studio e gli interventi svolti in una serie di trasmissioni televisive, andate in onda sull’emittente locale di Laura. Il secondo cassetto era riservato alle faccende di famiglia: copie dei contratti di locazione degli appartamenti, ricevute di pagamento di Casa degli elci, e finalmente gli estratti conto della sua carta di credito personale. Dette una scorsa veloce alle ricevute ed ebbe la certezza che si trattava proprio del materiale che stava cercando. Lo avrebbe esaminato una volta rientrata in casa. Nell’ultimo cassetto c’erano buste con la pubblicità del negozio in fondo alla via, dove numerose volte Ilaria aveva portato a sviluppare rullini fotografici. Lacerò la prima busta, convinta di trovarci foto del padre con la coppia amica e invece sia la prima sia le altre buste contenevano le immagini d’alcuni viaggi fatti con Laura dal sapore romantico. Un plico sigillato, contrassegnato con la lettera “P”, scritta di pugno di suo padre e firmato sui lembi per garantirne l’integrità, occupava lo spazio laterale del cassetto. Al tatto capì che doveva contenere una cassetta video. Non riusciva a comprendere perché il padre avesse preso tante precauzioni, di certo, se lo aveva fatto, il contenuto doveva essere importante. Il suo sguardo si posò, infine, su una scatola che occupava il fondo del cassetto. Una volta aveva contenuto deliziosi cioccolatini, una confezione di prestigio. Alzò il coperchio metallico e al suo interno, in buon ordine, vi trovò materiale che riguardava i suoi genitori: lettere d’amore, fotografie con dediche, bigliettini d’auguri, che il padre aveva raccolto in vent’anni di matrimonio, attraverso i quali era possibile ricostruire la loro storia sentimentale.
“Saresti perfetta nel posto di tuo padre,” disse Mauro entrando nell’ufficio. “Non ti alzare, stai pure comoda,” continuò l’uomo.
“Vorrei portare via il contenuto di questi cassetti,” disse sollevando lo sguardo da un bigliettino di auguri scritto di pugno dalla madre. “Sono cose personali,” aggiunse con un velo di commozione.
“Ti faccio portare una scatola,” disse l’uomo. “Hai valutato la richiesta che ti ho fatto di unirti a noi nell’attività dello studio?” aggiunse sedendosi.
“Mi hai preso alla sprovvista,” rispose la ragazza. “Ho bisogno d’altro tempo per rifletterci.”
“Hai ragione, ma in me è prevalso l’aspetto affettivo. Desideravo che l’attività messa in piedi da tuo padre potesse trovare la sua continuità nella figlia. Riflettici con tutta calma; in ogni modo non potrai disinteressarti dell’attività dello studio. Dovrai far parte del consiglio d’amministrazione come proprietaria delle quote di maggioranza. Dopo la morte della mamma, tuo padre aveva dato disposizione che, nell’eventualità di una sua prematura scomparsa, l’intero patrimonio della famiglia fosse gestito dallo studio. Insieme decidemmo come operare con l’unico scopo di tutelare gli interessi dell’unica erede. Penseremo noi a tutte le incombenze concernenti il tuo mantenimento. Lo studio ti farà da padre e da madre,” disse sorridendo. “Ho saputo dell’incontro che hai avuto al ristorante “Le fontane” con Riccardo e Daniele.”
“Sì, è stata una piacevole conversazione, tutta incentrata nel periodo della vita di quando erano ragazzi,” disse la ragazza. “Tu e mio padre, quando frequentavate l’università, avete condiviso la stessa stanza per quattro anni consecutivi. Raccontami di quel periodo, senza tralasciare nessuno particolare,” disse Ilaria, accomodandosi sulla poltrona.
Marta
Giampiero era diventato un bel ragazzo alto un metro e ottanta; e già questo di per sé faceva bellezza, come gli ricordava sovente la madre. Il naso regolare, le labbra carnose e sensuali, gli occhi dallo sguardo penetrante rendevano il suo viso dolce, nonostante il mento volitivo identico a quello del padre. Portava i capelli pettinati con la riga da una parte, che gli conferivano l’aspetto di ragazzo per bene, diverso da tanti giovani, la cui zazzera, per seguire la moda, copriva loro persino le orecchie. Il giorno in cui si era presentato alla segreteria dell’università per iscriversi al corso d’economia e commercio, molte delle studentesse, che affollavano il corridoio, non gli avevano tolto gli occhi di dosso. Aveva provato anche lui ad usare lo stesso riguardo e quasi tutte avevano risposto con timidi sorrisi, a differenza delle ragazze del paese che abbassavano lo sguardo quando un giovane le osservava con insistenza.
Aveva convinto il padre che per seguire con profitto i corsi, era meglio risiedere nella sede universitaria anziché fare il pendolare. Era figlio unico e i genitori avevano acconsentito di buon grado alla richiesta. Sulla bacheca della facoltà, tra i tanti annunci esposti, rispose a quello che gli sembrava più spiritoso: “Tre moschettieri cercano D’Artagnan per condividere piccola magione situata nel centro storico”. Certo, lui di temperamento non si sentiva un guascone, ma il fatto che l’invito puntava a costruire un rapporto d’amicizia, fece breccia nel suo animo, ora che Daniele e Riccardo, gli amici del cuore, stavano servendo la Patria. Lui era stato esonerato dal servizio militare per un soffio al cuore. C’era stato male per diversi giorni, pensando che gli era preclusa un’esperienza comune a tanti giovani della sua età.
Incontrò Mauro, Bruno e Nicola, seduti sugli scalini della Fontana Maggiore della piazza e Giampiero decise che si sarebbe unito a loro ancora prima di vedere l’appartamento, per quel modo che avevano di intendere la convivenza, una sorta di comune in cui tutto era condiviso, in ossequio al motto degli spadaccini di Dumas, cui s’ispiravano.
Occupava la stessa stanza di Mauro, iscritto alla facoltà di giurisprudenza, il quale suggeriva i comportamenti da tenere in casa, diventando regole comuni una volta condivise dagli altri. La mattina successiva alla prima notte trascorsa nel minuscolo appartamento si era svegliato con il mal di testa. Lo scorrere dell’acqua nelle tubazioni, lo stridio dei pneumatici sull’asfalto, che proveniva dalla finestra del bagno lasciata aperta per arieggiare l’ambiente, gli avevano disturbato il sonno. Bevve la tazzina di caffè preparata da Bruno e Nicola, una sorta di benvenuto al nuovo ospite. I due provenivano da un paesino dell’alto Lazio, in provincia di Rieti. Frequentavano la facoltà di lettere ed erano portati per l’insegnamento, tanto che l’ultimo anno di liceo, avevano curato la preparazione d’alcuni ragazzi negli esami di licenza media per assecondare la loro inclinazione. Era già sull’uscio della porta con il libro di ragioneria generale sotto il braccio, per la sua prima lezione universitaria, quando sentì Mauro alzarsi, stimolato dall’aroma della bevanda, il cui profumo aveva invaso persino l’androne delle scale. Voleva salutarlo, ma poi per timore di giungere in ritardo si precipitò giù per le scale. Camminava lungo la via con un’euforia addosso, che solo i luoghi nuovi riescono a suscitare, da fargli dimenticare il cerchio alla testa. Ogni senso del corpo era attento. Non gli sfuggiva nulla a differenza di certi distratti passanti che avevano la mente altrove. Come i giovani guerrieri, che superati i riti d’iniziazione vanno a caccia per guadagnarsi il rispetto della tribù, anche Giampiero era pervaso dagli stessi istinti. Lo scenario là era la foresta intricata o la savana popolata da grandi erbivori, qui erano i dedali di viuzze, le piazze gremite di gente, ma identiche le pulsioni che animavano lo spirito. Aveva vent’anni e tutte le prove per diventare uomo le aveva superate ed ora si sentiva pronto a confrontarsi con il nuovo ambiente.
Giampiero si era iscritto al laboratorio di lingua francese, termine pomposo che significava: esercitazioni pratiche attraverso l’ausilio di dischi, coordinata da un’insegnante di madre lingua. Il corso era riservato solo agli studenti che avevano una conoscenza approfondita del francese, desumibile attraverso un questionario di cinquanta domande. Giampiero superò l’esame senza difficoltà; era così innamorato della cultura francese, da sentirsi vicino agli studenti della Sorbona del maggio francese, che avevano infiammato di sogni l’intera Europa con le loro utopie. Molti dei suoi amici avevano scoperto la Francia solo in quella circostanza. Lui da tempo aveva anticipato la tendenza e poteva con orgoglio affermare di non seguire le mode. Non a caso i suoi autori preferiti erano Stendhal, Balzac, Zola, Flaubert e in quel periodo, addirittura, stava leggendo Les misérables di Hugo in versione originale. L’insegnante lo chiamava Jeanpierre, sorta di vezzeggiativo riservato all’allievo prediletto. Presto anche i compagni d’aula la imitarono. Lui accettò di buon grado il cambiamento, anche se non immaginava che quel nome gli sarebbe rimasto attaccato addosso per sempre.
Da quando frequentava l’università, era diventato un assiduo frequentatore di un cinema d’essai, dove proiettavano film de La nouvelle Vague. Lui partecipava sempre al dibattito, pronto ad esaltare autori come Godard, Truffaut, Resnais, che con i loro film avevano rivoluzionato il linguaggio cinematografico.
Era uscito con diverse studentesse, scambiandosi teneri baci. Se all’inizio era piacevole sentire le lingue intrufolarsi in ogni angolo della bocca, Jeanpierre (da ora in poi lo chiameremo anche noi con questo nome) era desideroso di fare altre esperienze. Conobbe alla mensa universitaria una ragazza dai capelli biondi, tenuti fermi da una fascia verde, che rendeva perfetto l’ovale del viso, iscritta al secondo anno di lingue. Al primo incontro si erano baciati; al secondo si erano toccati; al terzo appuntamento, complice il film, tanto atteso, Ultimo tango, lui si era spinto oltre. Presso i giardini della città, lo aveva tirato fuori e lei, con gesti lenti, per timore di fargli male, lo aveva masturbato. Rimasero ad accarezzarsi per tutta la sera, seduti sulla panchina, che non avrebbero abbandonato, se non fosse stato per un curioso, che con la scusa di inseguire il cane si era messo con insistenza ad osservarli.
Due giorni dopo Jeanpierre cercava la ragazza nei corridoi della facoltà. Voleva uscire con lei. Era andato persino in farmacia a comprare dei profilattici. Faceva molto “uomo con esperienza” aprire il portafogli e far vedere la confezione del preservativo. Tutti i giovani ne possedevano una, convinti che fosse di buon auspicio per interrompere la forzata castità. Un occhio esperto, avrebbe capito dallo stato d’usura dell’involucro chi millantava un’intensa attività sessuale. I più furbi rinnovavano la dotazione, anche se non toccavano una donna da mesi, solo per mantenere alto il prestigio tra gli amici. Verso l’ora di pranzo vide la ragazza seduta ad un tavolo di un bar del centro. Sorseggiava una bibita in compagnia di un giovane. Jeanpierre le andò incontro e, prima che potesse aprire bocca, fu lei ad apostrofarlo.
“Jeanpierre, ti presento il mio fidanzato,” disse in tono disinvolto. “È stato via un mese. Si è operato d’appendicite.”
“Ah, sei fidanzata,” rispose con irritazione, guardando prima lei, poi l’ignaro giovane che si era alzato dalla sedia, tenendosi la mano sull’inguine per non sforzare la ferita.
Tutto si sarebbe aspettato meno che quella ragazza, di cui aveva dimenticato persino il nome, fosse fidanzata. Si sentiva ingannato per il sol fatto che quel giorno avrebbe voluto aprirle il suo cuore. Si era accasciato sulla sedia, per l’insistenza del giovane, che ci teneva conoscere gli amici della donna che intendeva sposare. Fu la ragazza a portare la conversazione sui temi cari al femminismo, per dare una risposta indiretta a Jeanpierre il cui volto ostentava sarcasmo. Sosteneva che le donne dovevano avere la stessa libertà degli uomini. La gelosia era un sentimento sorpassato; contava solo la stima reciproca e lo spirito di solidarietà nei confronti della persona amata. Diceva che le idee libertarie dei movimenti studenteschi stavano affrancando la donna dal ruolo subalterno in cui l’uomo l’aveva segregata. Parlava con pacatezza, abbracciata al suo ragazzo con cui scambiava teneri sorrisi. Alla fine Jeanpierre capì quanto il suo atteggiamento fosse stato sciocco, e non poté fare a meno di osservare la ragazza con occhi di complicità, felice di avere vissuto una breve storia d’amore che aveva arricchito entrambi.
Marta frequentava la facoltà di lettere moderne. Fu Nicola che la presentò a Jeanpierre. Una sera si erano recati in uno di quei locali che stavano prendendo piede, in cui si ballava sotto un fascio di luci che rendevano i movimenti sincopati, simile al ritmo della musica sparata a tutto volume. Non c’era molta differenza tra le danze tribali di certi popoli primitivi e i gesti dei giovani che si esibivano in pista. Lei se ne stava in disparte, infastidita dal rumore che impediva persino di parlare.
“È inutile stare qui a girarsi i pollici,” disse Jeanpierre rivolto alla ragazza, facendo il gesto d’alzarsi.
“Non conosco questi balli moderni,” si giustificò lei.
“Nemmeno io,” insistette Jeanpierre. “Ma da come si muovono non occorrono particolari attitudini,” disse con una sfumatura d’ironia.
La ragazza seguì il giovane in un punto della pista meno affollata. Aspettò che fosse Jeanpierre ad iniziare, solo per imitarne i movimenti, dimenandosi, dopo il secondo brano musicale, con lo stesso sincronismo del suo cavaliere e delle coppie accanto. Per dare un po’ di tregua ai più scalmanati, uno studente dai capelli pettinati a coda di cavallo, appollaiato su una pedana rialzata, ogni tanto metteva dei brani lenti. Allora si abbassavano le luci e in pista rimanevano solo le coppie che amavano lo struscio. Jeanpierre stringeva Marta in vita. La ragazza era aggrappata al suo collo come se volesse cercare protezione. Se Jeanpierre le premeva la mano sui fianchi, lei gli accarezzava la nuca; se le sfiorava il viso con le labbra, lei gli toccava fuggevolmente il collo; se premeva con il bacino, lei contrastava la spinta. Segnali che indicavano una forte attrazione fisica. Il desiderio di scoprire dove quel seducente gioco li avrebbe condotti, li rendeva incapaci di opporsi alle continue provocazioni. Quella sera, però, non accadde nulla.
Alcuni giorni dopo decisero di organizzare una cena. Bruno e Nicola avevano ricevuto l’incarico di preparare alcuni piatti tipici delle loro terre, aiutati dalle stesse amiche con le quali erano andati in discoteca, cui li legava un’affinità intellettuale. Questo non significava che disdegnassero contatti fisici. Discutere di poesia e letteratura era prevalente rispetto all’eros, presi com’erano a mettere a nudo le loro anime e dare significato alla propria esistenza. La cena, nell’intenzione dei quattro amici, doveva essere una sorta di convivio all’insegna della poesia. Fu Bruno ad avere l’idea. Scrisse su dei foglietti di carta i nomi d’otto poeti italiani da abbinare ad ogni commensale. Jeanpierre diventò Petrarca, Marta Montale, Mauro D’Annunzio, Bruno e Nicola Foscolo e Leopardi mentre l’altre amiche Carducci, Pascoli e Quasimodo. Sul tavolo c’erano alcune antologie di letteratura per essere consultate e rinverdire qualche nozione appresa durante le scuole superiori. All’inizio, il gioco s’incentrò sulla passione coltivata da alcuni poeti per la donna amata. I ragazzi si lasciarono andare a vere dichiarazioni d’amore alle ragazze, il cui nome era stato mutato in Laura, Silvia, Ermione, Fanny. Poi, più le ore della sera si facevano piccole, si passò a declamare i versi che qualcuno commentava per coglierne gli aspetti più rilevanti. Fu un momento coinvolgente, perché ognuno metteva a nudo il proprio essere attraverso le più belle liriche dei poeti che, con mirabile sintesi, descrivevano sentimenti, emozioni, riflessioni sulla vita. Al pessimismo di Leopardi faceva eco il canto decadente di D’annunzio carico di sensazioni ed atmosfere; alla perdita d’innocenza di Quasimodo e all’inquietudine di Montale rispondeva la sensibilità esistenziale di Petrarca; alla poetica delle piccole cose di Pascoli si ergeva la rievocazione storica di Carducci e la ricerca di valori universali di Foscolo. Grandi poeti della letteratura italiana che dialogavano tra loro attraverso la voce di quei giovani.
Dopo quella sera i rapporti tra Marta e Jeanpierre si erano consolidati. I due giovani erano sempre attratti l’uno dell’altro, però Marta si era sempre rifiutata di compiere un rapporto completo. Diceva che non si sentiva pronta. La verginità rappresentava ancora un fardello pesante, carica di significati che molte ragazze del suo corso se ne erano sbarazzate, anche dopo essere uscite una sola volta con un ragazzo, interpretando quel gesto come atto di ribellione per l’emancipazione della donna. Era l’unica tra le compagne ancora ad essere vergine, benché uscisse con Jeanpierre, una stanga d’uomo, che molte le invidiavano. Alcune sue amiche prendevano la pillola per dimostrare di avere raggiunto la stessa parità sessuale dell’uomo, semplicemente perché potevano fare l’amore tutte le volte che lo desideravano. Lei non era convinta di questo. La minuscola pillola, che le amiche brandivano come arma di liberazione, non aveva il potere che le attribuivano. Era un’illusione crederlo. Agli occhi della gente una ragazza che faceva l’amore con troppa disinvoltura, rimaneva una puttana, cui nessuno ragazzo avrebbe voluto come madre dei propri figli.
Jeanpierre per la prima volta con Marta aveva organizzato le cose in grande. Approfittò dell’assenza di Bruno e Nicola che erano andati nel loro paese per il fine settimana. Mauro aveva trovato rifugio da un suo amico, per lasciargli campo libero. Jeanpierre per tutto il pomeriggio aveva messo in ordine la casa. Aveva unito i letti nella propria camera e, sopra la scrivania, aveva collocato il giradischi di Bruno. La musica scelta era la colonna sonora del film Anonimo Veneziano, che aveva visto con Marta qualche settimana prima. La serata prevedeva una cena in un ristorante dalle parti dell’Arco Etrusco, per terminare in un’osteria ad ascoltare un cantautore che si esibiva in canti di protesta, accompagnandosi con la chitarra. La ragazza attendeva Jeanpierre alla fermata dell’autobus. Indossava una camicia turchese, con sopra un gilet nero impreziosito di ricami dai motivi floreali, su cui spiccava una collana di pietre dure dai tenui colori, che toccava per trastullarsi. La gonna marrone, trattenuta in vita da una cintura dalla fibbia d’ottone, le arrivava all’altezza del polpaccio. Calzava degli stivali di pelle nera, dal tacco quadrato, aderenti alla gamba. La famiglia di Marta risiedeva in una città del nord. Era stato il padre a mandarla in un’università del centro Italia, lontana dalle occupazioni che gli studenti stavano attuando dove non era garantito nessun corso di studio. Viveva ospite dello zio, fratello della madre, un notaio che abitava in una zona residenziale della città. Per tranquillizzarlo, lo aveva assicurato che sarebbe rimasta a dormire da un’amica, con cui stava preparando un esame. Cercava lo specchietto per il trucco nella capiente sacca peruviana con disegnate figure geometriche d’ispirazione Incas, quando Jeanpierre apparve in fondo alla strada. Il ragazzo indossava un completo di colore grigio. La giacca, aderente in vita, aveva le tasche a toppa, con due spacchi dietro. Sulla camicia d’oxford, colletto alla francese, spiccava la cravatta dai disegni scozzesi. I pantaloni dalla vita bassa, stretti nella coscia, si allargavano all’estremità quasi a coprirgli le scarpe modello inglese.
Jeanpierre infilò la chiave nella serratura dell’appartamento che era quasi l’una. Aveva nelle orecchie i versi di una delle ballate ascoltate nel locale affollato da studenti, la cui melodia mimava con la bocca. Si era affacciato al balcone della cucina. Da quel punto si dominava tutta la parte vecchia della città, con i tetti che degradavano sino a perdersi nella valle sottostante, dove erano visibili le luci dei nuovi insediamenti industriali che stringevano in una morsa l’antico abitato.
“Vado al bagno,” disse la ragazza.
“Ti faccio strada,” rispose il giovane. “Ecco lì c’è tutto l’occorrente,” continuò indicando gli asciugamani piegati sul lavandino.
La ragazza si appoggiò con la schiena alla porta del bagno, come se volesse impedire qualcuno di entrare. L’intimidiva sapere che di là c’era un uomo che l’aspettava per fare l’amore. Dalle amiche si era fatta spiegare se l’atto della deflorazione fosse doloroso. Le risposte che aveva ricevuto erano state così diverse, che i dubbi erano rimasti. Improvvisamente si ricordò dei consigli di un’amica della madre, una volta che avevano parlato di cose di donne. La donna, seraficamente, aveva confessato che lei non si era accorta di niente, e questo servì a tranquillizzarla un poco. Le giungevano le note del concerto per oboe di Albinoni, mentre si spogliava con gesti lenti. La melodia ebbe l’effetto di allentare la tensione e per un attimo rivisse l’atmosfera della sera dedicata alla poesia, in cui il suo animo era entrato in comunione con quello di Jeanpierre. Il ragazzo era persona sensibile, per questo aveva deciso di farlo con lui la prima volta. Lui era disteso sul letto preso ad ascoltare la musica.
Prima che le mani della ragazza potessero cingergli il collo, sentì il suo profumo. Alzò lo sguardo e la vide completamente nuda. L’accolse tra le braccia, baciandola in punta di labbra, mentre cercava di togliersi i vestiti di dosso. Marta aveva l’impressione che tutti i sensi del corpo fossero concentrati nelle mani, un po’ come accade ai ciechi che hanno sviluppato il tatto nei polpastrelli; altrimenti non riusciva a spiegarsi il desiderio frenetico che aveva di prodigargli carezze che indugiavano su ogni parte del suo muscoloso corpo. Jeanpierre le accarezzava il monte di venere, esercitando una leggera pressione con le dita della mano. Le grandi labbra erano ancora umide dai preparativi del bagno. Scivolò con le ginocchia all’altezza delle sue gambe. Lei inarcò il busto. Lui non resistette alla voglia di affondare il viso sulla vulva e baciarla come se fosse una bocca ardente. Marta si sentiva carica d’energia. Si aggrappò al collo, costringendo Jeanpierre, che la riempiva di baci, ad invertire la posizione. Osservava il pene eretto. La forma del glande le ricordava l’elmo del Colleoni, il monumento equestre del Verrocchio che aveva visto in un campo a Venezia. Lo afferrò con entrambi le mani e appoggiò le labbra sulla pelle lucida del prepuzio. Avvertiva la consistenza morbida del pene che scivolava tra le labbra, sino a quando le uscì dalla bocca. Jeanpierre le sollevò il capo, baciandole il rivolo di saliva che le scendeva dalle labbra. Passò la lingua in ogni parte delle fresche mucose della bocca, come se volesse eliminare ogni traccia del rapporto orale e restituire alla giovane una sorta di pulizia interiore. Erano avviluppati come certi rampicanti su un tronco d’albero. Marta si sedette sulle sue cosce. Appoggiò la vulva sul glande. Sapeva che esercitando una maggiore pressione avrebbe lacerato l’imene. Trattenne il respiro e si lasciò andare. Avvertì una leggera resistenza seguita da una sensazione di dolore, simile a quando ci si procura un’escoriazione sulla pelle, un nulla al confronto del piacere di sentire quella spada infuocata che le trapassava il suo essere. Anche Jeanpierre aveva colto il momento preciso in cui la ragazza aveva perso la verginità. Non poté fare a meno di paragonare l’attimo di Marta con quello da lui vissuto con una prostituta, al bordo di una strada camionabile. Le donne erano più fortunate degli uomini, perché erano loro a scegliere con chi fare l’amore la prima volta.
La relazione con Marta aveva trasformato il carattere di Jeanpierre. Sembrava più sicuro di sé, più disponibile verso gli altri. Il suo viso aveva anche cambiato espressione, che non era sfuggita alla madre che aveva sostenuto che s’era fatto più bello, una volta che era andato a trovarla. Ora che frequentava Marta, le altre ragazze non gli interessavano, diversamente dai suoi amici che facevano la corte a tutte le ragazze, convinti che la successiva relazione sarebbe stata migliore della precedente. Lui no; si concentrava su quello che aveva, senza mai distrarsi, consapevole che la riuscita di un rapporto non era questione di fortuna ma dipendeva dall’impegno che uno vi riversava nel costruirlo. Era questo il modo in cui affrontava la vita.
Fu al quarto anno d’università, quando gli mancavano due esami per terminare, che Marta dovette ritornare nella città natale, richiamata dai suoi genitori. A differenza di Jeanpierre, il suo profitto lasciava desiderare. Da quando aveva ottenuto il trasferimento di facoltà, non era riuscita a riprendere gli studi con profitto. Si salutarono alla stazione principale, facendosi tante promesse e invece non si rividero mai più.
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Passeggiando sul prato
A piedi scalzi con una tazzina di caffè in mano, Ilaria camminava sul prato antistante l’ampia vetrata del soggiorno di Casa degli elci. Attraverso gli estratti conto della carta di credito, conosceva luoghi e date dove il padre aveva soggiornato negli ultimi mesi. Se riusciva a dimostrare che le assenze fossero dovute per assecondare la passione per l’opera lirica, era presumibile credere che l’avesse fatto in compagnia dei suoi amici, nel qual caso l’ipotesi del raptus di gelosia, che aveva armato la mano della donna contro i due uomini, perdeva di attendibilità. Aveva cercato in ogni angolo della casa una prova che avvalorasse la sua tesi, come un biglietto o una prenotazione. Si sarebbe accontentata persino di un programma della serata, ma la ricerca era stata infruttuosa. Stringeva la tazzina tra le mani, assorta nei suoi pensieri. Cercava di immaginare che cosa avesse fatto il padre nell’ipotesi in cui avesse voluto prenotare un biglietto di teatro in una città diversa dalla sua. Si batté la mano sulla fronte: perché non ci aveva pensato prima. Dal computer di casa, comodamente seduto, poteva collegarsi, attraverso internet, con i teatri che voleva, costruendosi un programma tutto personale, compatibile persino con gli impegni professionali suoi e del chirurgo nella discrezione più assoluta. Entrò nel soggiorno, camminando a passi svelti, puntando diritta nello studio in preda ad una frenesia irresistibile. Doveva controllare se le pagine web visitate dal padre, ancora nella memoria del computer, riguardavano siti di teatri lirici. Spinse il tasto d’accensione e il fruscio della ventola ruppe la quiete che regnava nella stanza. Con gli occhi fissi sullo schermo, puntò la freccia del mouse su l’opzione “navigazione internet senza connessione” e sull’icona “cronologia”. Sul lato sinistro dello schermo, a cascata, apparvero tutte le pagine visitate negli ultimi mesi dal padre. La sua intuizione si era rivelata esatta. Le pagine erano tutte intestate ai maggiori teatri lirici italiani, tra cui quello dell’Arena di Verona, con il calendario delle rappresentazioni, compresa la fatidica ripresa di Nabucco del 30 agosto. Finalmente era in grado di comprendere i movimenti del padre. La ragazza aveva preso nota dei giorni in cui il padre aveva soggiornato nei vari alberghi delle città, con a fianco il nome di tutti gli spettacoli in programmazione. Sulle date che coincidevano aveva concentrato la sua attenzione, riuscendo a stabilire, in maniera esatta, i titoli delle opere cui aveva assistito.
Doveva informare Gabriele della scoperta. Guardò l’orologio ed era proprio l’ora giusta. Era terminata la lezione di “Storia del giornalismo”, gli studenti avevano dieci minuti di pausa prima della successiva lezione “Sociologia della Comunicazione.
“Ciao Gabriele, sono Ilaria.”
“Ho trovato tutti gli articoli che mi avevi richiesto,” si affrettò a dire il giovane convinto che l’amica lo chiamasse per questo. “Mi sono giunti per fax dalle redazioni dei giornali che ho interpellato.”
“Bene, quando sarò da te, per fare il punto, avremo modo di analizzare ogni singola dichiarazione contenuta negli articoli e cercare di ricostruire i fatti. Ma non ti chiamavo per questo,” aggiunse. “Sono riuscita a scoprire il nome degli alberghi delle città in cui mio padre ha soggiornato per assistere agli spettacoli lirici in programmazione. Ora se te la senti, dovresti recarti sul posto per indagare se con lui ci fossero anche gli amici e, in caso affermativo, scoprire la natura del loro rapporto.”
“Mi fai sentire come un vero giornalista alla sua prima inchiesta,” ribatté Gabriele, lusingato dalla proposta.
“Allora, ti prenoto gli alberghi per ogni fine settimana, così non dovrai perdere le lezioni. A noi serve dimostrare che era un fatto abitudinario per i tre amici incontrarsi in occasione d’eventi musicali. Ti verso tremila euro sul tuo conto, per le spese che dovrai sostenere per gli spostamenti, compreso l’aereo se lo ritieni necessario,” disse Ilaria.
“Vedrai che non ti deluderò,” rispose Gabriele. “Cercherò di mettere a frutto, tutto quello che abbiamo imparato a scuola.”
Ilaria aveva voluto percorrere il sentiero che il padre e la madre solitamente facevano nel periodo che precede l’autunno, quando il tempo sembra sospeso e predispone l’animo a riflessioni serene a differenza delle estati torride, la cui natura rigogliosa e invadente stimola pensieri sfacciati. Si crogiolava sull’intuizione che l’aveva portata a scoprire, tramite internet, che i viaggi del padre in altre città erano legati alla musica. La circostanza aveva messo in luce aspetti della sua personalità che ignorava. Conoscere il titolo delle opere liriche, oggetto della passione, era come avere scoperto l’humus che aveva alimentato il suo spirito. In lontananza il cielo brontolava. Doveva affrettarsi, altrimenti il temporale l’avrebbe presto raggiunta. Tagliò per il sentiero del vecchio salice. Nella leggera depressione del terreno, ora coperta da piante d’equiseto, una volta affiorava una polla d’acqua, dove i contadini del luogo si dissetavano durante il lavoro nei campi. Era stata la madre, durante le loro passeggiate, a farglielo notare e se la ragazza aveva sviluppato uno spirito d’osservazione, non comune in giovani della sua età, il merito era della donna. Stava apprezzando la solitudine, in altre parole la capacità di vivere la quotidianità dell’esistenza come momento importante, solo perché i sensi, non più ottenebrati dalla vita convulsa delle città, erano pronti a considerare anche un semplice evento eccezionale. Una chiocciola stava faticosamente attraversando lo stradino sterrato. Si era immedesimata a tal punto nel mollusco che, vederlo strisciare con difficoltà, aveva avuto la sensazione che fosse lei a camminare a piedi nudi sulle pietre taglienti. Raccolse l’innocuo animaletto e delicatamente staccò le minuscole pietruzze, attaccate sull’ampia superficie ventrale, per depositarlo in mezzo all’umida vegetazione.
I goccioloni d’acqua cominciavano a picchiettare sui vetri della veranda rimasta aperta dopo la telefonata con Gabriele. Ilaria fece appena in tempo a chiudere tutte le finestre ed osservare il temporale, che scrosciava impetuoso sulla campagna spazzando via i residui di quell’estate, per lei, difficile da dimenticare. Il padre era scomparso da dieci giorni, ma di sua madre, morta da tre anni, che cosa le rimaneva? Non poteva permettere che il ricordo si affievolisse nella sua mente. Si sentì in colpa nei suoi confronti per non averle dedicato le stesse attenzioni riservate al padre. Tornò nel soggiorno per prendere la scatola in cui il padre aveva custodito bigliettini d’auguri, foto con dediche, frasi d’amore vergate su fogli d’agenda, brani di diario, lettere e ancora lettere, riguardanti sua madre. Si stava appropriando di piccoli pezzi di vita dei genitori, per appagare la voglia d’affetto. Aveva in mano il cartoncino che accompagnava un disco di Ravel, Daphnis et Chloé, che il padre aveva regalato alla madre. Ilaria andò subito a cercarlo tra i dischi, che occupavano la parte bassa della grande libreria. Si abbandonò sul divano, lasciandosi trasportare dalle note del brano diretto da Pierre Boulez, per rivivere la storia d’amore dei suoi genitori.
Adriana
Ora che Marta era uscita dalla sua vita, Jeanpierre era concentrato sulla preparazione della tesi che intendeva discutere a metà giugno. L’argomento che aveva proposto al professore riguardava il finanziamento bancario alla media e piccola industria, come fattore trainante per lo sviluppo d’alcune aree depresse della zona. Munito di una lettera di presentazione dell’ateneo, il giovane si era recato presso il maggiore istituto di credito della città.
“La prego si accomodi,” disse il funzionario. “Apprezzabile la ricerca che intende compiere,” continuò dando una scorsa alla lettera che Jeanpierre gli aveva consegnato. “Anzi saremmo interessati di conoscere i risultati finali. Con l’università abbiamo ottimi rapporti e il relatore della sua tesi ha già collaborato con il nostro istituto.”
Sollevò la cornetta del telefono e mentre componeva un numero interno, rivolto al giovane, aggiunse in tono confidenziale: “Le chiamo la persona cui potrà rivolgersi per qualsiasi necessità.” Ci fu una breve pausa. “Dottoressa può venire nel mio ufficio,” proruppe con voce petulante, ma che nelle sue intenzioni voleva essere di cortesia. “È la nostra responsabile delle relazioni esterne,” disse mentre riattaccava il ricevitore, con un modo di fare di chi è convinto di avere rivelato un segreto.
Si sentì bussare e l’uomo si alzò per andare ad aprire la porta. Jeanpierre seguiva con lo sguardo il funzionario di mezza età, che si abbottonava la giacca per nascondere l’invadente pancetta che debordava dalla cinta dei calzoni. Ne capì la ragione, quando vide farsi avanti un’elegante donna. Indossava una giacca nera stretta in vita, su una minigonna a pieghe svolazzante che le arrivava un palmo sopra il ginocchio. Aveva un modo di camminare simile ad un’indossatrice. I capelli castano chiaro, schiariti nella parte anteriore, incorniciavano il tondo del viso dai lineamenti delicati. Non riusciva a darle un’età. Apparteneva a quella categoria di donne dove tutto appariva sfumato, da rendere azzardata ogni attribuzione. La minigonna indossata era il modello in voga tra le ventenni; mentre il foulard di Hermes che portava al collo rappresentava un tocco d’eleganza tipico delle signore sposate. Teneva le mani incrociate sul grembo e il capo leggermente chinato, da sembrare timorosa, tanto da suscitare sentimenti di protezione, ma appariva donna esperta, per il tono fermo che aveva di rispondere al superiore, da incutere soggezione. Furono questi due estremi che fecero la differenza per Jeanpierre. La donna lo osservava con i suoi occhi colore acqua marina, dal contorno leggermente scurito da una sottile linea di matita. Si sentì folgorato dallo sguardo.
“Lei è la signorina Adriana, esperta in pubbliche relazioni. Lui è il laureando in economia e commercio,” disse l’uomo.
La circostanza che l’avesse chiamata signorina, pose fine ad ogni dubbio circa l’età e fu subito attratto da quella figura piena di grazia, da non aver confronti con le amiche d’università che frequentava.
La conversazione continuò nell’ufficio della dottoressa, situato in fondo al corridoio.
Jeanpierre discusse la tesi a metà giugno, laureandosi con trenta e lode. Aveva visitato diversi negozi della città per un presente da donare a Adriana che lo aveva assistito per tutto il periodo della tesi, andando oltre i doveri d’ufficio. Aveva visto una piccola spilla di corallo, ma si trattenne. Si sarebbe accorta dei suoi sentimenti e lui non voleva compromettere un’amicizia ancora da consolidare. Pensò ad un oggetto per la casa; magari un bel vaso di ceramica dipinta a mano, ma aveva timore che l’oggetto stonasse con l’arredamento del suo appartamento. Si fermò in libreria. Consultò gli ultimi best-seller, ma onestamente non ce n’era uno che attirasse la sua attenzione. Entrò in un negozio di dischi. Scuoteva la testa sempre più indeciso, mentre scorreva le copertine disposte in ordine alfabetico. Adriana era un’appassionata di musica classica e non voleva correre il rischio di donarle una sinfonia o un concerto di un autore che già aveva. I suoi occhi si posarono nella parte alta dello scaffale dedicato alle grandi opere. Si ricordò che la donna canticchiava sovente una celebre aria di cui non ricordava il nome. Si rivolse ad un incaricato, accennando la melodia.
“È L’habanera di Bizet. Gliela faccio ascoltare.”
Il commesso prese un disco da uno scaffale e lo mise sul piatto del grammofono. Jeanpierre s’infilò le cuffie. Ascoltava la musica, sotto l’occhio attento dell’uomo, che non voleva farsi sfuggire il cliente.
“Abbiamo un’edizione appena arrivata di Carmen,” continuò mostrandogli un cofanetto della Decca, con effigiata la plaza de tores e in primo piano i protagonisti principali. “Vuole l’opera completa?”
“Sì,” rispose senza esitazione Jeanpierre.
Adriana era laureata in lettere. All’insegnamento aveva preferito il lavoro all’interno dell’istituto di credito. Consapevole che le donne sposate difficilmente avrebbero affidato incarichi di responsabilità, lei aveva pensato esclusivamente alla carriera riuscendo a conquistare posizioni di rilievo nella scala gerarchica aziendale, a discapito della sua vita sentimentale. Gli impiegati di banca uscivano alle cinque, ma lei sovente si tratteneva oltre il normale orario di lavoro, per preparare le pratiche per il consiglio d’amministrazione.
Erano le otto quando Jeanpierre suonò alla porta della sua abitazione.
“Sono venuto a ringraziarti,” disse il giovane appena Adriana ebbe aperto la porta. “Senza il tuo aiuto non sarei riuscito ad ottenere il brillante risultato.”
“No, il merito è solo tuo,” rispose la donna che non riusciva a dissimulare la sorpresa per l’inaspettata visita. “Ora dovrò chiamarti dottore.”
“Per te, sarò sempre Jeanpierre,” ribatté il giovane. Fece una pausa, e aggiunse: “La tua presenza è stata importante. Sei riuscita a tirare fuori il meglio di me.”
“Accomodati e smettiamola con i complimenti che m’imbarazzano.”
Un disco di musica classica girava sul grammofono.
“È la terza sinfonia di Brahms, se ti da fastidio spengo subito.”
“No, la musica classica mi piace.”
“Quali sono i tuoi autori preferiti?” continuò la donna per mettere a proprio agio l’ospite.
Jeanpierre non era un grande esperto, ma aveva una memoria di ferro. Si ricordò delle copertine dei dischi che aveva scorso nel negozio.
“Bach, Beethoveen, Berlioz, Boccherini,” disse senza alcuna esitazione. “Hai qualcosa di Bizet?” aggiunse dopo una breve pausa.
“Sì, di Bizet ho L’Arlésienne, ma il disco è rovinato. Se vuoi ti faccio ascoltare Sinfonia Fantastica, visto che ti piace Berliotz. L’autore immagina di suicidarsi con l’oppio in un eccesso di disperazione amorosa, ma la dose, non letale, lo fa piombare in un pesante sogno accompagnato dalle più strane visioni: è questo il tema della sinfonia.”
Jeanpierre, intuì subito che Adriana era donna che non amava discutere argomenti futili e, anche se non conosceva Sinfonia Fantastica, annuiva con il capo, promettendo a se stesso che il giorno seguente sarebbe andato ad acquistare il disco.
“È per te?” disse, consegnando il regalo che aveva celato dietro la schiena.
“Non posso accettarlo.”
“Perché non puoi accettarlo?” ribatté il giovane. “È solo per dimostrarti la mia stima. E questi non sono sentimenti compromettenti.”
“Sì, hai ragione. Ti chiedo scusa, non volevo essere sgarbata,” rispose Adriana mentre cercava di aprire la confezione.
“Oh!” esclamò felice, quando vide che si trattava dell’opera completa di Carmen. “Regalo più bello non potevi fare,” disse estraendo dal contenitore il primo disco, che scalzò la terza sinfonia di Brahms dal piatto del giradischi, la quale, però, era rimasta impressa nella mente del giovane, come quando si entra in una casa e si avverte una fragranza particolare da legarla indissolubilmente a quel ricordo.
Si sedettero sul divano. Jeanpierre era la prima volta che ascoltava un’opera lirica. La sua conoscenza si limitava ad alcune arie celebri, ma la presenza della donna lo aveva reso così ricettivo a quel tipo di musica, che sembrava che tutto il suo essere aspettasse quel momento da sempre, una sorta di chiamata che non l’avrebbe mai più abbandonato per il resto dei suoi giorni. Non lo sapeva nemmeno lui, ma la passione per la musica in Jeanpierre nacque in quel preciso momento e i sentimenti che gli apparivano ancora confusi nei confronti di Adriana divennero anch’essi nitidi.
Seguivano la tragedia della sigaraia gitana e del giovane dragone attraverso il libretto che tenevano aperto sulle ginocchia. Jeanpierre, che conosceva il francese, traduceva i passaggi che risultavano più difficili per Adriana. Al termine del secondo atto, la donna aveva preparato dei panini con il prosciutto e stappato una bottiglia di vino. Lo aveva fatto per evitare una cucina più elaborata che avrebbe interrotto l’ascolto. Con la testa appoggiata sul cuscino del divano, tenendosi per mano, trasportati dalla musica, si baciarono. Ogni piccolo gesto vibrava di profonda sensualità. Si spogliarono senza fretta. Jeanpierre fu il primo a rimanere nudo. Gli indumenti maschili erano i più semplici da togliere. Adriana si coprì con le mani il seno quando lasciò cadere il reggipetto; un gesto di pudicizia che provocò nell’uomo il desiderio di stringerla e rivestirla del proprio corpo. Le baciava il collo, la bocca. Erano finiti sul tappeto del salotto e benché la posizione fosse scomoda nessuno cercò di alzarsi. Fu lei a staccarsi per posare le labbra sul petto villoso e baciarlo intorno all’ombelico fino ad arrivare alla fitta peluria pubica. Prese il pene tra le mani. Lo riempiva di baci, provocando in Jeanpierre un piacere intenso che amplificava ogni percezione dei sensi. La donna si rifugiò esausta tra le braccia dell’uomo. Jeanpierre si sfilò da sotto di lei. Non voleva destarla dal torpore in cui era caduta e con delicatezza l’adagiò sul tappeto. La donna, vergognosa di mostrare il suo sesso, teneva le gambe strette. Jeanpierre con una mano le toccava il ventre. Le lievi carezze fecero cadere ogni timore e lei distese le gambe, mostrandosi. Aveva un triangolo perfetto. L’uomo vi passò le dita, ricevendone la sensazione di un prato erboso. Sentiva le grandi labbra sotto i suoi polpastrelli. Insinuò con dolcezza le dita all’altezza del clitoride, ma la donna fermò il gesto. Capì che non voleva farsi accarezzare con le dita, e decise di entrare in lei.
“Non prendo la pillola,” sussurrò con un filo di voce quasi a scusarsi, trattenendo il suo corpo i cui muscoli luccicavano.
E lui non aveva i preservativi. Si sentì un imbecille. Il fatto, però, che la donna non prendesse anticoncezionali stava a significare che non aveva relazioni con altri uomini e questo lo rese felice.
“Lo tiro fuori prima di venire,” disse per ricuperare una situazione ormai compromessa. Ma sì pentì subito di aver pronunciato quella frase.
“No, non mi fido di certe pratiche,” rispose, confermando il suo pensiero. “Il timore di rimanere incinta spegnerebbe ogni passione,” sussurrò rannicchiandosi tra le sue braccia, come se per lei quella posizione appagasse ogni altro desiderio.
Lui l’accolse e rimasero avvinghiati, da diventare un unico corpo, come fanno certi bambini per vincere la paura del buio. Il tempo sembrava essersi fermato. La donna posò la mano sul suo pene. Lo sfiorava con delicatezza, sino a quando i movimenti si fecero più veloci. Un fiotto di sperma, come lo zampillo di una fontana, cadde sul ventre di Jeanpierre. La donna spalmò il liquido lattiginoso sul corpo d’entrambi, come se volesse con quel gesto suggellare la loro unione. Poi, come spossata, ritornò tra le sue braccia, annusando la pelle dell’uomo pregna di sperma.
Il giorno successivo Jeanpierre tornò di nuovo nel negozio di dischi. Aveva affermato che Berlioz, Bach e Beethoven erano i suoi autori preferiti. Acquistò Sinfonia Fantastica e, su consiglio del commesso, anche i Concerti Brandeburghesi di Bach, la quinta e la nona sinfonia di Beethoven e la terza di Brahms.
“È la prima volta che mi capita un cliente che compra dischi di musica classica per ordine alfabetico (il riferimento era rivolto ai nomi dei compositori)” l’apostrofò il commesso sorridendo.
“La prossima volta passeremo alla lettera C,” rispose il giovane.
“Le consiglio allora di passare alla lettera emme, come Mozart il mio autore preferito. Ma sotto questa lettera ce ne sono altri, altrettanto grandi che consiglio caldamente,” continuò aprendo lo scaffale. “Mahler, Mendelssohn, Musorgskij.”
“Terrò conto del suggerimento,” disse Jeanpierre uscendo dal negozio.
Poi, ripensando al dramma musicale di Carmen della sera precedente, tornò indietro per acquistare La Traviata di Verdi, la sua prima opera. E fu un amore al primo ascolto. Ormai quel genere di musica lo stava coinvolgendo e la sera rimase in casa ad ascoltare più volte il terzo movimento della sinfonia di Brahms, le cui note lo avevano accolto in casa di Adriana.
Jeanpierre teneva la contabilità in una fabbrica che produceva serramenti, a metà strada tra il capoluogo e la casa dei genitori, dove era ritornato a vivere da quando aveva lasciato l’appartamento di studente. Capitava in città spesse volte sia per motivi di lavoro sia per fare praticantato presso un commercialista, per ottenere l’attestazione di frequenza, necessario per l’iscrizione all’albo. Era trascorsa una settimana, senza che la donna si fosse fatta sentire. Jeanpierre era uscito dallo studio del professionista in anticipo, per aspettarla all’uscita della banca con la sua nuova auto, una Lancia Fulvia colore amaranto. Il padre aveva intuito che il figlio fosse innamorato, perché si era intestardito su quel modello di macchina, semplicemente perché era convinto che sarebbe piaciuta alla donna che frequentava.
“Non hai risposto a nessuna delle mie telefonate,” disse Jeanpierre rivolto ad Adriana che stava salendo sulla sua utilitaria. “Non mi vuoi più vedere,” chiese.
“Ma che cosa vai pensando,” ribatté la donna.
“Allora perché non mi hai chiamato.”
“Volevo prima sentire il mio dottore.”
“Stai male?”
“No, è il mio ginecologo. Gli ho parlato della nostra relazione. Volevo che lui mi consigliasse il tipo di contraccettivo da usare. Per questo non ti ho chiamato prima.”
“Che cosa ti ha detto?”
La donna aprì la borsa.
“Mi ha prescritto la pillola,” disse tirando fuori la confezione. “Da come puoi vedere, oggi ho cominciato a prendere la prima. Terminato l’intero ciclo, possiamo fare l’amore senza alcun pericolo. Non sei contento?”
“Sono felicissimo,” disse baciandola. “Nell’attesa possiamo fare l’amore con il preservativo.”
“No,” replicò Adriana con un tono di voce che non ammetteva repliche. “Il medico ha affermato che il preservativo non dà garanzie assolute. Ed io non voglio correre rischi.”
“Mi chiedi molto.”
“Se mi vuoi bene, cos’è aspettare qualche settimana ancora?” disse baciandolo teneramente sulle labbra. “Guarda il lato positivo della situazione.”
“Non ne vedo proprio,” ribatté sconsolato il giovane
“L’attesa aumenta il desiderio. Sarà il periodo del nostro fidanzamento. Servirà a conoscerci meglio.”
La castità che si erano imposti, li aveva resi più disponibili nei confronti dell’altro. Era come se la carica erotica si fosse sublimata, rafforzando sentimenti e percezioni sensoriali. Nutrirsi della presenza dell’altro era una forma d’amore mai provata. Ognuno proponeva all’altro quello che aveva sempre desiderato e non aveva mai avuto il coraggio di fare. Partivano con la macchina di Jeanpierre il venerdì pomeriggio, con un bagaglio leggero, senza una meta precisa.
“Ci fermiamo quando siamo stanchi,” dicevano sorridendo all’ingresso del casello autostradale, ancora indecisi se prendere direzione nord o sud.
Jeanpierre non si chiedeva dove lo avrebbe condotto quella relazione che ormai andava avanti da quasi un anno. Egli si lasciava trasportare dagli eventi per timore di rompere l’incanto. Adriana non poneva questioni, ma non si accontentava di vivere alla giornata, consapevole che, tra i due, fosse lei l’elemento più vulnerabile. L’uomo con i suoi venticinque anni aveva maggiori possibilità per costruirsi altre relazioni sentimentali, se quella che stava vivendo fosse naufragata. Poteva una donna di trentasei anni affermare lo stesso? Lei era abituata a programmare la sua vita, senza lasciare niente al caso. Non poteva, però, chiedere a Jeanpierre quello che lei avrebbe voluto che lui facesse. Significava trasferire sull’altro i suoi desideri che avrebbero potuto non trovare il giusto ascolto. Doveva trovare una strada in cui lei sola fosse in grado di decidere, solo così avrebbe ricuperato lo svantaggio. Le percentuali di successo nelle relazioni in cui le partner femminili avevano più anni dell’uomo erano scoraggianti a meno che lei non si fosse accontentata di un ulteriore breve periodo, oltrepassato il quale tutto si dissolveva come neve al sole, questo almeno dicevano le statistiche. Era difficile riportare in equilibrio una situazione già in partenza svantaggiosa per la donna. Doveva agire, giocando sulle leve che dipendevano da lei, così com’era abituata sul lavoro, quando voleva ottenere il massimo risultato dai suoi collaboratori. Decise di avere un figlio, questa era una scelta che poteva prendere senza Jeanpierre. Ormai aveva un’età in cui la gravidanza era considerata a rischio e non poteva più aspettare se voleva un bambino. Sperava tanto che l’uomo glielo avesse chiesto, non tanto per regolare la loro unione, ma come conseguenza logica alla storia che stavano vivendo. Era stanca della vita zingaresca che l’uomo le prospettava ogni fine settimana. Non aveva né la voglia né l’età per andare in giro per l’Italia, come se dovesse nascondersi. Era giunto il momento di affrontare gli argomenti che avevano sempre evitato, solo così sarebbe riuscita a vincere lo stato di precarietà in cui si sentiva risucchiare.
Erano due settimane che Adriana non faceva l’amore con Jeanpierre, da quando, a sua insaputa, aveva smesso di prendere la pillola. L’uomo gliene chiese conto un giorno che avevano appena terminato di mangiare.
“Non mi ami più?” chiese l’uomo con voce sommessa. “Non siamo mai stati senza fare l’amore per un periodo così lungo. Cos’è che ti tormenta?”
“Voglio avere un figlio da te,” rispose senza tanti preamboli la donna che non voleva ingannare l’uomo.
“Se è questo che vuoi per me va bene,” disse scuotendo la testa.
“Non fraintendermi, non lo faccio per legarti a me. Il figlio è una mia esigenza; al suo mantenimento ci penserò io.”
“Che cosa intendi dire?”
“Cerco di rimanere con i piedi per terra. Mi domando quanto possa durare il nostro rapporto? Se ti guardi intorno, comprendi da solo che una relazione con una donna matura dura il tempo necessario per permettere agli uomini di farsi un po’ d’esperienza e affrontare con maggiore impegno le difficili prove della vita coniugale,” disse con un tono di voce sarcastico. “La tradizione vuole che il matrimonio deve essere sempre celebrato con una graziosa signorina più giovane dello sposo. Io non appartengo a questa categoria!” dichiarò la donna.
“Perché mi dici questo?” esplose Jeanpierre. “Io ti amo.”
“Lo so che mi ami, ma ci dividono troppi anni.”
“Cosa c’entra con il nostro amore,” ribatté l’uomo. “Ragioni come i vecchi contadini di una volta. Per loro la moglie giovane era una necessità. Serviva per aumentare il periodo di fertilità nel matrimonio e combattere l’elevata mortalità infantile,” l’apostrofò facendo sfoggio della sua erudizione universitaria, con un argomento di storia economica che lo aveva molto interessato. “Viviamo in una società postindustriale, non in una società contadina dello scorso secolo, dove la vita media delle persone non superava i quarant’anni,” continuò con maggiore foga. “Anzi sarò ancora più esplicito: in una società, come la nostra, gli uomini dovrebbero essere più giovani per legge, tenuto conto che le donne hanno una speranza di vita maggiore.”
“Che cosa intendi dire?” lo interruppe la donna infastidita.
“Segui il mio ragionamento,” insistette Jeanpierre con un tono di voce accalorato. “Con il matrimonio due individui iniziano un percorso insieme. L’auspicio sarebbe che la durata del contratto per entrambi i soggetti avesse durata analoga. Invece, poiché le donne vivono più a lungo, sommata alla consuetudine che si vuole la donna più giovane, dove ti volti si vedono solo vedove che portano fiori sulle tombe per dieci o quindici anni ancora dopo la morte dei rispettivi mariti. Con la nostra unione tenteremo di ristabilire una certa equità nel patto d’unione.”
“Non confondermi le idee,” saltò su Adriana che lo aveva ascoltato per niente convinta. “Le cose non stanno così, anche se la logica porterebbe a queste conclusioni. Non ti accorgi che il modello di donna che l’uomo impone è una ventenne, longilinea, con poche idee in testa? Basta sfogliare le riviste e osservare la pubblicità. Un uomo quando si avvicina ai cinquant’anni non ha problemi di mostrare le rughe o l’incipiente pancetta, anzi per certe donne la decadenza fisica maschile è sinonimo di solidità economica, sicurezza, protezione, tranquillità. Una donna con le stesse caratteristiche è considerata: tardona? Baldracca? Scarpa vecchia? Scegli tu l’eufemismo. Allora le vedi affollare i centri d’estetista, i negozi di profumeria alla ricerca di creme miracolose, per togliersi dal viso qualche anno, per inseguire il mito di bellezza imposto da voi uomini. Io non appartengo a questa categoria. Io sono orgogliosa degli anni che ho. Non vorrei mai nasconderli, come fanno tante donne dietro trucchi pesanti, sarebbe calpestare la mia dignità. Dimmi sinceramente tra dieci o magari vent’anni, quando i segni del tempo saranno più marcati mi desidererai ancora?”
“Non lo so,” sbottò Jeanpierre. “Io ti amo ora, in questo preciso istante e questo mi basta. Dipenderà da noi rendere salda l’unione negli anni a venire.”
“Jeanpierre! Da te voglio solo un figlio. Non ti chiedo di sposarmi. Potrai anche non riconoscerlo; rispetterò ogni tua decisione. So solo che lo debbo fare ora; mi è difficile pensare ad un padre diverso da te. Sono due settimane che non prendo la pillola. Potevo non dirti niente e metterti di fronte al fatto compiuto. Ma non potevo tacerti la decisione. Ora sai che facendo all’amore, potrei rimanere incinta. Stare con te ho riscoperto il significato di essere donna e la voglia prorompente di maternità. Sono pronta ad accollarmi l’intero onere della scelta, che è sola mia.”
Jeanpierre l’aveva lasciata parlare. Non è che lui quei problemi non se li fosse posti, anzi ci aveva spesso riflettuto e analizzato tutte le circostanze ed era giunto alla conclusione che la relazione con Adriana non la considerava affatto un’avventura. Quel discorso sulla differenza d’età, da tempo voleva tirarlo fuori. Non l’aveva fatto solo per non metterla a disagio, ma ora poteva dire quello che provava nei suoi confronti.
“Non sono in grado di ipotecare il futuro,” esordì Jeanpierre, con voce pacata e determinata nel contempo. “Ho una sola certezza: quella di amarti. Non si tratta di un’infatuazione. Vuoi avere un figlio da me, sono d’accordo, ma sappi che io non rinuncerei mai alle responsabilità di padre. So perfettamente che relazioni come la nostra sono destinate a durare qualche anno, ma sono pronto ad accettare la sfida.”
Disse quest’ultima frase mettendo in funzione il giradischi. Le note della terza sinfonia di Brahms, la loro musica, si spanse per la stanza.
“Come puoi ridurre tutto ad un fatto anagrafico, mentre ci sono cose che elevano lo spirito. Perché la differenza di età dovrebbe condizionare le nostre scelte?” Ora la sua voce sembrava minacciosa, quasi un monito. “Tu sei fatta d’anima e corpo e in questo momento io vedo solo la tua anima, che non ha età, se non quella che noi stessi vogliamo attribuirle.”
Un groppo alla gola gli impedì di continuare. Strinse Adriana tra le braccia per nascondere le lacrime che scendevano copiose. La donna si rifugiò in lui. Si baciarono appassionatamente. Indietreggiarono verso la stanza da letto, smaniosi di unire i loro corpi, mentre goffamente cercavano di togliersi i fastidiosi indumenti. Non ci furono preliminari, tanto era il desiderio dell’uomo di impregnare la donna del suo seme e da parte sua di riceverlo. Con possenti colpi affondava il pene nelle viscere della donna attento che i movimenti risultassero fluidi come se volesse agevolare la corsa degli spermatozoi verso l’ovulo. Adriana con le gambe incrociate sui glutei dell’uomo, spingeva il bacino con una tale forza da arcuare la schiena. Sentiva il pene dell’uomo generatore di vita come un sole infuocato. I loro gesti avevano qualcosa di primordiale. Comportamenti atavici affioravano istintivamente, riportando l’amplesso a forme primigenie, come se da quell’atto dovesse dipendere la salvezza della specie. Non parole uscivano dalle loro bocche, ma rantoli, respiri affannosi, suoni gutturali per imprimere maggiore vigore alle spinte pelviche che scuotevano i loro corpi madidi di sudore. Il rito dell’accoppiamento stava per concludersi; i movimenti si fecero più concitati. Un urlo echeggiò per le quiete stanze. I sussulti diminuirono d’intensità, sino a placarsi completamente. Rimasero avvinghiati per meglio rendere fertile il ventre della donna, ed esausti chiusero gli occhi sino a addormentarsi.
Si sposarono qualche tempo dopo, quando Adriana era incinta di quattro mesi. La donna avrebbe voluto aspettare la nascita del bambino, ma egli fu irremovibile, significando che l’uomo lo faceva per la donna e non per il frutto del loro amore. Nacque una bambina cui imposero il nome di Ilaria.
Con i suoi risparmi e quelli della moglie, Jeanpierre aprì uno studio da commercialista con Mauro, il compagno d’università esperto di problemi legali.
Ilaria aveva sei anni quando si trasferirono nella nuova casa. Quel vecchio casale padronale fu una specie di colpo di fulmine per Adriana. Era un mucchio di rovine e il giardino versava in uno stato di totale abbandono. Ma quello che colpì la donna fu il fascino che i vecchi muri di pietra emanavano, con le siepi di bosso e di tasso che delimitavano il viale alberato di tigli. Con un bastone si era fatta largo tra i rovi per osservare meglio l’arco che immetteva in un ambiente pieno di luce, forse un magazzino per granaglie. Ci vollero tre anni per rimettere a posto la costruzione e sotto la sua paziente guida i risultati ottenuti furono d’estrema raffinatezza. Tra i materiali a dominare c’erano la pietra del luogo, impiegata per pavimenti, pareti e scale; spesso lasciata a vista come nel grande soggiorno; e il legno privo di vernice per porte e soffitti, scelto in sfumature chiare come il miele. Anche nel giardino a dominare era la pietra, impiegata per percorsi, sedili muretti, alla cui base crescevano rosmarini, allori, lavande, essenze capaci di resistere al sole cocente. La Casa degli elci fu il nome che scelse per le piante di leccio che coprivano i declivi circostanti, ma anche per l’assonanza con la parola elfi, che si addiceva a quel luogo, che sembrava che si popolasse d’invisibili creature, quando la luce magica del tramonto entrava dalle finestre a scaldare stanze e corridoi. Il luogo era distante dalla città venti minuti di macchina. Non rappresentava un grosso ostacolo per due persone impegnate nel lavoro, specialmente ora che Ilaria frequentava la prima elementare. Adriana aveva riscoperto le stagioni, che adesso le apparivano tutte interessanti, perché in ognuna di esse aveva da attendere alle incombenze del piccolo orto, situato dietro la casa. Ma la curiosità della donna si era spinta oltre, trascorreva le giornate a consultare libri e riviste di giardinaggio e in breve tempo era diventata una vera esperta. Non c’era pianta del suo giardino di cui non conoscesse il nome e le necessità colturali. Ora il lavoro in banca le era venuto a noia e tutto ciò che la distoglieva dai suoi interessi le creava insofferenza. Suo marito guadagnava abbastanza e non c’era ragione che lei continuasse a lavorare. Decise di andare in pensione per dedicarsi alle cose che amava di più. La preparazione dei cibi era un’altra delle sue passioni. Jeanpierre si lasciava sedurre volentieri dalle cene al lume di candela nel giardino durante le serate estive, momenti irrinunciabili che lo ripagavano di una giornata di duro lavoro. Adriana metteva una cura particolare nella ricerca degli ingredienti, che acquistava personalmente per verificarne la genuinità. Si aggirava nei banchi dei mercati, sempre elegantemente vestita come se dovesse andare in ufficio. Ogni piatto doveva essere accompagnato da vini appropriati e molte volte per gustare un buon rosso creava un piatto apposito, rifacendosi ad antiche ricette. Considerava la cucina italiana una forma di cultura, alla stregua della letteratura e della musica, per questo negli scaffali della libreria alcuni ripiani erano occupati interamente da volumi che trattavano l’argomento, tra cui numerose edizioni de La Scienza in Cucina di Pellegrino Artusi, che aveva letto e riletto, quale fonte d’ispirazione delle sue ricette che rievocavano i sapori delle antiche tradizioni. La descrizione della cucina del castello di Fratta contenuta nel libro Le confessioni d’un italiano di Nievo (le volte nere, i tegami di rame appesi alle pareti luccicanti come gli occhi di un gatto, il grande camino, dove il piccolo Carlino girava gli arrosti, l’enormi credenze, le tavole sterminate) per lei, unitamente all’opera dell’Artusi, rappresentavano gli archetipi su cui aveva costruito il suo mondo culinario. Entrambi erano appassionati delle opere verdiane, non perdendo occasione di andarle a vedere a teatro, ma a loro piaceva ascoltarle anche sotto il grande acero di fronte alla casa, il luogo preferito di Jeanpierre, dove vi trascorreva le ore immerso tra le carte d’ufficio, quando si portava il lavoro a casa. Adriana si sedeva accanto con i suoi libri, come se volesse ricuperare gli anni in cui a causa del lavoro aveva trascurato la lettura e quando le capitava un romanzo che le procurava intense emozioni, lo consigliava a Jeanpierre. Era diventata una raffinata critica e avrebbe potuto benissimo tenere una rubrica su qualche rivista, come le suggeriva scherzando il marito. Si lamentava spesso che i romanzieri moderni, molto abili nella scrittura, erano incapaci di scrivere belle storie da tenere il lettore inchiodato alla pagina. Era come se sapessero confezionare ottime stoffe, ma il vestito che cucivano il più delle volte risultava scadente.
“Tutto talento sprecato,” diceva con rammarico richiudendo il libro.
Da quando aveva letto il manualetto di Pennac Come un romanzo non si faceva scrupoli a saltare le pagine che considerava noiose o riprendere la lettura del libro in un altro momento.
Adriana con il passare degli anni emanava un fascino particolare, forse per l’eleganza sobria che aveva nel vestirsi, per i gesti misurati, per il modo di parlare equilibrato. Si capiva che era una donna che aveva una ricca vita interiore, che si riverberava nel modo di porsi verso gli altri. La donna non osava chiedere apertamente di fare all’amore, per una sorta di riservatezza. Era sempre Jeanpierre che prendeva l’iniziativa. L’uomo, che conosceva il suo animo, sapeva quando il desiderio era maturo. La donna lo manifestava con continue attenzioni ed erano quei piccoli gesti discreti che caricavano l’uomo di passione che dopo quindici anni di matrimonio era rimasta intatta come i giorni in cui si erano conosciuti.
Fu il medico che aveva fatto nascere Ilaria, che le comunicò che era entrata in menopausa. Lei non se ne era accorta, per l’assenza dei sintomi che sapeva prendere le donne. Un timore irrazionale l’aveva assalita, era convinta che Jeanpierre l’avrebbe messa da parte, forse perché nell’opinione comune della gente c’era la convinzione che con la menopausa cessava ogni desiderio. Questa volta a ricordarle la differenza non era l’età anagrafica ma una manifestazione biologica. Era come se tutti i nodi fossero giunti al pettine, una sorta d’appuntamento non più eludibile con cui doveva confrontarsi. Già l’evento è foriero di crisi per ogni donna, figuriamoci per lei che aveva un uomo di undici anni più giovane. Rimuginava dentro di sé la circostanza. Si sentiva di nuovo impotente. Aveva bisogno di essere consolata, invece non poteva nemmeno sfogarsi. Per circa un mese aveva tenuto tutto nascosto e costretto Jeanpierre ad usare il preservativo, anche se non ce n’era bisogno e questo lo aveva fatta sentire in colpa. La pillola non la prendeva da dieci anni, da quando si era accorta che la faceva ingrassare. Doveva dirglielo e quando decise di informarlo lo fece senza mezzi termini, come se la causa della sua sofferenza fosse l’uomo. Disse che non avevano più bisogno del profilattico per fare all’amore: era entrata in menopausa perché vecchia. Pronunciò la frase in tono di sfida, per cogliere, del suo interlocutore le reazioni, le prime, che a suo dire erano le più autentiche, non ammantate da ipocrisia, abitudine appresa in banca quando aveva a che fare con mediocri colleghi di lavoro. Era questo l’aspetto del carattere che Jeanpierre non amava della donna. Continuamente lo metteva alla prova, per verificare se l’amore che egli professava erano parole vuote oppure un sentimento profondo da superare qualsiasi ostacolo. Jeanpierre ebbe un attimo d’esitazione non tanto per la notizia, quanto l’insidia che poteva esserci nella risposta che avrebbe dato. Doveva trovare le parole giuste, non solo per tranquillizzare la donna, ma per dimostrarle il suo immutato amore.
“Finalmente questa sera potremo ritornare a fare l’amore senza quel fastidioso profilattico,” disse abbracciandola. Erano proprio queste semplice parole che la donna voleva sentirsi dire.
Ilaria si era iscritta alla facoltà di Storia e Filosofia. Con sua madre avevano discusso a lungo il corso di studio migliore per chi avesse voluto intraprendere la carriera di giornalista ed entrambe avevano convenuto che la scelta compiuta avrebbe fornito una cultura di base valida, che doveva essere integrata da un buon corso di giornalismo e tanta gavetta nella redazione di qualche giornale. Sua madre l’aveva messa in guardia di distinguere l’attività di scrittrice con quella di giornalista, anche se in entrambi le professioni si comunicava con la scrittura.
“Al giornalista è richiesta poca fantasia, capacità d’analisi e sapere scrivere in maniera concisa,” le diceva la madre.
Fu dopo le vacanze di natale che Adriana iniziò ad accusare dei dolori all’altezza della vita. Inizialmente aveva pensato ad una gastrite, poi ad una colite spastica. Incominciò a preoccuparsi quando si accorse che in un mese aveva perso cinque chili di peso. Fu a quel punto che Jeanpierre insistette perché si sottoponesse ad una serie d’esami. Il primario della divisione oncologica informò Jeanpierre che la moglie era affetta di un tumore al fegato. A febbraio le avevano diagnosticato il male, ad ottobre era morta. Aveva appena compiuto cinquantotto anni. I primi mesi furono i più terribili. Jeanpierre si aggirava per le stanze vuote, come se volesse inseguire lo spirito della moglie imprigionato tra le mura domestiche. Nelle sue labbra affioravano i versi dell’opera Orfeo ed Euridice di Gluck, che cantava come una nenia
Che farò senza Euridice
dove andrò senza il mio ben
…
dove andrò senza il mio bene.
Euridice, Euridice.
Oddio! Rispondi, rispondi.
L’accorata preghiera rimaneva sospesa in aria ed egli ricominciava in un’altra stanza, come se Adriana non avesse udito il lamento disperato. Nemmeno la presenza d’Ilaria gli era di consolazione, anzi accresceva il suo male. D’altronde era morta la madre, anche lei stava soffrendo, ma egli non sapeva consolarla. Preferì che ritornasse tra i suoi compagni d’università. Con loro accanto avrebbe superato meglio il triste evento.
Con la morte di Adriana la sua sensibilità musicale si era affinata. Si accostò a Wagner una musica più rarefatta, che colpiva l’intelletto più che il cuore. Di questo aveva bisogno, per bilanciare il suo stato d’animo in preda a continui tormenti. La musica di Verdi, preferita sino a quel momento per le passioni che suscitavano, non leniva le ferite ma ampliava la sua pena. La paragonava ad un cielo nuvoloso dove il sole, tra squarci di sereno, non è in grado di contrastare le nuvole nere che avanzano minacciose all’orizzonte, cosicché anche la speranza moriva. La musica di Wagner era il cielo terso, dove apparentemente non accadeva nulla. A dare significato alla composizione erano i suoi sentimenti. Ascoltare “Tristano e Isolda”, “Lohengrin”, “Parsifal” era come vedere riflessa nelle acque di un lago cristallino la propria immagine dolente per la perdita dell’amata. Era un laico, non conosceva le formule delle preghiere e, per staccarsi dalle cose terrene, lo faceva con la musica.
4
Davanti ad una tazzina di caffè
Ilaria aveva appreso dai giornali che l’uomo trovato in compagnia del padre nella stanza dell’albergo di Verona esercitava la professione di chirurgo in una clinica privata distante dieci chilometri dalla città. L’uomo aveva un figlio che, stava specializzandosi in America in microchirurgia cardiovascolare per seguire le orme paterne, una volta rientrato in Italia. La ragazza, per conoscere altri particolari sulla coppia, aveva rivolto persino qualche domanda alla signora della biglietteria del teatro.
“Acquistavano l’abbonamento ad ogni inizio di stagione ed esigevano sempre lo stesso palco,” aveva detto la signora, tirando un lungo sospiro per l’accaduto. “Non ho mai visto persone più innamorate di loro.”
“Come fa a sostenerlo?” le aveva chiesto prontamente Ilaria.
“Bastava osservare lo sguardo dei loro occhi per comprendere come si amassero.
“Si ricorda di mio padre?”
“Certo che lo ricordo, dopo la morte della sua cara madre, si faceva vedere in compagnia di una signora. La donna l’avevo notata la stagione passata in compagnia di un uomo robusto, capelli brizzolati, sulla sessantina, forse il marito. Poi la rividi con suo padre, s’incontravano al foyer e occupavano lo stesso palco del chirurgo e della moglie. Erano una bella comitiva insieme, assidui frequentatori del teatro, persone distinte e molto riservate.”
“Non saprebbe dirmi dove potrei rintracciare questa signora?”
“Non frequenta più il teatro, tanto che suo padre gli ultimi spettacoli in cartellone era sempre solo. Credo che vivesse in uno dei grossi centri giù nella valle, altro non saprei dirle.”
Ilaria incontrò Laura in un bar del centro. Aveva evitato il suo appartamento o gli studi dell’emittente televisiva, luoghi frequentati dal padre, che le avrebbero suscitato emozioni. Un luogo neutrale rappresentava la scelta migliore per entrambe. Con la donna voleva discutere dell’ultimo viaggio in Tunisia.
Laura scese dalla macchina della televisione carica d’attrezzature.
“Sono qui,” disse Ilaria sporgendosi da una siepe di filadelfo, i cui vasi delimitavano all’esterno lo spazio riservato ai tavoli, rendendo il luogo più accogliente.
“Trovare un parcheggio in centro è difficile,” disse Laura. “Ho approfittato di un passaggio dell’operatore. Deve effettuare delle riprese per uno spot pubblicitario ad un negozio di pellicce e capi di pelle, poco più avanti,” continuò come per giustificarsi. “Mi fa piacere rivederti,” disse baciandole le gote.
“Siediti,” disse Ilaria togliendo i giornali che occupavano la sedia.
“Ti tieni aggiornata,” ribatté Laura.
“Frequento un corso di giornalismo, tra le cui materie di studio c’è anche la lettura dei giornali e non voglio rimanere indietro con i temi d’attualità. Politica ed economia sono argomenti che impongono un’attenzione particolare.”
Laura era una bella ragazza piena di vitalità ed entusiasmo e capì subito come il padre potesse essersi innamorato di lei. Indossava un paio di jeans stretti alla caviglia e accavallò le gambe per non invadere lo stretto corridoio tra i tavoli.
“Hai ordinato qualcosa,” disse la donna vedendo il cameriere avvicinarsi con il foglio delle commesse.
“Ti aspettavo per farlo.”
“Per me va bene un caffè.”
“Anche per me,” disse Ilaria rivolta al cameriere che prendeva nota. “Sto ricostruendo come un puzzle i movimenti di mio padre negli ultimi mesi. Ho motivo di ritenere che i suoi viaggi fossero legati alla passione che aveva per l’opera lirica,” proseguì con tono di voce confidenziale per evitare che le sue parole fossero udite. “Si collegava tramite internet con i siti dei maggiori teatri italiani, scegliendo gli spettacoli. L’ho scoperto attraverso il suo computer. Se si riesce a dimostrare che nei vari alberghi dove lui soggiornava ci fossero anche i suoi amici, come è avvenuto a Verona, sarebbe ridimensionata la tesi del raptus. Tu Laura non ti sei mai accorta di niente, nonostante che stavate insieme da parecchi mesi?”
“Non mi sono mai permessa di sindacare sulla sua vita privata, come lui d’altronde faceva con me. Il nostro rapporto era privo di vincoli. Anch’io sovente ero fuori, impegnata nelle riprese, a contattare gli ospiti per le trasmissioni con cene di lavoro e questo comportava che ognuno si dedicava all’altro quando gli impegni di lavoro lo permettevano. Non eravamo una coppia convenzionale, questo lo posso ammettere, ma credimi se ti dico che il nostro era un grande amore e sono pronta a dimostrartelo,” disse Laura con voce accalorata.
“Sono qui per questo,” ribatté pronta Ilaria. “Voglio sapere tutto, ma andiamo per ordine: ti va di parlare del viaggio in Tunisia, in particolare del vostro rientro?”
“Puoi chiedermi tutto quello che ritieni opportuno ed io ti risponderò con la massima franchezza, credo che possiamo considerarci amiche.”
Ilaria dalla borsa prese il suo taccuino che consultò brevemente. Non voleva tralasciare nessuno degli argomenti che diligentemente si era appuntata.
“Il rientro era previsto per il 30 agosto, lo stesso giorno dello spettacolo del Nabucco all’Arena,” esordì concentrandosi sul primo punto che aveva sottolineato. “Non hai trovato strano che dopo avere fatto una vacanza insieme, lui ti abbia lasciato partire da sola; come si è giustificato?”
“Sapevo che aveva un impegno a Milano per il pomeriggio.”
“Perché non siete rimasti insieme.”
“Il giorno dopo avevo una diretta televisiva e uno degli ospiti principali aveva dato forfait. La segretaria non sapeva come rimpiazzarlo, per telefono le ho detto che me ne sarei occupata io. È stata questa la ragione per cui ci siamo divisi, convinta che in un giorno avrei fatto in tempo a trovare il sostituto, come d’altronde è avvenuto.”
“Ragioniamo per assurdo: se tu gli avessi annunciato che l’avresti seguito, come si sarebbe comportato secondo te?”
“Ne sarebbe stato felice, anzi, ora che me lo fai notare, me lo ha anche chiesto.”
“Sei sicura di questo!” esclamò la ragazza. “L’impegno di Milano non era forse una scusa per rimanere solo?”
“Penso che fosse reale,” precisò Laura. “Nella sua borsa aveva alcuni documenti al riguardo. Li avevo visti con i miei occhi. In quella circostanza, mi colpì che aveva portato con sé lo smoking, ma si giustificò assicurandomi che mi avrebbe portato in un locale famoso di Tunisi per assistere ad un famoso spettacolo di danza del ventre.”
“E questo è avvenuto?”
“L’escursione nel deserto si è protratta più a lungo del previsto.”
“Continuiamo nell’ipotesi. Tu accetti di rimanere a Milano. Lui sicuramente avrebbe rinunciato di andare a Verona.”
“No, non lo credo. Sono certa che mi avrebbe portata con sé. Il fatto che avesse prenotato camere distinte, anche se comunicanti tra loro, rafforza questa mia convinzione.”
“Cosa intendi dire,” incalzò Ilaria.
“Dico semplicemente che la sua camera era per due persone. Confidava nell’eventualità che, prima o poi, lo seguissi in uno dei suoi viaggi operistici: ecco perché fissava negli alberghi sempre una matrimoniale. Voleva essere pronto nel caso avessi cambiato idea.”
“Avrebbe, però, cercato di nasconderti ai suoi amici.”
“Una volta eravamo nel deserto, lontano dall’accampamento di tende. Guardavamo in lontananza i fuochi, che sembravano confondersi con la volta stellata. Lui mi parlò di questi amici con cui condivideva la passione della musica. Ci teneva molto che io li conoscessi. Era convinto che l’esperienza della loro amicizia mi avrebbe arricchito lo spirito e aperto la mente, indicato nuove strade. Per questo sono convinta che me li avrebbe presentati, senza alcuna difficoltà. Mi sento quasi in colpa per quello che è successo,” sospirò Laura che per la prima volta si era resa conto che, per un stupido contrattempo di un ospite in una trasmissione televisiva, il destino aveva spezzato tre vite umane.
“No, tu non hai alcuna responsabilità,” si affrettò a dire Ilaria vedendo il viso della donna accigliarsi. “É la prima volta che odo parole d’apprezzamento per la coppia, che rafforzano in me la convinzione che non può essere stata la donna a premere il grilletto,” continuò la ragazza. “Possibile che non si riesca a parlare con persone che abbiano conosciuto i due coniugi!” esclamò. Poi come se avesse afferrato un’idea balenata all’istante, continuò dicendo: “Voglio andare a parlare con qualcuno dell’ospedale dove il chirurgo esercitava la professione, per avere informazioni su di lui.”
“Guarda Ilaria,” disse la donna soffiandosi il naso. “É inutile, anche il giornalista della televisione che seguiva il caso per il nostro notiziario serale, ha cercato di indagare sulla sua vita privata, chiedendo ai colleghi di lavoro, alle stesse infermiere e persino ad alcuni pazienti che aveva in cura. Se capiti nel mio ufficio ti faccio ascoltare le registrazioni. Il giudizio è stato pressoché unanime: se non era un santo poco ci mancava. Solo parole di stima e di grande ammirazione. Lui e la moglie conducevano una vita riservata nella loro bella villa nella zona alta della città, immersa nel verde del loro giardino,” aggiunse Laura. “Ma tu tra le carte di tuo padre non hai trovato un nome, un numero di telefono, che potesse esserti utile?”
“Nei cassetti della sua scrivania ho trovato alcuni documenti interessanti, come gli estratti conto della sua carta di credito, alcune buste contenente vostre fotografie di un’escursione al lago e moltissimo materiale riguardante mia madre. Non ho ancora visionato una cassetta video, che teneva sigillata in una busta, contrassegnata con la lettera “P”. Ti dice niente questa lettera?”
“No, d’altronde se la teneva ben custodita una ragione ci dovrà pur essere. Non ti rimane che visionare il contenuto per scoprirlo.”
“Hai ragione, lo farò oggi stesso.”
“Gabriele ha sviluppato le foto del funerale?” soggiunse Laura per cambiare argomento. “Per posta elettronica me ne ha inviate alcune. Sono rimasta affascinata del suo lavoro. Quand’ero lì al cimitero, non mi rendevo conto di quello che stava accadendo. Mi sembrava di agire come un automa, tanto che ogni mio gesto era come se fosse ispirato da altri, più che dalla mia stessa volontà. Ora vedendo i volti della folla intorno alla bara, tu che mi stringi la mano con il viso affranto, assume tutto un altro significato. In altre parole ho trovato la cerimonia più toccante rivissuta attraverso le fotografie di Gabriele che nel momento in cui essa si è svolta. Tra qualche giorno lo vedrò, gli dirò di preparare delle copie anche per te.”
“Ne sarei felice.”
“Tu Laura le conoscevi tutte quelle persone presenti al funerale?”
“In prevalenza erano clienti dello studio che avevano un rapporto d’amicizia con tuo padre, che andava di là degli incarichi professionali. C’erano poi colleghi del mondo economico, questo per dimostrarti come tuo padre fosse uno stimato professionista. Poi c’erano le impiegate dello studio e i suoi amici d’infanzia Daniele e Riccardo.”
“Alcuni giorni fa li ho incontrati. Mi hanno raccontato di quando erano ragazzi, mentre Mauro mi ha parlato del suo primo amore, prima di conoscere la mamma. Non puoi immaginare come mi sono state di conforto le loro parole. Dai racconti che mi hanno fatto, dubito dei commenti che hanno scritto i giornali.”
“È quello che cercavo di sostenere il giorno del funerale,” ribatté Laura con voce accalorata. “Com’è possibile che un uomo dalle inclinazioni sessuali normali possa avere avuto un rapporto con un altro uomo, così intenso e passionale.”
“Questo è un mistero,” sentenziò Ilaria “risolto il quale, sono convinta che cadranno i veli dietro i quali si nasconde il vero colpevole.”
“Ma a che punto sono le indagini?” chiese Laura.
“Proprio questa mattina sono stata negli uffici della polizia,” rispose la ragazza. “L’ispettore che segue il caso, mi ha assicurata che le ipotesi investigative sono ancora tutte aperte, compresa quella da me sostenuta che ad uccidere i due uomini fosse una persona estranea alla scena del delitto. Attendono i risultati della scientifica per dare vigore alle indagini. Comunque,” proseguì Ilaria, “Gabriele sta indagando sulla natura della loro amicizia.
“Fai bene a non lasciare nulla d’intentato. Io ti sono vicina in tutto. Non puoi immaginare come mi manchi tuo padre. Stavamo progettando di sposarci. Ne avevamo parlato durante la recente vacanza. Jeanpierre aspettava solo che tu terminassi la scuola.
“Parlami di lui, del vostro rapporto. Lo sento come un dovere. Una persona muore veramente solo quando cessa il ricordo delle persone care; ecco perché voglio sapere tutto di lui; illudermi che la sua vita non sia trascorsa invano. Vedi Laura di fronte al mistero della morte, solo un istinto forte come l’eros mi fa sentire vivo mio padre. È come l’acqua che leviga la roccia, la sua traccia rimane indelebile anche quando cessa l’effetto dell’erosione ed io provo questa sensazione ascoltando i vostri racconti. È sola questa la ragione per cui ho bisogno di sapere.”
Laura
Laura lavorava in una televisione locale. Era il factotum. Si occupava di tutto: da procacciare pubblicità ad organizzare le riprese in esterno per il telegiornale che andava in onda ogni sera alle sette e mezzo. I proprietari, alcuni piccoli industriali della zona, erano stati chiari con lei: avrebbero vendute le frequenze all’emittente concorrente, interessata a fare arrivare il segnale in nuove aree per trasmettere gli incontri di calcio della squadra del posto, se la televisione avesse presentato perdite. Far quadrare i conti non era per niente facile e alcune volte accadeva che la struttura tecnica fosse rimasta per mesi senza prendere lo stipendio, per mancanza di contratti pubblicitari, la loro unica fonte di finanziamento. Tra alti e bassi, in ogni caso, la piccola stazione televisiva era riuscita a sopravvivere e in sette anni le sue trasmissioni erano conosciute ed apprezzate in metà regione, sino a dove arrivava il segnale. La donna, che aveva compiuto trentacinque anni, era una cinefila incallita e nella scelta di lavorare in televisione aveva pesato questa passione. Aveva visto tutti i film di Ejzenstejn e Pudovkin. Del primo aveva letto gli scritti teorici sul montaggio e del secondo i saggi sulla sceneggiatura e regia, raccolti in Italia nel volume intitolato La settima arte. Li teneva su uno scaffale del suo ufficio insieme con altri libri di cinema, dove erano ammassate montagne di cassette video dei servizi realizzati: il suo archivio personale. Quando visionava il materiale al banco di montaggio gli operatori ascoltavano in religioso silenzio i suoi consigli, vere e proprie lezioni di tecnica cinematografica.
“Ci vuole un montaggio più serrato. Non vedete come la sequenza è statica. Con queste immagini la gente cambia canale. Dobbiamo incuriosire il nostro pubblico. Questa è una piccola televisione che deve rendersi riconoscibile subito per la freschezza delle immagini, per un montaggio non convenzionale, spigliato, giovane. I tempi morti sono la nostra rovina. Ecco perché quando uscite con la telecamera per un’intervista all’aperto, filmate anche ciò che accade intorno: un passante, un cane che annusa un angolo, automobili che transitano, bambini che si rincorrono. Sono gli “inserti di comodo” che rendono il servizio vivo. Ricordatevi che lavorate in una televisione che si nutre d’immagini, altrimenti, se mettiamo in campo solo primi piani di teste parlanti, non vedo alcuna differenza con la radio.”
Esigeva sempre l’uso del cavalletto.
“Una panoramica traballante o una zoomata a scatti è sinonimo di dilettantismo e noi siamo dei professionisti. Quando le nostre immagini vanno in onda chi le guarda pretende la stessa qualità che vede sui canali nazionali, anche se hanno ben altre risorse rispetto alle nostre, altrimenti perdiamo pubblico.”
Per questo rigore che esigeva dai suoi operatori, riusciva a piazzare le immagini anche ad emittenti nazionali. La donna, finalmente era riuscita a stipulare un contratto per la messa in onda di un ciclo d’otto trasmissioni con le associazioni commercianti. Quest’ultime attraverso la televisione volevano fornire consulenza ai loro associati su alcuni adempimenti fiscali e legislativi, appena emanati dal governo. Per le prime quattro trasmissioni circolava il nome del titolare di uno studio di commercialista esperto di problemi fiscali. Laura non lo conosceva e la sua prima preoccupazione fu se la persona fosse abbastanza telegenica da reggere il video per trenta minuti. Da seria professionista che pianifica ogni intervento, consapevole che una trasmissione bene realizzata, può invogliare la realizzazione di un altro ciclo, in incognito, una mattina era andata a prendere un caffè nel bar di rimpetto lo studio del professionista, che sapeva ad una certa ora della mattina fare una pausa. Jeanpierre entrò nel locale, ravviandosi i capelli con la mano destra. La bella capigliatura, nonostante l’età, era folta come quando aveva vent’anni. Aveva lo sguardo assente come se la stesura del ricorso che lo aveva impegnato sino a qualche istante prima continuasse a tormentarlo. Scosse il capo, accompagnando il gesto con un sorriso, come se avesse trovato la soluzione a ciò che lo affliggeva. Il cameriere, che non si lasciava sfuggire dei suoi clienti anche la più piccola espressione, convinto che il gesto fosse rivolto a lui, rispose all’invito.
“Buongiorno dottor Jeanpierre: le preparo il solito?” disse in tono squillante, ponendo l’accento sul nome, per informare la signora che aveva chiesto informazioni sul professionista, che l’uomo che cercava aveva fatto il suo ingresso.
L’uomo non rispose, preso a riflettere se l’intuizione avuta rispondesse ai requisiti che il ricorso richiedeva, e del barista afferrò solo l’ultima parola della frase.
“Sì, il solito,” rispose distrattamente avvicinandosi al banco.
Continuava a crogiolarsi sull’idea che gli era venuta da non accorgersi degli avventori del bar. Notò appena le belle gambe accavallate di una donna, senza poter scorgere il volto nascosto dalle pagine del giornale che stava leggendo. L’uomo ritornò al suo ricorso, mentre girava il cucchiaino nella tazzina di caffè. Fu allora che Laura poté osservarlo. S’immaginò un primo piano del viso dell’uomo sul monitor a colori della cabina di regia. Sì, aveva di fronte la persona giusta, dall’aspetto giovanile, capace con modi pratici di esprimere pareri fiscali, non uno di quei soliti dottorini appena laureati che hanno l’aria di sapere a memoria tutti i codici, ma non sanno catturare l’attenzione del pubblico. Lo seguì con lo sguardo, elegante nel suo spezzato melange di morbido tessuto inglese, finché non scomparve nel portone dello stabile del suo studio. Laura aspettò altri cinque minuti, immaginandolo nell’ascensore, attraversare la stanza dello studio ed, infine, sedersi alla scrivania. Ora che aveva verificato che il soggetto andava bene, doveva convincerlo a partecipare alla sua trasmissione, anche se le avevano detto che si dimostrava diffidente, quindi doveva usare tutta la sue capacità persuasive. Dalla borsa prese il cellulare e chiamò il numero dello studio.
“Sono della televisione, vorrei parlare con il dottore,” disse con voce molto professionale.
“Il dottore non c’è,” rispose una solerte segretaria.
Laura capì immediatamente che l’uomo stava negandosi.
“Non mi può fissare un appuntamento?” ribatté prontamente.
“Non saprei come fare senza di lui?”
“È cosa urgente. Ho necessità di parlare con lui. Ho i tecnici dello studio pronti per la registrazione,” continuò con voce fintamente spazientita e preoccupata nel contempo.
“Aspetti, vado a vedere nell’agenda degli appuntamenti.”
Sentì i passi della segretaria allontanarsi, sicura che sarebbe andata dal dottore per riferirgli i contenuti della telefonata. Ritornò poco dopo, informandola che era riuscita a trovare uno spazio per l’indomani alle 16. La donna avrebbe preferito la mattina. Nelle prime ore del pomeriggio, la redazione del telegiornale era già al lavoro per l’edizione serale. Bisognava organizzare le squadre per le riprese in esterno; accendere le telecamere per eventuali interviste in studio; telefonare al pronto soccorso e alla polizia per le notizie di cronaca locale, le sole che riuscivano ad alzare gli indici d’ascolto, insieme con gli avvenimenti sportivi. Comunque, era soddisfatta. Era riuscita ad ottenere un incontro con il professionista; ora toccava a lei convincerlo. Raccolse alcune informazioni sulla persona. Seppe della morte della moglie avvenuta qualche mese addietro; della sua passione per la musica classica; della bella casa di campagna a pochi chilometri dalla città; della figlia che studiava. L’indomani si presentò all’appuntamento indossando un tailleur Armani, che le conferiva un aspetto di donna efficiente e pratica. La segretaria la fece accomodare nella sala delle riunioni. La donna non volle sedersi in quelle scomode poltrone girevoli di finto cuoio. Voleva accogliere l’uomo in piedi, con il viso leggermente voltato verso l’ampia vetrata che dava nel cortile interno, per mettere in evidenza il naso all’insù che sapeva piacere agli uomini. La porta si aprì ed entrò l’uomo. Si aspettava di vederlo con il solito completo sportivo, invece indossava un vestito blu quasi da cerimonia, camicia celeste con cravatta a pallini rossi della stessa tonalità dell’abito. Si era presentato con i colori che Laura suggeriva ai suoi ospiti per le riprese in studio, e questo accrebbe in lei il desiderio di averlo in trasmissione, convinta che avrebbe “bucato” il video, come soleva dire quando si trovava di fronte ospiti telegenici.
“Così vestito, è perfetto per registrare la prima puntata,” disse sorridendo la donna, stringendogli la mano. “Sono Laura la responsabile della televisione.”
“Io sono Jeanpierre.”
“Ho portato con me il piano di lavorazione. Vorrei discutere con lei l’ordine degli argomenti, che saranno accompagnati da cartelli grafici e riprese filmate. Entro due giorni devo presentare la bozza del programma all’associazione commercianti,” disse la donna con voce da cui traspariva una certa preoccupazione.
“Non le sembra di correre,” l’interruppe Jeanpierre.
“Se vogliamo andare in onda tra due settimane, come mi è stato chiesto, non abbiamo un minuto da perdere.”
“Veramente ancora non ho deciso se partecipare o no alla trasmissione, anche se sto ricevendo pressioni da più parti. Ho delle pratiche in corso che richiedono la massima concentrazione e, inoltre, non sono nello stato d’animo adatto,” disse l’uomo.
“Ho l’impressione che senza di lei salti la trasmissione,” continuò la donna. “Quando si usa il mezzo televisivo, non è sufficiente avere in trasmissione un professionista serio e preparato, ma occorre anche che la persona abbia un aspetto piacente e quest’ultimo requisito vale più del primo, e lei, me lo lasci dire, possiede entrambi i requisiti.”
La donna stava cercando di usare l’arma della seduzione, anche se il tono era molto professionale e Jeanpierre non seppe sottrarsi al suo fascino.
“Sediamoci,” continuò l’uomo. “Mi faccia vedere il materiale che ha preparato, poi sarò in grado di dirle se accettare o no l’incarico.”
Rimasero a discutere per circa un’ora. Dovette entrare la segretaria per ricordargli che fuori attendevano alcuni clienti da circa trenta minuti.
“Se le interessa il mondo televisivo, avremo modo di riprendere il discorso,” disse la donna sull’uscio dello studio mentre gli stringeva la mano.
Questa volta la stretta di mano non fu formale, entrambi indugiavano per prolungare al massimo il contatto fisico. La settimana successiva, alle dieci della mattina, Jeanpierre era pronto per la prima registrazione. Gli studi occupavano i primi due piani di una palazzina di recente costruzione in un quartiere della periferia nord della città, sulla stessa strada che conduceva alla “Casa degli elci”, da dove l’uomo era direttamente venuto. Un tecnico lo aveva fatto accomodare in un ampio salone, in cui erano allestiti tre set. La scena frontale era utilizzata per il notiziario: sfondo blu, con un lungo tavolo dall’andamento sinuoso in plexiglas ed un leggio dello stesso materiale. Con le luci diffuse si aveva l’impressione di trovarsi all’interno di un acquario; ed era l’idea che aveva ispirato i due giovani scenografi nel privilegiare materiali trasparenti.
“Trasparente come deve essere l’informazione del telegiornale,” avevano detto presentando il bozzetto.
“Ottimo messaggio sublimale,” aveva risposto Laura.
Sulla parete destra campeggiava un pallone da calcio, ed era lo spazio riservato alla trasmissione sportiva “La panchina”, e proprio una panchina rappresentava l’elemento principale della scena, su cui gli ospiti si sedevano per le interviste ed i commenti. La parte di sinistra era un prolungamento dello spazio scenico del telegiornale, una sorta di salotto utilizzato per gli approfondimenti, ed era il luogo dove Jeanpierre aveva preso posizione. Su indicazione di Laura, indossava lo stesso vestito del primo incontro, la cui tonalità sotto le luci dei riflettori esaltavano il carnato del volto. La donna stava controllando attraverso il monitor della regia proprio l’aspetto cromatico dell’inquadratura. Occorreva eliminare un riverbero di luce sulla fronte lucida dovuta al grasso della pelle. Uscì dalla cabina con un piumino impregnato di cipria di riso, che passò con delicatezza sul viso accaldato di Jeanpierre. Quel contatto involontario l’aveva turbata e per timore che l’uomo potesse accorgersi del suo stato d’animo evitava di guardarlo, tanto da assumere un’aria imbronciata da sembrare scortese. Jeanpierre, sotto i riflettori, si sentiva come un paziente sul tavolo operatorio, immobile come una statua, concentrato ad organizzare mentalmente gli argomenti da esporre, tanto che della donna avvertì solo un leggero profumo di acqua di colonia. Laura ritornò nel suo angusto abitacolo, pieno di monitor che rimandavano il primo piano del viso dell’uomo senza gli antiestetici riverberi. In altri due monitor scorrevano le immagini di una telenovela messicana. La programmazione faceva capo ad un’altra emittente televisiva che si avvaleva delle loro frequenze per irradiare i programmi in cambio di spazi pubblicitari. Laura, con i suoi programmi, copriva la fascia preserale, dalle 19 alle 21, e quella serale, limitatamente ai giorni di lunedì, mercoledì e venerdì, riservate allo sport e ai temi d’approfondimento d’interesse locale, cui gli spettatori potevano intervenire telefonando e porre domande agli ospiti presenti in studio.
“Fabio,” disse Laura battendo sul vetro che separava la cabina di regia allo studio di registrazione. “Devi mandare in onda la pubblicità.”
Il giovane, che stava controllando i microfoni per la prova voce dell’ospite, si precipitò alla consolle con lo sguardo fisso nei monitor della telenovela. Con una mano spinse il pulsante per staccare la connessione e con l’altra pigiò il tasto “play” del registratore e immediatamente sul secondo monitor apparve la réclame della pizzeria “Il Caminetto”, un locale poco distante, frequentato dai tecnici dello studio. Delle volte accadeva che la pubblicità locale fosse più lunga. Gli spettatori infuriati protestavano con telefonate roventi per la perdita d’interi brani di dialoghi. Fabio era molto preciso nel lavoro e la durata dei blocchi di pubblicità da lui preparati coincidevano perfettamente con quelli nazionali, tanto chi seguiva il programma da casa, mai avrebbe pensato ad una sostituzione, giocata sul filo di secondi. Doveva affrettarsi, l’ospite, sotto i riflettori, stava “cuocendo”. L’aveva lasciato con i cavi penzoloni che gli impedivano persino di muoversi. Preparò la cassetta di pubblicità per la successiva messa in onda ed uscì dalla cabina. Jeanpierre, quando lo vide arrivare, gli tributò un gran sorriso e lui per cortesia spense il riflettore da duemila watt, lasciando accesi i laterali da cento, che servivano a smorzare le ombre. Dalla cabina di regia, Laura azionò le leve dello zoom collegate alle telecamere, ingrandendo i dettagli del volto che ora incombevano dalla fila di monitor come tanti trofei. Quel cinquantenne esercitava su di lei un forte fascino, forse perché aveva saputo che non aveva legami sentimentali, dopo la morte della moglie. La donna aveva alle spalle un matrimonio durato meno di un anno, periodo in cui aveva cercato di fare capire al marito che non voleva fare solo la casalinga. Così, per avere la sua indipendenza economica, lo aveva piantato in asso. Era riuscita a trovare lavoro presso una ditta di spedizioni, come centralinista e segretaria tutto fare. Dopo due mesi dal grande magazzino non usciva un collo di merce senza la sua firma; e dopo un anno reclutava addirittura gli autisti. Donne di talento costrette ancora una volta a trascurare relazioni sentimentali, per affermarsi nel lavoro, proprio com’era accaduto ad Adriana, analogia che non era sfuggita a Jeanpierre.
Laura era convinta che una relazione con un uomo maturo, impegnato professionalmente, non sarebbe stata d’impedimento alla sua libertà faticosamente conquistata. Non era alla ricerca del principe azzurro. Aveva bisogno, come tutte donne, di rifugiarsi, ogni tanto, tra le braccia di un uomo, che non ponesse tante domande. Insomma, voleva fare un po’ di sesso per il solo piacere di farlo.
Da quando aveva escluso qualsiasi legame sentimentale con il personale tecnico e della redazione giornalistica, tutti più giovani di lei, erano mesi che non aveva un rapporto sessuale. Scrutava attraverso i monitor l’uomo senza che vi trovasse il più piccolo difetto. Non doveva farselo scappare e aveva quattro puntate di tempo per riuscire a conquistarlo. Registrare la prima puntata aveva richiesto più tempo del previsto, per numerosi inconvenienti tecnici. La donna aveva voluto che Jeanpierre mentre parlava si alzasse dalla sedia dirigendosi verso il leggio per illustrare alcuni grafici. Seguire la persona con la telecamera sul cavalletto, le cui ruote scorrevano male sulla moquette, aveva richiesto diverse prove di coordinamento dei movimenti. Per l’ora di pranzo non avevano ancora terminato. Fu Laura a proporre a Jeanpierre una pausa.
Alla pizzeria “Il Caminetto” i tecnici furono i primi a terminare il frugale pasto per andare a preparare lo studio, mentre Jeanpierre e Laura si erano attardati a bere un caffè.
“Se non hai impegni (ormai si davano del tu),” disse la donna. “Questa sera prosegue il ciclo Musica e Cinema.”
Laura sapeva della passione che Jeanpierre aveva per la musica classica ed era certa che la notizia lo avrebbe incuriosito.
“Sono anni che non metto piede in una sala cinematografica. Conosco meglio i teatri e le sale da concerto,” disse l’uomo sorridendo.
Laura era una donna intelligente non solo attraente e Jeanpierre aveva bisogno di distrarsi. Dalla morte di Adriana si era buttato a capofitto nel lavoro, non poteva continuare a condurre una vita monastica. Capiva che era la donna a condurre il gioco, ma lui aveva bisogno di essere stimolato e afferrò al volo la mano che Laura gli tendeva.
“Se vogliamo andare al cinema,” disse l’uomo, “É necessario che finiamo la registrazione presto, ho un appuntamento per le 18.”
“Stai tranquillo che ce la faremo,” disse Laura alzandosi.
Le giornate della donna erano sempre piene. Non concepiva che si potesse trascorrere una serata seduta sul divano a non fare niente. Era sempre alla continua ricerca di riempire i vuoti della giornata. Odiava l’inattività o meglio i “tempi morti” come lei li chiamava e organizzava la sua vita con la stessa frenesia dei montaggi televisivi. Anzi, ormai le immagini la ossessionavano talmente che aveva l’impressione che un occhio della telecamera fosse sempre puntato su di lei, comportandosi di conseguenza. Jeanpierre era l’esatto contrario. Per lui i tempi inoperosi rappresentavano la vita. Non c’era momento più gratificante che starsene seduto sul sedile di pietra del giardino e vagare con la mente. Si sentiva più in compagnia da solo, di quando fosse in mezzo alla gente. La passione per la musica e per la poesia nasceva proprio da questa sua predisposizione meditativa del carattere. Rielaborava le passate esperienze, trovando spunti nuovi che guidavano le sue azioni.
Il film Morte a Venezia era piaciuto ad entrambi. Visconti aveva utilizzato l’Adagietto della Sinfonia numero cinque di Mahler come elemento espressivo con la stessa forza delle immagini, tanto che il tema principale esposto dai violini era stato percepito da Laura e Jeanpierre, come un lamento straziato dell’anima tormentata del personaggio, da commuoverli più volte.
Era la seconda volta che la musica gli apriva il cuore: prima con Adriana con la terza Sinfonia di Brahms, ora accadeva la stessa cosa con Laura, attraverso la quinta di Mahler. Lui era consapevole che il carattere della donna fosse diverso dal suo, ma nonostante tutto si sentiva attratto da un legame senza regole. Non prese in considerazione che fosse più giovane, particolare che avrebbe gratificato altri uomini. Egli notava nelle persone particolari che ad altri sfuggivano e che gli comunicavano aspetti interessanti della personalità. Di una donna ad attirare l’attenzione di un uomo, generalmente, erano i cosiddetti “segnali forti”, (seni, fianchi, gambe) che nulla dicevano però delle loro qualità interiori. Sedersi al tavolo accavallando le gambe in una certa maniera, usare gesti misurati, controllare il tono di voce, sorridere, un certo sguardo, i “segnali deboli” come Jeanpierre li chiamava, erano gli atteggiamenti che lo avevano colpito in Laura, anche se la bellezza non le faceva difetto.
L’appartamento di Laura, dal soffitto a schiena d’asino, era un unico ambiente ricavato nel sottotetto di un palazzo costruito subito dopo la guerra. L’estrema periferia d’allora, con l’espansione della città, era diventata una zona quasi centrale, ed era lo stesso quartiere dove Jeanpierre aveva vissuto i primi anni del suo matrimonio con Adriana e questa circostanza la considerò di buon auspicio. Sulla parete bianca spiccava come elemento decorativo la grande testiera del letto di ferro battuto. Era stata ricavata da un’inferriata ad arco, di quelle poste sopra gli ingressi dei magazzini per prendere luce. Laura l’aveva dipinta di rosso e l’estremità dei ferri dalla forma arricciata colore porpora. L’aveva ricuperata tra i materiali ferrosi nel deposito dell’azienda comunale d’igiene urbana dove i cittadini portavano mobili ed altri oggetti ingombranti, di cui volevano disfarsi. Vi si poteva trovare di tutto dall’armadio della nonna alla scrivania stile anni quaranta, dalla madia alla vecchia cassapanca. Da quando era divenuta meta di visite continue, con il rischio che la gente potesse ferirsi, l’area era stata recintata, con gran dispiacere di Laura che in quel luogo vi aveva trovato molti dei mobili che arredavano il suo appartamento.
“Accomodati,” disse Laura, indicando il lungo divano di pelle bianca che divideva il soggiorno dalla zona notte.
Accese il piccolo televisore sintonizzato sempre sulla sua stazione televisiva; lo faceva per controllare la regolarità della messa in onda dei programmi. Se voleva vedere altre trasmissioni si spostava sul televisore grande del salotto.
“Hai una bella casa,” continuò Jeanpierre.
Non ottenne risposta. Si sentiva l’acqua del lavandino del bagno scorrere. L’uomo si alzò richiamato dalla voce concitata dello speaker televisivo per il pallone messo in rete dalla squadra locale.
“Ti piace il calcio?” disse la donna, le cui mani profumavano di sapone, richiudendo la porta della stanza del bagno.
“Solo quando gioca la squadra Nazionale.”
La donna fissava lo schermo televisivo, non per guardare l’azione d’attacco del mediano che saettava superando la difesa avversaria, ma osservava infastidita alcune linee che attraversavano l’immagine.
“Queste interferenze sono dovute ai nastri troppo sfruttati,” disse rivolta a Jeanpierre, quasi a scusarsi. “Ho sempre detto ai tecnici che la messa in onda di programmi seguiti come le partite di calcio devono essere perfette, altrimenti perdiamo contratti pubblicitari. Domani mi sentiranno. Ma ora basta parlare di lavoro,” disse spingendo il tasto del telecomando, appoggiato sul tavolo. “Vuoi qualcosa da bere?”
“No, non mi occorre niente,” rispose l’uomo sedendosi sul divano. “Sto bene così.”
Laura accese le due lampade a stelo che delimitavano lo spazio del soggiorno, spegnendo le altre. La luce tagliata divideva come un muro gli altri ambienti: sembrava l’illuminazione di un set televisivo e loro gli attori sulla ribalta. Si tolse le scarpe, sdraiandosi con il capo appoggiato sulle gambe di Jeanpierre. Chiuse gli occhi. In quel semplice gesto c’era tutto il desiderio di buttarsi dietro le spalle le apprensioni della giornata; di abbandonarsi senza opporre resistenza alle eventuali carezze dell’uomo; di non pensare. Lei era fatta così. Sul lavoro era sempre pronta a prendere decisioni, impartire ordini, organizzare le attività degli altri, ma nell’intimità della casa, in compagnia di un uomo, diventava docile e remissiva, spogliandosi dell’aggressività che era costretta a manifestare durante il giorno. Jeanpierre si chinò sul viso della donna che dischiuse le labbra. Vi affondò la lingua, mentre la mano premeva sulla blusa che cercava di slacciare. Con poche mosse fece scivolare ogni altro indumento, sino a liberare tutto il corpo, che fremeva sotto le sue carezze.
“Come sei bella,” disse l’uomo. “Ti desidero.”
Quel grosso pene eretto per la potenza che esprimeva la intimidiva; anzi le faceva quasi paura. La penetrazione di un pene nel corpo di una donna è pur sempre una forma di violenza, anche se mitigata dal desiderio.
“Devi essere delicato, senza farmi male.”
Ogni uomo sarebbe stato orgoglioso della propria virilità, ma lui n’ebbe vergogna per l’apprensione che suscitava in Laura. La sollevò prendendola in braccio, così da celarle la visione del corpo. Lei si aggrappò al collo, come se cercasse rifugio e protezione. Chiuse gli occhi, mentre la trasportava fuori del quadrato di luce, nella penombra del gran letto, dove l’adagiò con delicatezza. Entrambi sentivano il bisogno di toccarsi, con la consapevolezza che finalmente, dopo mesi di solitudine, la concretezza di quel corpo nudo accanto non sarebbe svanito come un sogno all’alba. Jeanpierre accarezzava con il pene la vulva della donna, accennando brevi penetrazioni, senza osare spingere a fondo; voleva tranquillizzarla con la tenerezza del gesto. Fu la donna ad inarcare il bacino e catturare il membro. Come l’atleta che scalda i propri muscoli prima della corsa, l’uomo accennò brevi movimenti, per sollecitare la donna ad imprimere il ritmo. D’altronde era il pene dell’uomo che penetrava la donna e non viceversa. Lei rispose con perfetto sincronismo, accentuando le spinte con pari intensità, sino a quando, superato ogni timore, una frenesia insaziabile cominciò a scuotere i loro corpi. Non solo i gesti erano lo specchio di quelli dell’altro, ma anche i suoni che li accompagnavano, identici a sferzate di frusta. A differenza di Adriana, la moglie di Jeanpierre, che si caricava di energia quando il piacere raggiungeva l’acme, scuotendo con urla liberatorie il bacino da sollevare il corpo del marito; in Laura ogni impeto sembrava placarsi e più le forze si attenuavano più lei entrava in uno stato d’estasi da lasciarla inebetita, tanto che l’uomo ebbe l’impressione che avesse perduto conoscenza. Ma gli squittii appena sussurrati, i sussulti del bacino, parlavano di un piacere intenso da estraniarla completamente.
Il carattere remissivo di Laura era il comportamento che ogni uomo avrebbe desiderato da una donna nel fare l’amore. Certo, lei lo faceva per compensare gli atteggiamenti aggressivi che manifestava sul lavoro. Si dimostrava docile, però, solo con i partner che avevano la sensibilità necessaria per comprendere che, nel suo donarsi completamente, il rispetto della persona era requisito fondamentale, soddisfatto il quale all’uomo delegava ogni iniziativa. Gli uomini che aveva incontrato dopo il divorzio, erano timidi e impacciati se non violenti e volgari; nessuno aveva saputo comprendere l’esatta natura di donna che c’era in lei, per questo le sue relazioni erano state sempre brevi. Non aveva mai pensato di rivolgere attenzioni verso una particolare categoria d’uomini, ricercava solo in loro affinità interiori, come quelle che aveva trovato in Jeanpierre, arrivando alla conclusione che i sentimenti non hanno età. Sembrava un caso, ma era lo stesso percorso compiuto da Jeanpierre nei confronti di Adriana. La storia stava ripetendosi, anche se i ruoli erano invertiti, con l’unica variante che entrambi non desideravano una famiglia: nella donna perché sarebbe stata d’intralcio al suo lavoro, nell’uomo perché ancora coinvolto nel lutto della moglie e per le responsabilità che sentiva nei confronti della figlia Ilaria.
Capitava che passassero anche settimane senza vedersi: lei presa a realizzare programmi televisivi, lui impegnato in cicli di conferenze per aggiornamenti professionali, per il prestigio che le apparizioni in TV gli avevano procurato. Erano così determinati nel mantenere ognuno la propria indipendenza, che Laura continuava a frequentare il piano bar e i suoi amici, Jeanpierre le sale da concerto e i suoi amici. Il loro rapporto, privo di costrizioni, esaltava la parte migliore di ognuno, tanto che i giorni d’attesa che separavano le loro visite erano vissute con lo stesso entusiasmo del primo incontro. La mansarda di Laura era il luogo deputato dei convegni amorosi. Nulla si celava allo sguardo dell’altro, anche quando Laura si alzava per rassettare la casa, l’uomo seguiva ogni suo movimento dal letto e l’essere costantemente osservati aumentava la complicità del rapporto. Non c’era angolo di quello spazioso monolocale in cui non avessero fatto l’amore. Il lungo tavolo della cucina, il divano, il tappeto, la doccia, la vasca da bagno, più che luoghi fisici, erano diventati elementi dei loro giochi d’amore, per le posizioni che suggerivano. A Jeanpierre spettava l’iniziativa, la conduzione del gioco, a Laura di assecondarlo, seguirlo sino in fondo, sapendo che il risultato, per entrambi, era la ricerca del piacere. Fu così che una mattina la donna uscita dalla doccia, stava terminando di asciugarsi. Lui, come il solito, l’osservava dal letto mentre, chinata, frizionava con l’asciugamano le gambe di fronte al divano del soggiorno. La vista di quelle natiche luminose, rotondeggianti, che si muovevano con l’espressione di un volto, furono per l’uomo un richiamo irresistibile. La prese da dietro, baciandole il collo. La donna, bella come la Venere di Milo, sentiva il pene dell’uomo diventare turgido e il suo calore eccitarla. Muoveva i glutei per meglio sentirne la consistenza. Jeanpierre spinse cercando di attraversare quel minuscolo orifizio rosa, dall’aspetto di chi strizza un occhio, senza riuscirci. Laura aprì il palmo della mano sputando al suo interno, invitando Jeanpierre a fare altrettanto. Con il dito indice amalgamò le salive. Accostò la mano al pene, come se dovesse abbeverarlo a quella magica polla, dietro lo sguardo incuriosito dell’uomo. Le dita della donna si strinsero attorno al glande. Con lenti massaggi, stese quella fluida sostanza, come un invisibile velo.
“Prova ora,” mormorò.
L’uomo si meravigliò della facilità della penetrazione. Si bloccò solo per i gemiti di dolore della donna, ma lei lo invitò ugualmente a continuare, con un gesto della mano, anche se sentiva il pene esploderle nelle viscere.
Lui spinse. Spinse fino in fondo incurante dei lamenti sempre più intensi.
“Tutte le prime volte per una donna sono dolorose,” le sussurrò l’uomo. “Vuoi che smetta?”
“Continua, ma con dolcezza,” l’esortò, asciugandosi le lacrime.
Era la prima volta che praticavano la sodomia e nessuno sapeva cosa ci sarebbe stato al termine di quell’insolito gioco dal fascino perverso. Con impercettibili movimenti, per permettere ai tessuti del retto di adattarsi a quella massa estranea, Jeanpierre era attento ad ogni reazione. Mai avrebbe permesso che a godere fosse lui solo. Gli uomini anche in questo erano favoriti; nelle condizioni più strane riuscivano sempre a raggiungere l’orgasmo, quindi le prodigava mille attenzioni. Con la lingua sfiorava il lobo dell’orecchio, con una mano lisciava i capezzoli, con l’altra titillava il clitoride, mentre il pene accarezzava il didietro, provocando in lei sensazioni mai provate, da superare ogni sofferenza. Avvinghiati in piedi, al centro del salotto, i loro corpi sussultavano. Fu Laura a squittire per primo. Jeanpierre raggiunse lo stesso stato di beatitudine con brevi ed intensi colpi di reni.
Jeanpierre in occasione di uno spettacolo alla Scala di Milano, cui aveva assistito con alcuni amici, aveva portato in regalo a Laura un’elegante borsa nera di coccodrillo, firmata Chanel; borsa che lei sportivamente portava a tracolla. Era il primo dono di prestigio che riceveva, e lei volle subito contraccambiare regalandogli una telecamera digitale, che entrava nel palmo della mano tanto era piccola. L’uomo si divertì subito ad usarla.
“Quando vorrai cambiare lavoro, potrai sempre venire a lavorare da me,” gli disse Laura scherzando, mentre visionavano il materiale girato su un video proiettore dello studio televisivo.
A Jeanpierre l’ambiente degli studi televisivi piaceva. Era possibile incontrare, quali ospiti delle trasmissioni un campionario d’umanità che lasciava esterrefatti: luminari, sportivi, uomini di spettacolo, industriali, parlamentari, disoccupati; mentre lui con la sua professione non andava di là di commercianti, ragionieri e avvocati. L’uomo osservava Laura impegnata nella registrazione, attenta a ciò che avveniva in studio. Capì quanto il suo lavoro fosse ricco di stimoli, che la predisponevano ad essere tollerante, aperta ai problemi degli altri, sensibile. Sì, decisamente Laura era diversa dalle altre donne per questo pensò che poteva prendere il posto di Adriana e diventare sua moglie.
5
La cassetta video
Ilaria era diretta a casa a bordo della sua piccola utilitaria, una Ford Ka rossa. Era stato il padre a consigliarle quel colore, più visibile nelle strade di collina strette e piene di curve specialmente nelle giornate di pioggia e nebbia. Parcheggiò l’auto accanto allo scooter del contadino che si prendeva cura dell’orto. Il padre aveva voluto che continuasse a coltivarlo in ricordo della moglie, anche se dei prodotti raccolti ne faceva un consumo limitato.
“Signorina le ho colto pomodori ed insalata,” disse l’uomo andandole incontro, sapendo che la ragazza amava mangiare le verdure fresche.
“Giuseppe lei è sempre gentile,” rispose Ilaria. “Domani torno in sede, ne prendo la giusta quantità per consumarla questa sera. Venga dentro, così le restituisco il cesto,” continuò la ragazza con fare cortese.
“Non mi faccia entrare, altrimenti le sporco il pavimento,” si giustificò l’uomo, rimanendo sull’uscio della porta, alla maniera di un cane da guardia che non osa entrare nell’abitazione del padrone e si accontenta di scrutare l’interno alzando il muso umido per coglierne gli odori.
“Domani mattina dica a sua moglie di riordinare la casa e di chiuderla. Io starò via per due settimane,” disse Ilaria, ritornando con un piatto in mano.
“Ne prenda ancora,” insistette il contadino. “C’è ancora tanta roba da raccogliere e mi dispiace che lei non n’approfitti.”
“È sufficiente quello che ho preso,” rispose Ilaria trattenendo la mano dell’uomo che cercava di colmare il piatto con altri ortaggi.
La presenza discreta di Giuseppe e della moglie, per lei, era una sorta di compagnia, e si stava abituando a vederli aggirarsi per la proprietà. Secondo le istruzioni di Mauro, l’avvocato, i due coniugi dovevano comportarsi come se fosse ancora vivo il padre, tanto che per ogni problema inerente alla conduzione della casa si rivolgevano allo studio che pensava anche a liquidare le loro spettanze economiche.
La ragazza mise il piatto delle verdure sotto il rubinetto, risciacquandole più volte. Si asciugò le mani e andò a prendere la busta contenente la cassetta video, che aveva lasciata sul tavolo, così come aveva promesso a Laura. Il rumore della lama del tagliacarte, che lacerava il lembo del plico, spezzando in due la firma del padre, s’insinuò nella mente come un lamento. Ora che aveva rotto i sigilli, era convinta che il contenuto aleggiasse nell’aria; ignorando, però, se gli effluvi fossero fragranze o miasmi. Cercava di interpretare la lettera scritta sulla busta. L’equazione “P uguale Pericolo” non riusciva a togliersela dalla mente, anche se lei sperava in un messaggio del padre. Scartò l’idea perché se così fosse, sulla busta, ci sarebbe stato scritto il suo nome. In quel nastro doveva esserci qualcosa di compromettente che il padre non aveva avuto il tempo di distruggere; questo giustificava le precauzioni da lui adottate. Inserì la cassetta nell’alloggiamento del registratore collocato di lato al televisore e si abbandonò sulla poltrona, con il telecomando in mano. Lei non stava profanando un segreto, stava cercando semplicemente prove che potessero aiutarla a scoprire la tragica fine del padre. Non era forse questa la ragione per cui aveva chiesto ragguagli ai suoi amici? Persino alla sua donna aveva carpito informazioni che mai un uomo avrebbe rivelato ad una figlia. Era questa la verità, oppure i particolari piccanti del padre, servivano a soddisfare morbose curiosità dai risvolti freudiani? No, la ragazza lo faceva solo per tenere alto il ricordo del padre.
Quali immagini si sarebbero materializzate, spingendo il tasto del telecomando? Aveva di nuovo paura. Un conto ascoltare un narratore che può calibrare il racconto in base alla sensibilità e alle reazioni dell’interlocutore, come avevano fatto gli amici del padre, altra cosa era un messaggio video: esso sarebbe giunto a lei nudo e crudo senza alcuna mediazione. Forse era questa la ragione delle tante precauzioni prese dal padre: non voleva che altri potessero visionare il contenuto. Lui, però, era morto e solo a lei spettava la decisione, perché unica superstite della famiglia. Quest’ultima riflessione le dette il coraggio di spingere il tasto del telecomando. Una serie di luminescenze apparvero sullo schermo e, prima ancora che comparisse l’immagine, si alzò. Aveva la sensazione che la posizione seduta non fosse adatta. Sembrava che fosse ritornata bambina, pronta a scappare se le scene di film l’impressionavano. Si tranquillizzò quando sullo schermo apparve lo stesso soggiorno, anzi sembrava che il televisore rimandasse le immagini che la ragazza stava osservando. La scena stava animandosi e lei tornò a sedersi. Il padre era entrato in campo seguito da una donna. Seduti sul divano, l’uomo cercava di spogliarla mentre la baciava. C’era una notevole differenza sentire raccontare le avventure del genitore e osservare con i propri occhi le sue prodezze amorose. Se il padre si prestava a farsi riprendere mentre faceva l’amore, poteva essere capace anche delle azioni descritte dai giornali. I dubbi di nuovo cominciarono ad insinuarsi in lei. Aveva imboccato una strada irta d’ostacoli. Chi era quella donna che le ricordava la madre? Riavvolse il nastro, bloccando l’immagine nel momento in cui il suo viso occupava l’intero schermo. Lo osservò attentamente. Quel volto lo aveva già visto; l’espressione degli occhi le ricordava una situazione particolare. Sì, la donna doveva essere tra le persone presenti al funerale. A passi veloci ritornò verso lo studio. Accese il computer per passare in rassegna le fotografie che Gabriele le aveva inviato. C’era una certa rassomiglianza con la misteriosa signora che se ne stava in disparte lontana da tutti, e che Gabriele aveva ripreso mentre si asciugava le lacrime. Stampò la foto per avere una copia e ritornò nel soggiorno per raffrontare i lineamenti. Gli occhi, la linea delle labbra, i dettagli dell’orecchio erano gli stessi, compreso il forellino del lobo dell’orecchino: sì era proprio lei. La lettera “P” era l’iniziale del suo nome: ne era certa; finalmente aveva una traccia da seguire, n’avrebbe parlato con Gabriele l’indomani.
Gli studenti del corso di giornalismo avevano diritto a vitto e alloggio gratuito nelle strutture universitarie. Ilaria occupava la stanza con Maria Luisa, una ragazza venticinquenne, laureata in lettere moderne. La ragazza le saltò al collo appena la vide affacciarsi alla porta della camera. Il gesto era carico d’affetto per l’amica che non vedeva da più di una settimana.
“Finalmente sei tornata,” disse la ragazza. “La stanza senza di te era vuota: come stai?”
“Stanca per il viaggio,” rispose appoggiando la valigia a terra.
“Ti ho conservato le dispense delle lezioni svolte durante la tua assenza,” proseguì Maria Luisa.
“Sei sempre gentile e piena di premure,” rispose Ilaria.
“Ti vado a prendere un caffè nel distributore automatico?” continuò vedendo l’amica che si versava un bicchiere d’acqua.
“Ho solo sete. Sono venuta a depositare il bagaglio: sai dove posso trovare Gabriele?” aggiunse con aria distratta. “Ho bisogno di vederlo con urgenza.”
“Poco fa era di turno alla radio. Doveva preparare i testi per il notiziario delle tredici. Ma è accaduto qualcosa?” ribatté preoccupata.
“No stai tranquilla,” fece Ilaria. “Mi sta aiutando nell’indagine su mio padre. Stiamo cercando di mettere in pratica le tecniche investigative giornalistiche apprese a scuola, per capire qualcosa di più su questa orribile ed intricata vicenda,” continuò come per giustificarsi. “Mi ha telefonato dicendo di aver scoperto cose interessanti,” aggiunse ancora per rassicurare l’amica.
Maria Luisa si sentì confortata per la risposta; significava che l’amica non voleva tenerla all’oscuro di quanto le stava accadendo. Era convinta che l’avrebbe aggiornata di tutto, non ora che aveva fretta, ma la sera, sdraiate sul letto prima di addormentarsi, quando erano solite confidarsi i propri segreti.
“Sai che su di me puoi contare per qualsiasi cosa,” si limitò a dire Maria Luisa.
“Lo so perfettamente e se avrò bisogno del tuo aiuto non esiterò a chiedertelo,” rispose Ilaria sorridendole, mentre componeva il numero per chiamare al cellulare Gabriele.
Il Colle delle Vigne era un luogo suggestivo. Da quel punto si dominava la città, tanto d’avere l’impressione di allungare una mano e sfiorare il Castello del Principe con le sue torri, la cupola del duomo, le chiome dei tigli del pincio che si affacciavano sopra quelle che erano una volta le stalle reali. Gabriele era seduto su una delle due panchine, in posizione crocefissa, come se volesse contenere la mirabile visione. Dal Mercatale gli giungevano, come ovattati, i rumori del traffico. Vedeva persino gli studenti con i libri sotto il braccio, che scendevano dagli autobus del servizio pubblico di dimensione ridotte, per meglio muoversi all’interno dell’antico tessuto urbano.
“È molto che aspetti?” disse Ilaria.
“Sono qui da dieci minuti, ma rimarrei così anche per un’ora senza annoiarmi di fronte a tanta bellezza.
“Hai ragione,” rispose Ilaria. “Sembra un quadro.”
“Siediti,” disse il giovane facendole posto sulla panchina che sembrava scivolare lungo il pendio, per la posizione panoramica in cui era stata collocata.
“Facciamo il punto di com’è andato il viaggio a Pesaro: ti va?” chiese Ilaria al giovane, ancora con l’aria trasognata.
Gabriele annuì con il capo e dalla tasca del marsupio, che teneva a tracolla, prese il suo taccuino affinché il resoconto fosse completo.
“Il cameriere dell’albergo si ricordava dei tre amici,” esordì il giovane. “I tre erano completamente bagnati per essere stati a visitare i giardini di Villa Caprile. La donna gli aveva chiesto di un parrucchiere per la messa in piega dei capelli. Si erano divertiti anche grazie alla complicità di uno studente che faceva la guida all’interno del parco. Ho rintracciato il giovane che studia agraria a Bologna,” soggiunse. “Di fronte ad una birra in un locale del centro, egli mi ha raccontato nei minimi dettagli ciò che era accaduto quel pomeriggio.
“Bene, sono soddisfatta del tuo lavoro. Continua con la stessa meticolosità negli altri alberghi dove hanno soggiornato.
La ragazza prese dalla tasca un foglio piegato in quattro che mostrò all’amico.
“Che cosa puoi dire di questa donna che hai fotografato al cimitero?”
“La sua figura mi aveva colpito.”
“Non sai chi potrebbe essere?”
“No di certo!” esclamò. “Però, dovrei avere altre pose di lei, tra cui una che saliva in macchina.”
“Quindi potresti avere ripreso la targa?”
“Forse ma per esserne certi, occorrerebbe vedere il negativo.”
Gabriele conservava i negativi delle sue foto in un album che teneva nel laboratorio della scuola, ordinati per data, con una breve descrizione del soggetto. Staccò il foglio contenente le strisce di pellicola dagli anelli mobili, per osservare in controluce i fotogrammi. Sapeva che per ottenere un buono sviluppo, le immagini negative dovevano essere ben trasparenti nelle ombre; se il passaggio tra il bianco e nero fosse stato troppo rapido, le immagini sarebbero state contrastate e di cattivo effetto per la perdita dei dettagli sui quali era concentrata la sua attenzione.
“Eccolo è proprio questo,” disse rivolgendosi ad Ilaria.
Le gradazioni delle mezze tinte erano tutte presenti, significando che il negativo era tecnicamente perfetto. Con precauzione sfilò la pellicola, collocandola sotto il vetro dell’ingranditore fotografico. Girò la manopola per centrare bene il dettaglio della targa. I volti dei due giovani sembravano emanare bagliori luciferini per la luce rossa che non disturbava le operazioni di stampa. Un rettangolo di luce intensa colpì la superficie bianca del piatto millimetrato, illuminando il laboratorio per circa cinque secondi, il tempo giusto per l’esposizione. Con gesti rapidi, il giovane immerse la carta impressionata nella bacinella contenente il liquido di sviluppo e, come per magia, l’immagine della targa dell’automobile si materializzò sotto i suoi occhi, prima avvolta nella nebbia poi sempre più nitida.
“Ora puoi metterla nella bacinella di fissaggio,” disse Gabriele rivolto all’amica. “I particolari sono tutti ben visibili,” continuò con voce soddisfatta.
Ilaria era in grado di eseguire stampe di fotografie tratte da negativi, anche se non aveva la stessa esperienza dell’amico, che trascorreva molto del suo tempo libero in camera oscura, più per piacere che per motivi di studio.
“Dal numero di targa potremo finalmente risalire al proprietario del veicolo,” disse la ragazza mentre appendeva la foto gocciolante su un filo teso sopra il lavandino, come un capo di biancheria d’asciugare.
Ilaria era partita la mattina presto. Per tutto il tragitto aveva incrociato i piccoli autocarri bianchi che rifornivano di latte, caffè ed altro i bar e i negozi di genere alimentari dei borghi che si affacciavano sulla strada statale. Non faceva in tempo a superarne uno che subito se ne trovava di fronte un altro, con disegnati sulle lisce pareti del cassone i loro prodotti da reclamizzare. All’inizio la infastidiva che quei camioncini rallentassero la sua andatura, ma poi cominciò ad osservarli con altri occhi, non foss’altro perché quelle macchine trasportavano le colazioni degli italiani. Superò un camioncino fermo davanti ad un bar, salutando l’ignaro autista, impegnato a consegnare alcuni cartoni di latte fresco: un gesto di cortesia per chi quotidianamente era impegnato in quella sorta di servizio di pubblica utilità. Ora che era prossima alla destinazione, le abitazioni si susseguivano senza soluzione di continuità a causa dell’espansione urbanistica. Continuò per una strada delimitata da ippocastani le cui chiome avevano creato un tunnel su cui si affacciavano i cancelli delle villette. Patrizia, la donna misteriosa proprietaria della piccola utilitaria, abitava al numero quaranta. Fermò la macchina, per non ingombrare la strada, accanto al bidoncino delle immondizie dove c’era spazio sufficiente. Le passarono accanto i ciclisti dalle tute variopinte che aveva superato poco prima in un tornante. La salutarono con il gesto della mano e lei rispose con la stessa cortesia, mentre si avviava al cancello di legno, nascosto da due cespugli di forsythia, i primi ad annunciare, con i fiori oro lucente, l’arrivo della primavera. “Avvocato Soldini” era il nome riportato sulla targhetta d’ottone del campanello. Aveva timore di avere sbagliato indirizzo. Cercò di vedere se all’interno ci fosse la macchina della donna, ma il vialetto era deserto. Notò solo la cura con cui era tenuto il giardino. Al centro del prato, un arbusto di rhus, le cui foglie simili a felci diventavano di colore ruggine in autunno, stava a dimostrare come tutto il verde fosse stato progettato in funzione al mutare dei colori nei diversi mesi delle stagioni. Ecco allora la clematis che fioriva nel mese di maggio e che avvolgeva il piccolo gazebo, la siepe di spiraea che raggiungeva in giugno il massimo splendore, gli arbusti di deutzia, i cui fiori bianchi spandevano il loro profumo sino ad agosto, i cespugli di hibiscus che regalavano corolle imbutiformi ancora ad ottobre.
Spinse il pulsante del citofono con esitazione e dopo alcuni secondi d’attesa una voce di donna rispose.
“Chi è?”
Udire la voce di una donna le restituì coraggio e senza perdersi d’animo prontamente ribatté:
“Abita qui la signora Patrizia?”
“Sì sono io.”
“Ho bisogno di parlarle.”
“Non aspetto nessuno,” continuò la donna con voce determinata, convinta che si trattasse delle solite venditrici che vogliono affibbiarti qualche prodotto miracoloso.
Ilaria esitò un istante. Capiva che era giunto il momento di agire a viso scoperto.
“Sono Ilaria: la figlia di Jeanpierre,” disse con voce ferma.
Lo scatto metallico della serratura la fece sobbalzare. Lei s’insinuò all’interno del giardino richiudendo il cancello, come se volesse impedire ad altri di introdursi in quel luogo. Aveva percorso metà del vialetto quando sotto il portico della villa apparve Patrizia. La donna non riusciva a togliersi dal viso l’espressione di sorpresa. Non capiva come la ragazza fosse riuscita a giungere a lei. La fugace relazione avuta con il padre era stata tenuta segreta, tanto che solo pochi intimi ne erano a conoscenza. Ilaria era così a disagio nel vedersi osservata con tanta insistenza, che non sapeva quale contegno assumere, ma la donna non gliene dette il tempo, perché l’abbracciò come se avesse di fronte una figlia che rivedeva dopo lunga assenza.
“Ilaria, non puoi immaginare quanto abbia desiderato questo momento. Non speravo che avvenisse nel mio giardino,” proruppe con tono di voce commossa. “Il giorno del funerale volevo parlarti, ma poi sono fuggita, per non accrescere il dolore che già mi straziava. Ma come hai fatto a trovarmi?”
“Attraverso il numero di targa della sua automobile che un fotografo dilettante ha ripreso casualmente mentre lei s’allontanava dal cimitero.”
“Ma c’erano numerose persone alla cerimonia e collegare il mio nome a quello di Jeanpierre era impossibile,” continuò la donna.
“Tra gli oggetti di mio padre ho trovato una cassetta video che la riguardava,” disse con pudore, volgendo lo sguardo a terra.
“Ero convinta che l’avesse distrutta, come ho fatto io con la mia copia.”
“Da come la teneva custodita era come se lo avesse fatto.”
“Che cosa intendi dire?”
“La teneva in plico sigillato, con tanto di firma sui lembi, in un cassetto chiuso a chiave della scrivania del suo ufficio. Le precauzioni prese stavano a dimostrare che il contenuto era precluso non solo agli altri ma anche a se stesso e la ragione perché abbia voluto conservarla non la sapremo mai. Comunque gliene ne sono grata perché senza quella registrazione non sarei giunta a lei.”
“Io non ho mai visto il contenuto della cassetta,” disse la donna. “Ti sarai scandalizzata?”
“Quando ho capito di cosa si trattava, ho interrotto la visione,” rispose Ilaria.
“Non restiamo qui, entriamo in casa, così potremo meglio parlare,” disse la donna.
Ilaria seguì la donna in un ampio soggiorno e benché fosse la prima volta che vi metteva piede, notò subito nell’arredamento un qualcosa di familiare e fu Patrizia a chiarirne la ragione.
“Avevo visto un mobile simile in casa vostra,” disse indicando una scrivania in radica di noce, con la parte rialzata composta da una doppia fila di piccoli cassetti intarsiati. “Alla fiera dell’antiquariato dello scorso autunno ne ho saputo resistere al fascino di questo mobile del primo ‘700,” continuò la donna.
La madre d’Ilaria utilizzava quel tipo di cassetto per conservarci le ricette di cucina. Si riprometteva sempre di riordinarle ma c’era sempre qualcosa d’urgente che la distoglieva dai suoi propositi. Ci aveva pensato la figlia, dopo la sua morte, a trascrivere nel computer le numerose ricette, cimentandosi persino preparare le più semplici con buoni risultati.
“Mettiti comoda,” continuò la donna mentre toglieva alcune riviste di giardinaggio aperte sul tavolo, che stava consultando prima che lei suonasse.
Ilaria era convinta che il nome sulla targhetta del cancello fosse del marito e per non mettere in imbarazzo la donna domandò:
“È sola in casa?”
“Mio marito oggi è impegnato in tribunale. Lo vedrò solo nel tardo pomeriggio,” rispose la donna. “Quando è fuori tutto il giorno, solitamente pranzo con mia figlia che vive a pochi chilometri da qui, giusto per stare con il mio nipotino.” La donna guardò l’orologio. “Abbiamo tutto il tempo per parlare, senza che nessuno ci disturbi. Ti preparo qualcosa?” aggiunse per cercare di metterla a proprio agio.
La ragazza non riusciva a capacitarsi come una signora dai modi pacati, piena di premure e di istinti materni, fosse stata capace di documentare in maniera cruda le proprie prestazioni sessuali.
“Non ho bisogno di nulla, ma solo di fare la sua conoscenza, parlare con lei, sapere di mio padre,” rispose Ilaria.
Tutte le donne che avevano avuto relazioni sentimentali con il padre Ilaria le sentiva vicine; era stato così per Laura ed ora stava accadendo la stessa cosa con Patrizia.
“Dammi del tu e chiamami per nome. Sei la figlia di Jeanpierre,” la interruppe la donna. “Ora che osservo il tuo viso, vi scorgo la sua espressione. Lo sguardo e il sorriso sono tutti di tuo padre. È difficile incontrare un uomo come lui: onesto, altruista, pronto a sacrificarsi per aiutare gli altri. Io ho avuto questa fortuna.”
“Toglimi il dubbio che mi assilla da quando sei apparsa sul vialetto del giardino,” l’interruppe la ragazza. “Tu conoscevi i due coniugi con cui mio padre ha trascorso quel tragico pomeriggio?”
La donna volse lo sguardo altrove, verso l’ampia finestra che dava sul giardino per nascondere un moto di commozione. Ilaria intuì dall’espressione del viso che li conosceva e che stava cercando le parole giuste per rispondere.
“La moglie del chirurgo era la mia migliore amica; eravamo come sorelle,” disse con un filo di voce. “L’amicizia con Renata, questo il suo nome come saprai dai giornali, risaliva ai tempi del liceo. Sono stata io a fare le presentazioni con tuo padre. Perdere di colpo tre persone cui si voleva bene è un dolore così intenso difficile da sopportare,” continuò con tono di voce turbata. “Ecco la ragione della felicità che ho provato nel vederti. Ti avrei cercato io, ma sono lieta che sei stata tu a farlo, ponendo fine a tanti stupidi problemi d’opportunità che mi ponevo.”
Finalmente Ilaria aveva trovato la persona giusta che poteva fare chiarezza su molti aspetti dell’oscura vicenda.
“Ma tu sai qualcosa?”
“Solo supposizioni e l’assoluta certezza che Renata mai avrebbe potuto alzare un’arma contro i due uomini che amava più della sua vita. Ti racconterò tutto dall’inizio, dell’incontro del tutto casuale con tuo padre, legato alla passione che avevamo entrambi per la musica; dell’amicizia di Renata e del marito. E a proposito della cassetta, capirai da sola, quando avrai appreso tutti i particolari, che non si trattava di una registrazione per eccitare un’attempata amante, ma solo il grido disperato di una donna.”
“Ora prenderei qualcosa di caldo,” disse Ilaria rivolgendosi alla donna. “Un tè con un po’ di latte per me andrebbe bene.”
Patrizia
L’avvocato Otello Soldini aveva compiuto 63 anni e, come si suole dire, il tempo su di lui non era passato invano. Anzi chi conosceva la data di nascita, affermava che i suoi anni se li portava proprio male. Ventre prominente, doppio mento, calvizie incipiente, erano lì a dimostrare il degrado fisico dovuto alla vita sedentaria che conduceva. La sua forma sgraziata cercava di occultarla con abiti di sartoria, tagliati e cuciti su misura: spalle strette ed imbottite, pantaloni con le pince, particolari questi che contribuivano a migliorarne la figura, tanto che quando camminava per i corridoi delle aule di giustizia, con la borsa gonfia di carte, il suo aspetto non si discostava da quello di tanti suoi colleghi. La mattina al bagno, per colpa di quella maledetta pancia, doveva sporgersi in avanti per riuscire a vedere il suo pene.
“Sei sempre il solito, solo tu riesci a bagnare la tazza ogni volta che vai al bagno. Perché non ti siedi, se non riesci a fare la pipì nel water?” lo rimproverava la moglie Patrizia.
“Mi hai preso per una donna,” rispondeva infastidito.
La donna di cinque anni più giovane, dopo che le figlie si erano sposate, aveva da accudire solo il marito che con l’età, specialmente in casa, andava seguito in tutto, a dispetto dell’efficienza che mostrava sul lavoro. L’uomo soffriva d’ipertensione. Da 5 mg di Norvasc che prendeva la mattina era passato a 10 mg, e se non era la moglie che gli faceva trovare la scatola sul tavolo, lui si dimenticava di prendere la compressa. Seguiva anche una dieta iposodica, cui si era abituata la stessa Patrizia, ma tutte le volte che l’uomo, per questioni di lavoro, era costretto a mangiare fuori, gli sforzi della donna erano vanificati. Incurante delle ammonizioni mangiava e beveva a dismisura, trovando nel cibo una sorta di piacere da compensare quelli del sesso. Lui accusava la moglie che con gli anni, aveva perso l’entusiasmo di una volta, arrivando a paragonarla ad un pezzo di legno tutte le volte che ha letto cercava di possederla. L’uomo, della costellazione del toro, era convinto che, essendo nato sotto quel segno, avesse una lunga attività sessuale ancora da esprimere. Patrizia, dopo la menopausa, aveva bisogno di tenerezze, gesti gentili prima di fare all’amore. Lui, però, non era per i preliminari, lo ficcava dentro come sempre aveva fatto, senza assecondare la natura fisiologica della donna, cosicché tutte le volte che la penetrava, con la solita irruenza, le faceva male. Certo che la donna s’irrigidiva, era l’unica difesa che aveva per resistere agli sfregamenti che le provocavano arrossamenti e lacerazioni alle mucose della vagina. Era questa la ragione di certi suoi ostinati rifiuti. Aveva provato anche a farglielo capire, ma con scarsi risultati. Come poteva dirgli che la causa era solo sua, che si comportava da persona egoista, il cui unico scopo era di dimostrare a se stesso che riusciva ancora a scopare come un giovane, per esorcizzare la vecchiaia, mentre tutte le età hanno i loro frutti basta saperli cogliere?
Entrambi, però, avevano la passione per la musica. Lei, figlia di un violinista di un Ensemble da camera, aveva insegnato solfeggio in alcuni licei. Lui la passione per l’opera lirica gliela aveva trasmessa la madre, imponendogli persino il nome di Otello, come il personaggio dell’omonima opera Verdiana. Era orgoglioso di raccontare di avere ascoltato da bambino il grande Beniamino Gigli nel loggione del teatro cittadino. Per la musica avevano mantenuto intatto il gusto e la sensibilità, che con l’età si era accentuata. Erano i primi ad acquistare l’abbonamento ai concerti in programmazione, passione che coltivavano con gruppi d’amici con cui organizzavano trasferte nei maggiori teatri lirici italiani. Patrizia, quando si presentava al foyer del teatro, con l’abito lungo in décolleté, su cui spiccava la collana con tre giri di perle e la chiusura di smeraldi, che il marito le aveva donato per il decimo anniversario di matrimonio, era certamente una donna attraente, si capiva dagli sguardi che riceveva e dai complimenti che non erano di circostanza degli amici del marito. Certo gli anni erano trascorsi anche per lei, ma con una leggerezza tale da fare invidia a tante donne più giovani.
L’avvocato Soldini preparava una causa di separazione legale. La cliente, una quarantenne madre di un bambino, ogni volta che si recava in studio, gli raccontava tutti i particolari della sua esistenza, nemmeno fosse sdraiata sul lettino di uno psicanalista. Bastarono alcune parole affettuose da parte dell’uomo di legge, accompagnate da una carezza al termine della lettura del ricorso, che la donna non resistette all’impulso di trattenere quella ruvida mano per prolungare il contatto fisico, rendendo palesi i suoi sentimenti. Un po’ per gioco un po’ per curiosità, in ossequio al segno zodiacale del toro, lui si lasciò sedurre, più per pigrizia che per carattere. Frequentavano un localino caratteristico, a venti chilometri dalla città, dove, tra una portata e l’altra, sotto un pergolato di glicini, potevano, con tranquillità, riempirsi d’effusioni. L’uomo innamorato non lo era. Ma quando si è superati i sessant’anni, ci s’illude che una relazione con una donna più giovane, aiuti a rallentare il declino della propria esistenza; una sorta di scoglio cui aggrapparsi per non cadere nel baratro della vecchiaia. I loro incontri finivano inevitabilmente in una camera d’albergo, dove consumavano un asfittico rapporto, nella speranza inconfessata, che il successivo sarebbe stato migliore. Ad entrambi l’amplesso incuteva timore, alla donna perché tratteneva i propri impulsi per non prevaricare il maturo amante, all’uomo perché rendeva quell’atto di piacere, simile ad un esercizio fisico, per la fatica che faceva per arrivare sino in fondo. Le soddisfazioni migliori l’avvocato le raccoglieva quando poteva esibire la sua amante in pubblico. Gli sguardi compiaciuti d’uomini dai capelli brizzolati con mogli attempate al braccio erano una sorta di riconoscimento alle sue millantate capacità amatorie e valevano tutto il denaro che spendeva per la sua donna: un autentico soprammobile.
Era inevitabile che Patrizia si accorgesse che il marito avesse una relazione. Un profumo strano sulla pelle, alcuni appuntamenti saltati, la circostanza che avesse reagito in maniera esagerata ad un’osservazione su una sua presunta amante, che in altri momenti ci avrebbe riso sopra, avevano insospettito la donna. Una domenica mise il marito con le spalle al muro. Lui all’inizio negò tutto. Ma il bigliettino, che aveva accompagnato una confezione di profumo, incautamente dimenticata nella tasca interna del vestito da mandare in lavanderia, su cui era vergato con scrittura femminile la frase “Con affetto”, l’inchiodava senza appello. L’uomo non seppe improvvisare una giustificazione credibile. Nelle pause, troppo lunghe, tra le domande incalzanti della donna e le risposte che forniva, c’era tutta l’ammissione della sua colpa. Lui giurò che l’unica donna che contasse nella sua vita fosse lei. Era vittima di un’infatuazione che come una malattia gli aveva invaso mente e corpo. Anzi se lei lo amava veramente, doveva aiutarlo a superare il difficile momento. Chiedeva un po’ di tempo per raccogliere le forze prima d’interrompere la relazione, solo per evitare gesti inconsulti con sofferenze ancor più gravi. La donna lo conosceva bene, da lei avrebbe voluto il consenso per continuare la relazione al riparo del tetto coniugale.
“Tu vorresti che ti facessi da serva, da infermiera, persino da mamma,” sbottò con veemenza la moglie. “Su di me vorresti scaricare la parte più pesante del matrimonio, relegarmi all’interno delle mura domestiche, mentre le cene al lume di candela o le serate danzanti (aveva trovato nelle tasche scontrini di una discoteca), l’aspetto brillante della vita di coppia, lo faresti con l’altra. Credi che una moglie sia come un vestito che si possa cambiare indifferentemente secondo le circostanze? Non pensi che io abbia un po’ di dignità. Cosa ti fa credere che io possa accettare una proposta simile? Sei un avvocato! Analizza i fatti, non come persona coinvolta, ma con sguardo professionale. Che consigli daresti ad una cliente che ti sottoponesse un caso analogo al nostro?”
“Lascia perdere certi discorsi, qui si parla della nostra vita,” cercò di giustificarsi l’uomo.
“Sì della nostra vita, appunto,” tagliò corto la donna. “Ascolta bene quello che ti dico o lasci quella donna, oppure prendi le valigie ed esci da questa casa.. Subito!”
L’avvocato Soldini non seppe cosa rispondere. Trovò solo il coraggio di aprire la porta ed uscire. La sera non ritornò a casa. Trascorse la notte tra le braccia dell’amante, senza riuscire a fare l’amore per l’agitazione.
I giorni seguenti, con l’aiuto delle figlie, fu sottoscritto un accordo, le cui clausole prevedevano la corresponsione alla moglie di un assegno mensile e l’uso dell’abitazione in cambio di una tregua di tre mesi.
Patrizia si abituò presto alla ritrovata libertà, senza l’impegno del marito aveva riscoperto piccoli piaceri, come passeggiare per le vie del centro, fermarsi a far colazione seduta al bar, sfogliando il giornale, senza l’assillo della spesa e dell’orologio. Per meglio occupare le ore della giornata, frequentava un centro di bellezza dove praticavano sauna e massaggi. Anche se le linee del corpo si erano arrotondate e i seni leggermente ingrossati, il peso forma, in base all’età e all’altezza, era preciso a quello stampigliato nella tabella dietetica appesa alla parete dove si esercitava agli attrezzi, ascoltando sulle cuffiette del Walkman la musica barocca di Henry Purcell. Guardò l’orologio erano le sedici: aveva il tempo ancora per andare dal parrucchiere e farsi bella per il concerto della sera.
L’ingresso del teatro era gremito di gente. Per l’apertura della stagione sinfonica in cartellone spiccava il nome di un celebre pianista di fama mondiale, con un programma che soddisfaceva anche i palati più raffinati: Chopin, Schubert, Bach. Di quest’ultimo erano previste le variazioni Goldberg, che Jeanpierre non aveva mai ascoltato dal vivo ed era curioso di confrontare l’esecuzione con quella del suo vecchio disco di vinile, un regalo di Adriana nei primi anni di matrimonio. La musica ancora una volta era il mezzo attraverso il quale riusciva a comunicare con la moglie. Non aveva acquistato il biglietto, per un impegno di lavoro fuori città. Invece all’ultimo momento l’incontro era saltato. Lui si era precipitato al botteghino per riuscire ad accaparrarsi un biglietto dei pochi rimasti, messi in vendita, mezzora prima dell’inizio dello spettacolo. La folla sembrava impazzita, colti dalla frenesia dell’evento mondano, tutti volevano assistere allo spettacolo molto pubblicizzato dalla stampa locale. Anche l’emittente di Laura, aveva dedicato all’evento un servizio, accompagnato con le variazioni bachiane, su suggerimento di Jeanpierre. L’uomo cercava di farsi largo tra la gente, incurante di dare o ricevere spintoni per arrivare all’agognata meta. Era come se di là delle tende di velluto rosso ci fosse la sua Adriana a tenergli il posto e lui doveva raggiungerla. Una donna in abito lungo cercava di sottrarsi alla calca, era stata risucchiata dalla folla mentre se ne stava in disparte non distante dalla biglietteria. L’urto con Jeanpierre, che le voltava le spalle, fu inevitabile.
“Chiedo scusa,” si affrettò a dire l’uomo per l’involontario gesto, voltandosi verso la donna.
L’uomo fu come colpito da una visione. Quel volto, l’acconciatura dei capelli, persino le sottili rughe intorno agli occhi, tutto gli ricordava Adriana. Incapace d’ogni movimento, l’espressione di meraviglia del suo viso misto a stupore parlò per lui.
“Ma dove sei stata per tutto questo tempo. Perché mi hai lasciato solo. Ti ho cercato in tutti i luoghi e tu eri qui nel foyer del teatro. Finalmente ti ho ritrovata. Stammi vicino che non voglio più perderti!” sembrava volerle dire con quello sguardo insistente.
“Non si sente bene?” domandò Patrizia.
L’uomo non udì le parole della donna. La sua mente era altrove.
“Ha bisogno d’aiuto,” insistette la donna toccandogli il braccio.
Fece appena in tempo a scuotere il capo, perché la folla lo aveva spinto oltre.
“Siamo piacenti ma i biglietti sono terminati.”
Fu la voce stridula della signora della cassa, mentre esponeva il cartello del tutto esaurito, a riportarlo alla realtà.
“Devo acquistarne uno a tutti i costi,” pensò tra sé l’uomo. “Me ne potreste cedere uno. Ve lo pago bene,” provò a chiedere ad un signore poco più avanti, che esibiva gongolante diversi biglietti acquistati, sgomitando più degli altri.
“Non vede quanti siamo,” rispose l’uomo indicando alcune persone appoggiate ad una delle colonne dell’ingresso che gli facevano cenno di affrettarsi.
La folla di fronte al botteghino si era dispersa. Patrizia era rimasta nel punto in cui Jeanpierre l’aveva lasciata. Stringeva con entrambe le mani una piccola borsa a forma di busta, osservando l’uomo che stava venendo nella sua direzione.
“Non ci sono riuscito,” disse Jeanpierre, rivolto alla donna, come per cercare di giustificare la goffa condotta di prima.
“Ci tenevate molto ad assistere allo spettacolo?”
“Molto, ma la colpa è solo mia. Dovevo decidermi prima e non all’ultimo momento.”
Ora l’uomo aveva riacquistato la solita lucidità. La donna ad osservarla meglio non era poi tanto somigliante alla sua Adriana.
“Ci siamo conosciuti da qualche parte?” chiese Patrizia, a causa degli sguardi insistenti che l’uomo le aveva rivolto.
“Le chiedo scusa per il mio comportamento, per un attimo, l’avevo scambiata per una persona a me molto cara.”
“Capisco,” disse la donna. “Non vorrei essere invadente. Nella borsa ho l’abbonamento di mio marito. Credo che per lui la stagione sinfonica sia finita ancor prima di cominciare. Se a voi non secca fare compagnia ad una signora, posso cedervi il suo abbonamento.”
“Non immaginate quale favore mi fate. Lo accetto alla condizione di potervi rimborsare l’esatto importo.”
“La stagione sinfonica è appena iniziata. Avremo modo di regolarizzare i nostri conti. Avete detto prima che vi ricordavo una persona a voi cara. Faccia finta che sia stata quella persona a donarvi l’abbonamento. Io sono Patrizia,” disse la donna porgendogli la mano.
“Io sono Jeanpierre. Gli amici mi conoscono tutti con questo nome che mi porto dietro dal tempo dell’università.”
“Sono lusingata che posso chiamarla come i suoi amici, allora tanto vale darci del tu.”
“Sono d’accordo,” disse Jeanpierre sorridendo, mentre nell’atrio riecheggiava il suono della campana.
“Dobbiamo affrettarci a prendere i posti, questa è la seconda chiamata,” l’incalzò la donna.
Anche le persone che erano a fumare in strada, si precipitarono nel foyer con in mozziconi in mano che spegnevano nei vasi di sabbia posti all’ingresso del teatro, non prima di aver fatto l’ultima boccata, alla maniera di quei sub che, prima dell’apnea, si riempiono i polmoni d’aria.
“Abbiamo un palco nel secondo ordine, in posizione quasi centrale che condividiamo con una coppia di nostri amici, marito e moglie,” disse Patrizia. “Ecco è proprio questo,” continuò scostando i pesanti tendaggi. “Siamo soli questa sera!” esclamò meravigliata vedendo il palco vuoto. “Il marito fa il chirurgo, forse è stato chiamato in clinica e la moglie non ama uscire senza di lui.
La preparazione di Patrizia in campo musicale era notevole. Conosceva dei brani in programma persino le circostanze che avevano ispirato la composizione. Apprese così che l’aria, con le diverse variazioni per clavicembalo, fu commissionata a Bach da un suo allievo, un certo Goldberg, per alleviare l’insonnia di un conte al cui servizio si trovava. Le luci si abbassarono; il brusio si acquietò. Un applauso si levò dalla sala, cui si unirono Jeanpierre e Patrizia per accompagnare l’ingresso del pianista che s’inchinò verso il pubblico prima di sedersi. Ci fu un momento di silenzio e le note dell’aria che fungeva da tema per le successive variazioni avvolsero l’intero teatro, dall’acustica perfetta. Jeanpierre chiuse gli occhi, trasportato dalla musica che gli accendeva teneri ricordi.
La mattina successiva Jeanpierre entrò nel negozio di fiori, un isolato dal suo studio, dove una volta acquistava omaggi floreali per la moglie. Dopo la sua morte non vi aveva messo più piede e il fioraio, nel vederlo entrare, gli tributò un gran sorriso, che lui ricambiò con un cenno della mano. In quei semplici gesti c’era tutta la ritrovata intesa di un tempo.
“Sono delle magnifiche rose Alexander,” si affrettò a dire per l’interesse che l’uomo mostrava per i fiori esposti in vetrina. “Fiammeggianti come il fuoco,” aggiunse.
Jeanpierre voleva sdebitarsi con Patrizia e visto che il denaro non era merce di scambio, un mazzo di fiori era un buon viatico per suggellare un’amicizia, legata esclusivamente alla passione che entrambi avevano per la musica.
“Ne voglio trenta,” disse Jeanpierre. “Avete un biglietto per scrivere?”
“Sul bancone c’è tutto l’occorrente.”
“Una rosa per ogni variazione Goldberg. Grazie per la magnifica serata,” aveva scritto con minuta calligrafia sul cartoncino.
“Canti sacri e profani” era il titolo del successivo appuntamento previsto in cartellone. Jeanpierre arrivò in anticipo. Non voleva far trovare Patrizia nella situazione della volta precedente, sola nel gran foyer, tra gente distratta. La vide arrivare, poco dopo, con gli amici con cui condivideva il palco. Patrizia, quella sera era ancora più bella, teneva il braccio del chirurgo, mentre questi stringeva a sé Renata, la moglie, come se volesse rendere evidente l’amore che nutriva per quest’ultima. Le due donne sorridevano per una frase pronunciata dall’uomo. Nei loro sguardi, nell’incidere, nel modo che avevano di agire, c’era una totale adesione al modo di fare del loro cavaliere. Jeanpierre si celò dietro la colonna dell’atrio, per non intromettersi nei loro discorsi. Si limitò a seguirli con lo sguardo per coglierne i gesti: i segnali deboli come lui li chiamava. Le due amiche si confidavano ogni segreto dal tempo del ginnasio, quando frotte d’adolescenti le correvano dietro per la loro bellezza. Renata sapeva del momento difficile che l’amica stava attraversando. Patrizia, benché avesse sentimenti d’ostilità nei confronti del marito, continuava a preoccuparsi della sua salute. Con il fisico malandato che aveva, poteva essergli fatale correre dietro ad un’amante più giovane. I tre mesi che gli aveva concesso per riflettere era un tempo troppo lungo. L’uomo era pur sempre il padre delle figlie e se gli fosse accaduto qualcosa, non se lo sarebbe mai perdonato. Non sapeva ancora cosa fare, ma la presenza di Jeanpierre, le sembrò un aiuto inatteso. Lo vide appoggiato alla colonna del foyer e immediatamente si staccò dal braccio del chirurgo.
“Non dovevi disturbarti con le rose,” le sussurrò Patrizia, scuotendo la testa con la leggerezza di chi vuole esprimere gradimento e sorpresa nello stesso tempo.
L’uomo le sfiorò la mano con le labbra, gesto galante che sostituiva ogni qualsivoglia frase di risposta, tanto da turbare Patrizia, che si affrettò a dire:
“Vieni: ti presento i miei amici.”
“Sono Adalberto,” disse l’uomo stringendo con entrambe le mani quella di Jeanpierre. “Benvenuto tra noi, inguaribili melomani che hanno bisogno della musica come dell’aria che respirano,” continuò con voce di chi sta decantando versi. “Siamo come dei naufraghi su una zattera in un mare di rumori assordanti, che cercano oasi di pace in serate come questa.”
“Io sono Renata: la moglie. Non lo prenda sul serio, vuole solo stupirla,” s’intromise la donna, stringendogli la mano.
“Quando sono in un teatro, più che un naufrago, mi sento un argonauta alla ricerca del vello d’oro,” gli fece eco Jeanpierre, sorridendo, che, capita l’antifona, cercava di restituirgli una battuta all’altezza della sua.
“Bene, molto bene novello Giasone!” esclamò Adalberto. “Sono convinto che diventeremo ottimi amici. Perdere il concerto che apriva la stagione sinfonica ci ha molto rammaricato,” continuò toccandosi i capelli bianchi tagliati a spazzola, un vezzo che aveva quando formulava pensieri che lo contrariavano.
“E io le sono grata per aver fatto compagnia alla nostra cara amica,” aggiunse Renata, avvicinandosi al marito.
Adalberto era così innamorato della moglie, da riempirla di premure così eccessive tanto da mettere in imbarazzo la stessa donna, che lo ripagava con identica devozione.
Jeanpierre si trovò subito a suo agio con quelle persone. Sembravano amici di vecchia data e invece si conoscevano da pochi minuti. S’incamminarono al suono della campana, seguendo la guida di panno rosso che attutiva i passi. Renata e Patrizia si sedettero con i gomiti appoggiati alla balaustra del palco per osservare meglio il pubblico in platea, mentre Jeanpierre e Adalberto presero posto sugli sgabelli, in posizione arretrata. Il programma della serata prevedeva l’esecuzione di brani sacri e profani del Medioevo e del Rinascimento, tratti non solo dal repertorio benedettino e cistercense ma anche sefardita ed ebraico. I musicisti si avvalevano di strumenti originali con un’impronta sonora di stampo orientale. Ed era una musica che esprimeva bene il loro stato d’animo, carico di promettenti attese.
Il telefono sulla scrivania nello studio di Jeanpierre suonava insistentemente. L’uomo per abitudine alzava la cornetta tra il quarto e il quinto squillo, semplicemente per dare l’impressione a chi stava dall’altra parte del filo di essere impegnato, così da stimolarlo a non dilungarsi in inutili discorsi. Conosceva alcuni colleghi che dopo alzata la cornetta, continuavano a parlare incuranti che la persona stesse ascoltando, ma l’effetto d’intimorire l’interlocutore era assicurato.
“Pronto,” disse Jeanpierre con tono sostenuto.
“Sono Adalberto. Ho letto sul giornale che venerdì prossimo c’è la ripresa del Lohengrin di Wagner. Mi sono collegato al sito internet della Scala di Milano. Ci sono ancora dei posti disponibili. Se sei d’accordo confermo la prenotazione per quattro persone.”
L’uomo rimase perplesso per l’inaspettata richiesta.
“Questo silenzio significa che hai delle difficoltà a venire?” l’incalzò Adalberto.
“Sto consultando l’agenda,” continuò con voce dubbiosa.
Jeanpierre avrebbe voluto andarci con Laura, ma il venerdì era uno dei giorni in cui la donna aveva la diretta televisiva.
“Ho diversi impegni,” continuò per temporeggiare, non sapendo se faceva bene ad andare.
“Cerca di rinviarli, anch’io avevo delle visite e le ho fatte spostare. Sono riuscito a convincere Patrizia, e tu sai quanto abbia bisogno di distrarsi la nostra amica. Partiamo venerdì mattina con la mia auto. La sera dormiamo in albergo e sabato, con tutta calma, siamo di nuovo a casa. Se mi dici di sì, confermo la prenotazione.”
“Va bene, da tempo desideravo assistere dal vivo ad un’opera di Wagner: il momento finalmente sembra giunto,” rispose Jeanpierre, convinto che Laura non avrebbe avuto nulla da ridire. La donna non riusciva ad apprezzare Puccini, anche se canticchiava le sue più famose arie, figuriamoci se avrebbe sopportato un’opera in lingua tedesca.
Adalberto, la sera dello spettacolo alla Scala, indossava un vestito blu di morbido tessuto cachemire, che metteva in risalto la sua figura atletica. Nonostante i suoi 65 anni, praticava ancora lo sci. Per le discese di Cervinia, Renata non riusciva a stargli dietro. Si districava in quelle ragnatele di piste come un’esperta guida alpina.
Aveva prenotato una camera matrimoniale e due singole in un albergo vicino al teatro. “Però se volete dormire insieme, non mi scandalizzo,” aveva detto al rientro dello spettacolo che s’era concluso a notte tarda.
“Che cosa dici?” saltò su Patrizia schernendosi. “Jeanpierre, non badare a quello che dice, Adalberto ha sempre voglia di scherzare,” poi rivolta a quest’ultimo continuò: “Un uomo come lui guarda donne più giovani di me: non ti sembra?”
“Non ti sottovalutare,” l’interruppe il chirurgo. “Sei una donna piena di fascino. Questa sera sembri una principessa. Non è vero Renata che la nostra Patrizia è incantevole?” continuò guidandola per mano, come se stessero facendo un passo di danza verso l’amico fermo di fronte alla porta dell’ascensore che portava alle camere.
“Patrizia mi ha colpito dal primo momento che mi è apparsa nel foyer del teatro,” si giustificò Jeanpierre che escludeva qualsiasi coinvolgimento emotivo con la donna. “Per lei nutro una profonda simpatia,” continuò, baciandole la mano in segno di cortesia.
La donna, nel sentire le labbra dell’uomo sfiorarle le dita diventò rossa, e dovette faticare per dissimulare l’improvvisa emozione.
“Dopo uno spettacolo di quattro ore, ho solo bisogno di un buon letto,” sentenziò la donna scostando la mano.
“Sì forse hai ragione tu,” le fece eco Adalberto che aveva sperato sino all’ultimo che tra i due potesse nascere una storia. “È proprio il caso di andare a letto.”
La mattina dormirono sino a tardi e prima di partire, in Piazza Duomo, Jeanpierre acquistò per Laura la borsa di Chanel.
Il programma del successivo incontro prevedeva lieder di Shubert, Brahms, Mahler, e altre celebri arie tratte da opere del repertorio ottocentesco italiano, eseguite da una promettente soprano di agilità, vincitrice di un concorso per voci verdiane. Jeanpierre arrivò in ritardo quella sera. Gli amici, nel palco, avevano già occupato i rispettivi posti.
“Credevamo che non venissi,” l’apostrofò Patrizia.
“Una serata come questa è impossibile non essere presenti,” rispose l’uomo.
“Che cosa hai in mano?” chiese Adalberto, vedendo che stringeva una piccola borsa.
“È una sorpresa,” continuò, aprendo la custodia di pelle.
“È forse un registratore?” provò ad indovinare Renata.
“No, è una telecamera digitale. Ho fatto delle prove e vi assicuro sia il sonoro sia la qualità delle immagini sono eccellenti,” disse con malcelato orgoglio, omettendo di informare che si trattava di un regalo di Laura. “Da questo punto l’acustica è ottima,” continuò appoggiando la piccola macchina sul davanzale del palco. “Quando si accende la lucina rossa,” si affrettò a dire, indicando la spia sopra l’obiettivo, “Occorre fare silenzio per non disturbare la registrazione.”
Jeanpierre si sedette accanto a Patrizia. Nessuno dei due spostò le gambe che, per tutta la durata dell’esibizione, rimasero incollate l’una all’altra.
Fu Adalberto che insistette a volere rivedere la registrazione in casa di Jeanpierre e, come il solito, aveva suggerito un giorno in cui Laura era impegnata alla televisione. Sembrava che il chirurgo con calcolata determinazione, facesse di tutto per evitare di conoscerla. Jeanpierre ormai era certo, in quella sorte di cenacolo erano ammesse solo persone che condividevano identica passione musicale. La stessa Laura aveva accettato questa rigida separazione. D’altronde anche lei aveva un’intensa vita sociale legata al mondo televisivo che escludeva Jeanpierre, e che la vedeva sovente impegnata in cene di lavoro, o in incontri mondani, sempre alla ricerca d’ospiti per le sue trasmissioni. Lei, inoltre, non sopportava le loro discussioni sui soprani drammatici, leggeri; sul colore della voce di un tenore rispetto ad un altro. Laura se la prendeva anche con i loggionisti, i quali coprivano di selve di fischi quei cantanti lirici che avevano la sfortuna di non prendere la nota giusta, come se tutti avessero lo spartito sotto gli occhi per accorgersene. No, quando Jeanpierre andava a teatro, lei preferiva trascorrere le serate con gli amici del piano bar ad ascoltare Jazz, dove dello stesso brano non c’era un’esecuzione uguale alla precedente, a differenza della musica classica troppo ingessata per i suoi gusti.
Il cielo si era fatto improvvisamente scuro. Un lampo, seguito da un tuono, aveva squarciato l’aria, da far vibrare i vetri dell’auto di Patrizia. Percorrere una strada di campagna in macchina durante un temporale le procurava una sensazione d’euforia. Non capiva se per il fatto di essere al sicuro all’interno dell’abitacolo mentre fuori la pioggia cadeva forte, o se perché stava recandosi da Jeanpierre, sola, senza gli amici, rimasti in città per degli impegni di Adalberto. Accarezzava un’idea, e se Jeanpierre fosse stato d’accordo di metterla in pratica, avrebbe dato uno scossone all’ambigua situazione che si era creata con il marito. Le era diventato insopportabile che l’uomo vivesse con l’amante, mentre lei doveva attendere che lui risolvesse i suoi dubbi esistenziali. Tutto ciò feriva la sua dignità e di donna e di persona.
Arrestò la macchina di fronte al cancello su cui spiccava una maiolica smaltata con la scritta “Casa degli elci”. Il cancello automatico comandato a distanza si aprì e lei imboccò il vialetto lastricato, lucido di pioggia.
“Sei sola?” disse Jeanpierre appena la donna fu scesa dalla macchina.
“Sì; Adalberto è dovuto rientrare in clinica,” rispose Patrizia per giustificarsi. “Ma se vuoi ritorno un altro giorno, quando ci sono anche i nostri amici.”
“Non dirlo nemmeno per scherzo,” l’interruppe l’uomo trascinandola sotto l’ombrello per non farla bagnare.
Avvertì subito il profumo della donna che docilmente si lasciava guidare verso l’ingresso socchiuso dell’abitazione.
“E’ molto bello qui,” disse appena furono in casa.
“Mi dispiace che la pioggia non ci permetta di passeggiare per la campagna.”
“Sarà per un’altra occasione.”
“Ti faccio strada,” continuò l’uomo, con fare premuroso, conducendola nel grande soggiorno, la cui porta a vetri dava sul prato delimitato da cespugli di viburno carichi di bacche violacee.”
“Osservare la pioggia cadere è uno dei pochi spettacoli della natura che mi riempie d’emozioni,” continuò Patrizia con il viso appoggiato al vetro.
“Ti preparo qualcosa da bere.”
“No: non ho bisogno di nulla.”
“La cassetta è nel video registratore.”
“Non sono venuta per questo,” continuò la donna con un tono di voce che tradiva una certa emozione. “Avremo occasione di vederla un altro giorno, con gli altri. Ora devo parlarti.”
“Non fare quella faccia seria, altrimenti mi preoccupi. Abbiamo tutto il tempo per discutere.” L’uomo riusciva a leggere nell’animo della donna, cogliendone ogni sfumatura. “Vieni ti faccio vedere la casa,” disse prendendola sottobraccio.
Patrizia entrava in ogni stanza, sotto lo sguardo divertito dell’uomo, con l’intento di conoscere attraverso la disposizione degli arredi aspetti della sua personalità. Ignorava che la casa rispecchiava il gusto della moglie Adriana, la quale aveva curato ogni particolare. La libreria occupava tutta la parete dell’ampio soggiorno. Molto spazio era riservato ai libri, suddivisi per genere e per autore. Ma le raccolte di dischi di vinile, di compact e di nastri registrati, la lasciarono esterrefatta; sotto i suoi occhi, scorrendo i titoli, c’era la storia della musica: Trovatori, Carmina Burana, Polifonia, Ars antiqua, Orlando di Lasso, Madrigalisti italiani, Claudio Monteverdi, Scuole barocche, Classicismo, Romanticismo, sino ad arrivare al Novecento e alle esperienze contemporanee. Patrizia, durante gli anni d’insegnamento, si era confrontata con quegli autori. Di colpo l’uomo che sentiva dietro le spalle perse tutta la sua fisicità e divenne spirito. Fu la sua anima ad abbracciare quella di lui. Le loro bocche s’incollarono e diventarono un’unica entità. Jeanpierre l’amò intensamente. Conosceva la sensibilità delle donne come Patrizia che avevano bisogno di carezze, gesti affettuosi, solo dopo si sarebbero donate completamente, come avvenne quel pomeriggio con la pioggia che batteva tutto intorno e tra le braccia dell’uomo, acquistò di nuovo fiducia in se stessa.
“Cosa dovevi dirmi di tanto importante,” disse Jeanpierre, uscendo dalla doccia.
“Un’altra volta. Ora, ho solo bisogno di silenzio.”
La campagna intorno alla Casa degli elci, dopo i violenti temporali che si erano abbattuti nei giorni precedenti risplendeva nella luce del tramonto. Jeanpierre e Patrizia stavano risalendo un vecchio tratturo per greggi, ora percorso da giovani sportivi che, in sella alle loro mountain-bike si esibivano in acrobatiche discese. L’uomo attraversò uno dei cancelli secondari, situati lungo il perimetro della proprietà, circondato da cespugli di ginestra. Patrizia lo osservava nel suo lento incedere per cogliere dall’espressione del viso se ci fossero ripensamenti a ciò che si apprestavano a compiere. L’insolita richiesta aveva colto di sorpresa l’uomo; non avrebbe mai immaginato che la donna fosse determinata sino a quel punto. Avevano discusso a lungo, anche soluzioni alternative per superare le molte perplessità, ma poi Jeanpierre, che nutriva sentimenti di simpatia per la donna, aveva accettato d’aiutarla.
“Vedi Jeanpierre,” esordì Patrizia. “La domanda che ricorre sovente nella mia mente, perché un uomo maturo, come mio marito, senta l’esigenza di correre dietro ad una donna giovane, buttando all’aria trent’anni di matrimonio? Che cosa può dare di più una giovane, rispetto alla propria moglie, se al buio tutte le donne sono uguali?” disse ironicamente.
“Hai citato Plutarco,” sorrise Jeanpierre.
“Non scherzare, la domanda può apparire banale, ma se ci rifletti bene non lo è per niente,” sospirò sconsolata la donna. “Perché gli uomini sentono il bisogno d’avere amanti giovani e nelle donne non c’è la stessa esigenza?”
Questi erano i discorsi che piacevano a Jeanpierre, gli stessi che sovente faceva con Adriana, durante le passeggiate in giardino, ecco perché era così disponibile a parlarne.
“Sicuramente alla base di tutto c’è un istinto atavico dell’uomo, legato alla sopravvivenza della specie, che può essere garantita solo attraverso una femmina giovane, anche in presenza di un maschio maturo,” disse Jeanpierre, la cui cultura spaziava anche nel campo dell’antropologia, per certe letture giovanili. “Nella donna quest’istinto atavico non esiste. Non potendo più procreare col sopraggiungere della menopausa, accoppiarsi con un maschio giovane o maturo per lei è indifferente.”
“E questo spiegherebbe perché questi comportamenti sono comuni negli uomini e meno nelle donne,” l’incalzò Patrizia.
“Ora però il punto è un altro,” continuò Jeanpierre. “Perché gli uomini sentono il bisogno di un’amante giovane se lo scopo non è quello della procreazione? Quali sono, oggi, le vere motivazioni che stanno dietro questo desiderio ancestrale?”
“Hai proprio ragione,” l’interruppe Patrizia. “Ma non riesco a trovare giustificazioni convincenti che vadano al di là di certi luoghi comuni.”
“Diciamoli questi luoghi comuni; servono a capire meglio i termini della nostra discussione,” ribatté l’uomo con modi decisi.
“Petto prominente, fianchi tondi, vita snella e…” Patrizia s’interruppe e sorridendo esclamò: “ Ma Jeanpierre elenca tu i requisiti che ti piacciono nelle donne, sei tu l’uomo!”
“Sono sufficienti quelli che hai pronunciato. Non hai fatto altro che elencare caratteristiche, che alla prima occhiata consentono al maschio di capire se la femmina è in grado di procreare. Come vedi siamo ritornati al punto di partenza.”
“E allora?” disse Patrizia sconsolata. “Qual è la ragione che spinge l’uomo moderno a ricercare nell’atto sessuale femmine giovani, se il fine non è più la procreazione?”
“L’unica parola che mi viene in mente è: DOMINIO. Per me è solo una questione di dominio,” sentenziò con voce dottorale, annuendo con il capo. “Nel momento in cui l’uomo, nell’ambito dei rapporti famigliari non può esercitare il proprio dominio, rivolge le attenzioni altrove.”
“Non riesco a seguirti,” saltò su la donna. “Ho bisogno di spiegazioni chiare, non di concetti astratti.”
“Sarò più chiaro. Tuo marito si è fatto l’amante nel momento in cui non riusciva più a soddisfarti a letto. Il dominio esercitato attraverso il sesso presuppone la soddisfazione reciproca durante l’amplesso. Il fatto che tu lo rifiutavi, perché incapace di appagarti sessualmente, ha messo in crisi la sua capacità di maschio. Tu avevi acquisito più potere rispetto a lui. In altri termini lui non aveva più il dominio su di te. Ecco perché lui si è lasciato sedurre con la puerile convinzione che accoppiarsi con una giovane sarebbe stato più facile soddisfarla e quindi assoggettarla al proprio dominio. In fondo gli uomini che vanno alla ricerca continua di donne giovani, sono in perenne fuga dalle loro responsabilità. Regrediscono sino a ritornare bambini. Ed è in questo contesto che si riescono a spiegare fatti patologici come la pedofilia, che non è altro il desiderio di esercitare il dominio totale su un altro individuo.”
“Quindi secondo te, gli uomini preferiscono donne giovani semplicemente perché ritengono che siano più facili da gestire?”
“Ora tu stai banalizzando il concetto, però la sostanza è un po’ questa.”
“Più facili da soddisfare, da sottomettere, più portate a prendere ordini che a darli,” ripeteva la donna maliziosamente. “In questo hai perfettamente ragione. É più facile avere a che fare con una giovane che con un’adulta dalle idee chiare, specialmente se questa è la moglie, che del proprio uomo conosce ogni debolezza.”
“Sì, a loro fa paura questo essere messo completamente a nudo, si sentono vulnerabili, e di conseguenza perdono le caratteristiche del maschio dominante.”
Patrizia ripercorreva con la mente l’ultimo periodo della sua vita coniugale per coglierne gli elementi che Jeanpierre aveva evidenziato. Doveva riconoscere che la sua teoria le permetteva di comprendere meglio la personalità del marito. Il rapporto di coppia era andato in crisi quando l’uomo nell’ambito famigliare si era limitato ad esercitare un semplice ruolo gregario. Doveva ammettere che le donne avevano una crescita, mentale e psichica, molto più equilibrata degli uomini, che con la vecchiaia perdevano il senso della realtà.
Da quel punto era visibile il retro della casa e i muretti di pietra che delimitavano i belvedere che si affacciavano nella valle sottostante.
Entrarono nel soggiorno attraverso la porta a vetri che dava sul giardino. Guardavano la stanza come se la vedessero per la prima volta.
Sì,” disse la donna. “Questo è il luogo adatto.”
L’uomo annuì con il capo, accendendo la telecamera.
“Faremo bene,” disse la donna colta da un ripensamento.
“E’ difficile dirlo, ma è sempre meglio agire, che illudersi che siano glia altri a risolvere i nostri problemi,” rispose mentre osservava attraverso il monitor per scegliere l’angolazione di ripresa adatta.
Il giorno successivo Patrizia si recò nello studio del marito. Indossava un tailleur dai colori tenui con la collana di perle che lui le aveva donato. Bastava questo a capire quali fossero le sue reali intenzioni, anche se l’espressione del viso appariva tesa per l’emozione. L’uomo si era alzato dalla scrivania per andarle incontro appena la segretaria aveva annunciato la sua presenza. Forse perché non la sentiva da alcune settimane, ma le procurò un intenso piacere vedersela davanti. Mai le era apparsa così bella. Sembrava cambiata, quasi un’altra persona.
“Accomodati,” disse prendendole la mano.
La donna aveva curato ogni aspetto del suo abbigliamento. Era stata persino dal parrucchiere per far colpo sul marito, che invece aveva un’aria dimessa, insolita per uno come lui che in studio sprizzava efficienza da tutti i pori. Non capiva se la causa fosse dovuta alla poca salute o se l’amante non si prendesse cura di lui in modo appropriato. Le fece pena. Si sentì lei la persona forte ed era quasi indecisa se portare avanti il suo piano.
“Qual è la ragione della visita?”
“Non credi che sia giunto il momento di smetterla di farci del male.”
“Senti Patrizia, cambiamo argomento. Conosci il nostro accordo; ne riparleremo tra un mese. Se ti occorre del denaro sono a tua disposizione, ma in questo momento non chiedermi altro.”
“La tua amante ti condiziona sino a questo punto, tanto da non riuscire a parlare serenamente con tua moglie senza arrabbiarti?”
“Ti prego non intrometterti, stiamo ai patti: rispetta la tregua. Non ho voglia di ascoltare scenate di gelosia.”
“Scenate di gelosia?” ripeté la donna. “Quando smetterai di sottovalutare i sentimenti degli altri.”
“Sei venuta per litigare?
“No, sono venuto per farti un regalo,” disse aprendo la borsa che teneva sulle ginocchia.
L’uomo non riusciva a comprendere le intenzioni della donna. Seguiva i suoi movimenti, con la stessa apprensione di chi si aspetti un gesto inconsulto. Quando vide che l’oggetto che teneva in mano non era un’arma d’offesa, tirò un sospiro di sollievo, scambiato dalla moglie per insofferenza.
“Non ti spazientire, ti rubo solo poco tempo. Come potrai costatare, vedendo questa cassetta, anch’io sono capace di fare certe cose, con un partner giovane. Io credo nel nostro matrimonio. Sono disposta a rinunciare a tutto, ma questo lo devi fare anche tu,” disse, lasciando il nastro sulla scrivania.
“Tu stai mentendo, non ci credo,” disse il marito, come se fosse impossibile che la moglie potesse averla tradita.
“È proprio perché non sono abituata a mentire che non mi va di avere una relazione tra mille sotterfugi. Guardati questa cassetta, così mi dirai se le nostre strade dovranno dividersi definitivamente buttando all’aria più di trent’anni di vita in comune, oppure c’è la possibilità di rimettere insieme il nostro matrimonio. Ti prego di riflettere attentamente su quello che deciderai, perché poi non ci saranno prove d’appello.”
L’avvocato non aveva mai sentito parlare la moglie con quel tono. Voleva dirle di fermarsi, che avrebbero visionato la cassetta insieme, ma non fece in tempo a formulare la proposta; lei era uscita richiudendo energicamente la porta dietro di sé. L’uomo osservava la custodia dall’aspetto innocuo. Cercava di immaginare il contenuto del nastro, ma conoscendo la moglie, non riusciva ad andare oltre qualche scena affettuosa, magari girata con un amico, che faceva la parte dell’amante, giusto per farlo ingelosire. Per le donne dell’età di Patrizia, il sesso contava poco, e potevano benissimo farne a meno, non era come per gli uomini che avevano nel sangue l’istinto del cacciatore. Era questo che la moglie non riusciva a comprendere della sua indole. Inserì il nastro nel video registratore collocato sul carrello vicino alla vetrinetta dove teneva le pubblicazioni giuridiche. Chiamò alquanto infastidito l’impiegata, informandola che non voleva essere disturbato e appena la ragazza ebbe richiuso la porta, avviò il registratore con il telecomando. Un divano con una libreria sullo sfondo apparvero sullo schermo. Si udivano delle voci fuori campo. L’avvocato riconobbe la moglie che parlava con un uomo, senza capire cosa dicessero. Alzò il volume, con il cuore in subbuglio.
“La grandezza del tappeto delimita il nostro campo d’azione. L’unica cosa di cui dobbiamo preoccuparci è di stare dentro l’inquadratura,” diceva la voce maschile.
Si vide l’immagine tremare, segno che qualcuno stava toccando la telecamera e quando si stabilizzò, dalla parte sinistra, entrarono in campo un uomo seguito da Patrizia che presero posto sul divano. La loro espressione era imbarazzata, mentre fissavano l’obiettivo della macchina. L’avvocato riconobbe subito il commercialista, il migliore della città nel suo campo, con cui aveva avuto rapporti professionali per un fallimento in cui era stato nominato custode dal tribunale. Capì subito che la cosa era seria, non si trattava di uno scherzo. Fu l’uomo ad avvicinarsi alla donna. Cominciò a baciarla in un modo tale, che il viso dell’avvocato divenne paonazzo dalla rabbia. Lui in trent’anni di matrimonio mai si era permesso di baciare la moglie in quella maniera. Ed era infastidito che la donna potesse permettere che la lingua di quell’estraneo penetrasse nella sua bocca come un serpente.
“Che cosa sta facendo con quelle mani? Ti sta spogliando e tu non dici niente, brutta puttana!” inveì sobbalzando dalla sedia.
Parlava alle immagini televisive come se fossero presenze vere. Si alzò piantandosi davanti al televisore con aria minacciosa, come se volesse arrestare lo svolgersi degli eventi, ma, inesorabilmente, i due svergognati, incuranti delle sue reazioni, si liberavano d’ogni fastidioso indumento. Si precipitò sulla porta, mettendo il blocco alla maniglia per timore che qualcuno potesse vedere quelle immagini oltraggiose. Il cuore cominciò a martellargli nel petto, da fargli schizzare la pressione a trecento. Si accorse in quel momento quanto la moglie fosse bella e desiderabile. Confrontò il suo corpo con quello dell’uomo. Il ventre piatto, senza la flaccida pancia, il torace villoso, le braccia possenti che avvolgevano la donna da non lasciarle un attimo di respiro, lo sprofondarono nella più cupa disperazione.
“Mi sta bene. La colpa è sola mia. Stupido, stupido che non sei altro,” continuava a ripetere passeggiando per la stanza, sperando che quel supplizio finisse.
Dal divano scivolarono sul tappeto. In quella posizione occupavano la parte centrale dell’inquadratura e la loro immagine era ancora più nitida. La donna si chinò sul pene e cominciò a leccarlo, baciarlo, a succhiargli il glande. Sembrava una furia, perché si sedette su di lui, rivolta verso la telecamera, in segno di sfida. Quel pene bagnato di saliva scivolava dentro il suo corpo che fremeva ad ogni spinta dell’uomo.
Come avrebbe voluto avere un pene grande come quello del suo rivale. Era forse questa la ragione del tradimento della moglie? L’insicurezza di un pene di piccole dimensioni gli aveva procurato eiaculazioni precoci con la sua amante, che mai gli erano capitate con Patrizia. Era come se il pene nella vagina avesse voluto starci il meno possibile, da rendere ridicola la prestazione. Per la prima volta si sentì un uomo in difficoltà. Si era aggrappato ad una presunta virilità senza accorgersi del cedimento del suo corpo, dovuta alla fragile età senile, simile ad una nuova adolescenza. Sentiva la mancanza della moglie, solo lei sarebbe stata capace di comprendere il suo stato d’animo.
Erano questi i pensieri che gli affollavano la mente mentre osservava le immagini, come ipnotizzato. Ora i due amanti, con le gambe leggermente divaricate, mettevano in mostra i loro sessi, in maniera provocatoria. Il pene di lui sopravanzava l’ombelico, mentre lo scroto toccava il tappeto. Il triangolo di lei era d’un nero ebano che invogliava tenerezze. L’uomo cinse le spalle della donna che si adagiò sul suo petto. Cominciò a baciarle i seni, il ventre e seguendo la linea di Venere affondò la lingua nella vulva, provocando in Patrizia gemiti di piacere, mentre lei con le dita gli pettinava i peli del pube.
Mai era accaduto all’avvocato Soldini di passare dall’indignazione allo stupore ed infine all’eccitazione in così breve tempo. Si slacciò i pantaloni e tirò fuori il suo pene e cominciò a masturbarsi con accanimento fino a raggiungere l’orgasmo. Con le mani unte di sperma e i pantaloni imbrattati, spense il registratore e rimase a guardare il soffitto con espressione ebete.
6
Il gran segreto
L’incontro con Patrizia era stato illuminante. Grazie alla donna, Ilaria era riuscita vedere il padre sotto una luce diversa, tanto da accrescere in lei un sentimento filiale traboccante di struggente malinconia. Ora occorreva indagare, senza alcun’esitazione, sulla natura del rapporto che aveva legato il padre ai due coniugi, la parte più difficile, anche se la ragazza era convinta che alla fine sarebbero emerse giustificazioni convincenti a quella che i giornali avevano chiamato “torbida relazione”. D’altronde il carattere dell’uomo non lasciava spazio a passioni superficiali, e quando decideva di vivere un’esperienza, incline alla generosità com’era, lo faceva con tutta la nobiltà d’animo di cui era capace.
“Capirai da sola lo sforzo che ho fatto a rievocare certi momenti. Per oggi ci fermiamo qui: sono troppo stanca,” aveva detto Patrizia, visibilmente commossa, rispondendo alla ragazza che faceva domande sul chirurgo. “Volevo farti comprendere la natura del legame che mi univa a tuo padre. Non puoi immaginare quanto sia stato importante essermi chiarita con te che sei lei figlia. È meglio rinviare la conversazione su Adalberto e Renata ad altro momento,” aveva detto la donna stringendo a sé la ragazza in un gesto di affetto. “Dovrei farti delle rivelazioni su di loro che richiederebbero tempo.”
“Di che natura?”aveva ribattuto Ilaria.
“Sono segreti delicati, ma fondamentali per comprendere il legame che univa la coppia a tuo padre. Ma non ne voglio parlare ora,” aveva sentenziato la donna.
“Stai cercando di nascondermi l’omosessualità del chirurgo,” aveva replicato la ragazza.
“Non lasciarti influenzare da quello che hanno scritto i giornali. Sappi che Adalberto non era omosessuale, come non lo era tuo padre, di questo devi esserne convinta.”
“Ti chiedo scusa per il giudizio affrettato.”
“Avremo modo di parlarne diffusamente la prossima volta, confrontando tutte le informazioni sino a qui raccolte,” aveva detto la donna, accompagnandola sull’uscio della porta.
Patrizia n’aveva discusso anche con il marito. L’uomo, per la comprovata esperienza derivante dalla professione esercitata presso aule di tribunali, sapeva dare corpo ad indizi, apparentemente insignificanti, tanto che era riuscito a tracciare un profilo convincente di chi poteva aver compiuto l’efferato delitto.
Le premure dell’avvocato Soldini nei confronti della moglie nella tragica circostanza erano andate più in là di una formale solidarietà tra coniugi. Era stato lui a spingerla ad assistere al funerale di Jeanpierre, cosa che la donna avrebbe voluto evitare, per timore, dopo la ritrovata intesa, di riaprire ferite ancora non rimarginate.
Affranti nel dolore, erano andati al funerale di Adalberto e Renata, stringendosi al loro unico figlio venuto dall’America. Avevano incaricato alcuni cantori e due violinisti di eseguire, durante l’orazione funebre, musiche di Bach tratte da La Passione secondo Matteo. Quando la struggente melodia “Seduti stiam con viso lacrimoso”, si era elevata sotto le volte gotiche della cattedrale, un moto di commozione aveva assalito tutti i presenti e le lacrime erano sgorgate copiose sul volto di Patrizia e del marito. Null’altro potevano fare, come estremo saluto agli amici con cui avevano condiviso l’amore per la musica, se non dedicargli il loro ultimo concerto.
Per l’avvocato Otello Soldini, la visione della cassetta aveva avuto l’effetto di un pugno nello stomaco. La prima reazione era stata quella di vendicarsi della moglie, ma poi erano subentrati riflessioni meno aggressive. Doveva analizzare a mente lucida la situazione, come se il caso riguardasse uno dei suoi clienti. Era questo anche il consiglio che una volta gli aveva dato Patrizia, che con il suo gesto aveva dimostrato di essere più donna di quanto egli fosse uomo, con il suo ridicolo desiderio di dimostrare una presunta virilità. Era così sconvolto che non poteva rimanere un istante di più nell’ufficio. Quello che aveva fatto lo riteneva un’azione sordida, non tanto per essersi masturbato, ma per averlo fatto, eccitato dalla moglie che faceva l’amore con un altro uomo. Aveva bisogno di cambiare aria per mendarsi: riflettere. Aveva chiamato la segretaria, incaricandola di disdire tutti i suoi appuntamenti: affari di famiglia lo chiamavano altrove per qualche giorno. Non si era recato nemmeno nel suo pied-à-terre per infilare in valigia qualche ricambio di biancheria e tanto meno si era fermato dall’amante; voleva seguire quello che in cuor suo si sentiva di fare, senza subire alcun condizionamento. In un negozio di confezioni, aveva acquistato capi d’abbigliamento pesante e, nella profumeria accanto, prodotti per la toilette, partendo in direzione dei monti Sibillini: la montagna dei ricordi di gioventù. Vi andava nel periodo di giugno con Patrizia, prima che nascessero le figlie, per ammirare la fioritura di narcisi, tulipani selvatici e genziane. In quell’occasione i due giovani si arrampicavano sino alla cima del monte Vettore, per poi scendere nella valle del lago di Pilato. Si sedevano sulla riva con i piedi immersi nelle fredde acque ad osservare, nell’unico posto al mondo dove vivesse, il chirocefalo del Marchesone, un minuscolo crostaceo vermiglio, che nuotava all’indietro con l’addome al cielo: una rarità scientifica.
L’avvocato aveva preso alloggio in un rifugio ristrutturato da poco, dopo decenni di totale abbandono, occupando la camera insieme a due deltaplanisti austriaci, che gli avevano ceduto il posto più comodo del letto a castello. Indossò subito l’abbigliamento di montagna (pantaloni di velluto, giacca antivento e scarpe rialzate) pronto per uscire con una ritrovata euforia in corpo, come se il vestito grigio, appena tolto e appeso nell’armadio, avesse trattenuto tutti i problemi che lo avevano angosciato sino a quel momento. Voleva provare la sua resistenza fisica e, per farsi le gambe, aveva deciso di camminare nel Pian Grande, raggiungibile con la macchina in dieci minuti dal rifugio. Nel piazzale, salutò i compagni di stanza che stavano slegando dal tettuccio dell’automobile l’attrezzatura per lanciarsi da una collinetta affollata da novelli Icaro, molti dei quali avevano già spiccato il volo ed ora volteggiavano nell’aria con le loro ali di tela come tanti petali di fiori, sotto lo sguardo divertito degli ospiti del rifugio. Aveva imboccato una carrareccia che s’inerpicava per un costone brullo e sassoso, per l’erosione dovuta all’intenso sfruttamento dei pascoli e ai disboscamenti operati senza criterio nel corso dei secoli. Alcuni puledri scalciavano al vento, rincorrendo un branco di cavalli che placidamente scendeva al fontanile per abbeverarsi. Li osservava con occhiate fugaci dallo specchietto, per non distrarsi dalla guida, cercando di mantenere le ruote all’interno dei solchi del sentiero, veri crepacci in alcuni punti per il dilavamento della pioggia. L’ultimo tratto della salita si era fatto ancora più scosceso, tanto che dovette ridurre la marcia per superare il dislivello e arrivare in sommità. Arrestò l’automobile, con le mani strette al volante, come se fosse ai bordi di un precipizio: l’intera catena dei monti Sibillini gli era apparsa all’improvviso, là dove prima c’erano le nuvole. La visione di quegli scenari primordiali suscitavano in lui sensazioni particolari, tanto da fargli riemergere da profondità dimenticate aneliti di libertà e con essi l’insofferenza per il modello di vita da lui scelto, che lo costringeva a trascorrere intere giornate tra scartoffie senza mai vedere il sole. Solo l’idea che quelle montagne ci fossero, così come lui le vedeva, già milioni d’anni prima e che ci sarebbero state ancora quando la sua consistenza corporea avrebbe assunto la forma di molecole d’anidride carbonica e d’azoto disperse nell’immensità del cielo, fu per lui una sorta di calmante, da rendere i suoi pensieri ancora più leggeri. Era soddisfatto di avere lasciato lo studio con l’intento di ritrovare se stesso. Come una cicatrice, il Fosso dei Mergani attraversava la parte sud-est del piano, convogliando le acque in un inghiottitoio, ed era lì che l’uomo era diretto. I pastori affermavano di evitare quei luoghi, perché gli animali che incautamente finivano dentro il letto paludoso, attratti dalle erbe succulenti, sprofondavano nella melma. Bianchi teschi e grosse tibie di ruminanti sovente affioravano tra la ricca vegetazione palustre, alimentando ancor più la diceria, tanto da rendere quel luogo inviso alle genti della zona, anche se era più probabile che le ossa fossero d’animali deceduti per morte naturale, la cui carcassa era stata spolpata da cani inselvatichiti e uccelli rapaci. Tempeste di vento, bufere di neve, movimenti tellurici ed ogni altra manifestazione della natura, secondo i montanari di quelle contrade, era il modo con cui forze arcane e misteriose rivelavano la loro presenza. Non erano forse quelli i monti Sibillini, per la presenza nell’antichità di una strega che nell’antro del monte che portava il suo nome vi esercitava riti magici? E il lago di Pilato non era la meta, durante il medioevo, di maghi provenienti da tutta Europa per consacrare al diavolo il “Libro del Comando”, tanto che la chiesa ne aveva interdetto l’accesso e mandato al rogo Cecco d’Ascoli che aveva avuto contatti con sibille e negromanti? Perché, dunque, meravigliarsi se i racconti dei montanari erano avvolti nel mistero e apparivano esagerati agli occhi delle persone di città?
La strada che attraversava il piano era talmente diritta che sembrava tracciata con la riga. Parcheggiò la macchina all’inizio del primo tratturo che s’inoltrava nei pascoli. Il monte Vettore si ergeva dalla pianura come una muraglia, sulla cui vetta ammassi di corpi nuvolosi stavano ad indicare che il tempo mutava al peggio. Sembrava che le nuvole nascessero dal nulla e capì anche perché i montanari del luogo chiamassero il massiccio montuoso la fabbrica delle nuvole. L’aria a quell’ora del pomeriggio era frizzante e camminare ai bordi delle fenditure era un piacere. Serviva a spezzare la monotonia della grande distesa, i cui unici punti di riferimento, al pari di una rosa dei venti, erano i picchi dei monti che stringevano il piano tutto in torno. Quel catino immenso due milioni d’anni prima era un lago, le cui acque erano defluite, per chissà quale cataclisma, attraverso quella sorta di spaccatura sul terreno, proprio come succede ad un recipiente di coccio incrinato nel fondo. Si diceva che parte delle acque avessero formato un immenso bacino tra le cavità carsiche del sottosuolo. Ma di certo esse riemergevano 700 metri più in basso, in un’altra valle, impregnando d’acqua i prati, formando le marcite, luogo dove era possibile anche durante i mesi invernali, per quel velo d’acqua corrente che moderava la temperatura, fare foraggio per gli animali. I suoi pensieri diventavano sempre più lievi, mentre risaliva l’erta salita che costeggiava una stretta spaccatura calcarea, dove erano ancora visibili le strutture metalliche collocate da qualche spedizione di speleologi, che avevano invano cercato un passaggio, nel punto in cui le acque del Fosso dei Mergani scomparivano, con il miraggio di scoprire grotte ancora più fantastiche di quelle di Frasassi. Doveva fare ancora un ultimo sforzo per raggiungere la macchina che gli appariva come un puntino, proprio come le persone che con i cesti sotto il braccio, cercavano funghi dopo le piogge che annunciavano l’arrivo dell’autunno.
L’indomani, assiso su uno sperone di roccia della Cima del Redentore, consumava con altri escursionisti il pranzo che le cuoche del rifugio, madre e figlia, avevano preparato. Il suo sguardo spaziava sino alla linea scura dell’orizzonte, laggiù dov’era il Mar Adriatico, visibile ad occhio nudo al sorgere del sole, quando la luce si rifrangeva, come in uno specchio, sulla superficie dell’acqua. Quel fenomeno richiamava molti appassionati della montagna, i quali, nelle notti stellate d’agosto, salivano sulla cima del monte Vettore per osservare ammutoliti il breve intenso istante, in cui il raggio di luce attraversava il cielo squarciando le tenebre, dando sostanza al significato di Creazione. Aveva la mente sgombra da ogni pensiero. Ora sapeva come doveva comportarsi; non aveva più alcun dubbio. Chiamò Patrizia dal suo cellulare per informarla che si trovava sulle montagne che avevano frequentato durante i primi anni di matrimonio. Invocava il suo perdono. Le chiedeva scusa per il suo comportamento. Voleva ritornare alla sua Itaca. Si era reso conto che le piatte acque dell’approdo dove s’era rifugiato erano prive del pathos cui egli anelava. Le chiedeva di raggiungerlo.
Le tracce dalla forma geometrica dei pneumatici di un trattore, come un merletto, orlavano il sentiero che, la mattina seguente, l’uomo stava percorrendo. Le greggi avevano lasciato gli stazzi e sterco fresco era disseminato ovunque, tanto che occorreva stare attenti dove poggiare i piedi. Era diretto verso un crinale, il cui profilo ricordava le gobbe di un cammello accovacciato e che separava il Pian Grande da un altro piano chiamato Piccolo, per le ridotte dimensioni rispetto al primo, ma sempre imponente. Macchie d’alberi si susseguivano ad ampi spazi erbosi. E quel paesaggio mutevole, si addiceva al suo stato d’animo. Sperava tanto che Patrizia lo raggiungesse, anche se la donna al telefono aveva detto che non se la sentiva di mettersi alla guida della sua auto per impervie strade di montagna. Un suono armonioso dal sapore di un’antica nenia gli giunse là, dove terminava il bosco, distogliendolo dai suoi pensieri. Si avvicinò con circospezione, attratto dalla melodia. Mollemente appoggiato ad un tronco contorto di un faggio, i cui rami si stendevano come un ombrello, quasi a lambire il terreno circostante, vide un pastore che badava il suo gregge. Quell’immagine gli ricordava una veduta arcadica del 700, simile al dipinto che il suo notaio teneva appeso alle pareti dello studio. Quante volte lo avevano commentato con Patrizia! Gli animali, si erano spostati di lato, spaventati dal rumore dei passi, proprio come una squadra di soldati in marcia d’addestramento che esegue un cambiamento di direzione in perfetto sincronismo. Il pastore si era voltato, senza interrompere l’esecuzione del brano, anzi aveva soffiato con maggiore intensità, facendo scorrere le labbra sulle canne di lunghezza diversa del suo flauto, come se volesse con la musica acquietare gli animali. I suoi occhi chiari, i lineamenti delicati del viso, la zazzera bionda che non conosceva pettine, erano tutti elementi che tradivano le sue origini lontane. Gli sovvennero i discorsi d’alcuni ospiti del rifugio, i quali asserivano che i pastori della zona erano in prevalenza di nazionalità macedone, gli unici disposti a svolgere l’antico mestiere di guardiani d’animali. Di questo bisognava essergli riconoscenti. Stare notte e giorno con le greggi, tra pascoli d’alta quota in completa solitudine, dormendo in ricoveri di fortuna (roulotte prive di ruote per renderle più stabili alle raffiche di vento), era una vita dura, rifiutata dai giovani del posto. Tra breve, come già avevano fatto altri suoi connazionali, anche lui sarebbe andato a svernare con il gregge nella Maremma o nell’Agro Romano, dove il clima era più mite, rinnovando l’antico rito della transumanza. Ora gli animali erano di nuovo tranquilli. I loro velli ondeggiavano per il pendio, similmente ad un campo di fieno mosso dal vento. L’avvocato si era celato dietro la folta vegetazione, preso ad ascoltare la musica dal fascino arcaico, che il pastore eseguiva con spigliatezza, che gli parlava del grande Alessandro, di Achille, Ettore, Ulisse e di altri personaggi omerici. Era in preda alla stessa emozione che provava ascoltando un brano eseguito dal flautista Severino Gazzelloni. Da quando aveva lasciato Patrizia, non frequentava sale da concerti. E solo in quel momento si era reso conto quanto la musica gli mancasse. Si era, persino, soffermato a riflettere sullo strumento che il ragazzo suonava e gli venne spontaneo pensare che lo stesso Mozart, per la caratterizzazione di Papageno ne Il flauto magico, aveva utilizzato il flauto di pan. Il gregge cominciò a belare. Il pastore, riposto lo strumento nello zaino, spinse gli animali giù, verso il piano, in cerca di pascoli migliori. Fu allora che l’avvocato decise di ritornare indietro. L’uomo, per resistere alle raffiche di vento che salivano dal piano, teneva le gambe leggermente divaricate e il busto flesso in avanti. Anche le mucche che un mandriano conduceva al fontanile arrancavano per il sentiero, dondolando i capaci ventri per stare ben salde sulle zampe. Superato il pendio, dietro il quale sorgeva il rifugio, il vento di colpo era cessato. Liberati da quei lacci invisibili, tutto aveva ripreso forza e vigore, tanto che le mucche trotterellavano, come i cavalli che, con ostentata superiorità per via di quei colli diritti, scendevano per il sentiero. La stessa andatura dell’avvocato s’era fatta più svelta, non perché avesse accelerato il passo, ma semplicemente perché l’aria immota non ostacolava il suo incedere. Notò con dispiacere che nel piazzale del rifugio non c’era la macchina di Patrizia, segno che la supplica era caduta nel vuoto. Forse egli aveva preteso troppo chiedendole di raggiungerlo in montagna. Non si concede un premio a chi ha sbagliato; per ora doveva accontentarsi del perdono che la donna gli aveva concesso. Un cliente dell’albergo lo aveva salutato per riprendere la discussione iniziata la mattina durante la colazione. La professione d’avvocato, l’uomo la sentiva come una missione e non si sottraeva di fornire pareri legali a chi glieli chiedeva, ma, a ben sentire, sembravano consigli ispirati al buon senso più che agli articoli del codice di procedura civile. Pareva che i due si conoscessero da vecchia data, tanto erano presi a discutere con tono affabile. Si accorse della presenza della moglie, appena la donna si era alzata dalla panca posta sotto il portico del rifugio. L’uomo aveva provato la stessa trepidazione di quando ventenne andava ai primi appuntamenti. Il fisico poteva essere invecchiato ma non i sentimenti che sgorgavano come l’acqua del fontanile, cui gli animali, poco distanti, stavano dissetandosi. Il suo aspetto era ottimo, forse per la foggia del vestito da escursionista che indossava, anche se Patrizia lo vide indifeso in quell’ambiente insolito. Si abbracciarono, baciandosi con tanta passione che il cliente del rifugio si allontanò borbottando una frase di saluto, che cadde nel vuoto.
“Non ho visto la tua macchina e mi hai colto di sorpresa vederti,” sussurrò l’uomo.
“Ho preso un mezzo pubblico sino al grosso centro, giù nella valle,” rispose la donna. “Per arrivare al rifugio, mi sono fatta accompagnare da un taxi.”
“Qui ci sono poche distrazioni: vuoi ripartire subito?” si affrettò a dire l’uomo con premura.
“Ho parlato con la signora,” continuò la donna prendendolo sotto braccio. “Ha già preparato una stanza tutta per noi. Partiamo domani. Preferisco ricominciare in un luogo dove abbiamo trascorso momenti felici.”
Le auto dei deltaplanisti, con i lunghi involucri, erano ferme nel parcheggio. Il forte vento non permetteva d’eseguire lanci ed i giovani, in prevalenza stranieri, con in mano una bottiglia di birra, si aggiravano intorno al rifugio osservando sconsolati il cielo carico di nuvole.
Mi sei mancato molto,” mormorò la donna.
“Questo vale anche per me,” sospirò l’uomo. “Nella vita è dato a tutti di sbagliare,” continuò. “L’importante è ravvedersi ed io ti chiedo ancora perdono per quello che ho fatto.”
“All’altra donna cosa le hai detto?” chiese Patrizia, consapevole che alla sua felicità faceva da contraltare dolore e sofferenza.
“Sapeva che la nostra relazione era subordinata ad una serie di circostanze,” esordì con imbarazzo. “Se io non mi fossi fatto sentire per due giorni consecutivi sarebbe stato il segnale della fine. Avevamo concordato questa prassi per evitare discussioni inutili, che avrebbero fatto solo soffrire,” disse con quel fare come se stesse illustrando le clausole di un contratto.
L’uomo le accarezzava la mano con gesti lenti, che volevano infondere protezione, ma nella movenza c’era anche sottomissione, per quello sguardo carico di tenerezza, simile a quello di un bambino, che Patrizia ricontraccambiava con pari intensità. E più loro si estraniavano più si mimetizzavano nell’ambiente circostante, sino a diventare paesaggio loro stessi, come una roccia, una pianta, i cavalli che, dopo aver bevuto, rientravano nei loro recinti. La parola che affiorava alla mente, ad osservarli mentre s’incamminavano verso il rifugio era: armonia. Come quando passato un uragano, si riparano i danni, con l’intento di rendere più resistente l’edificio a nuove calamità, così era accaduto al loro matrimonio; e le cure, che entrambi gli prodigavano, riaccendevano bramosie sopite. La notte fecero l’amore, attenti a soddisfare i desideri dell’altro. L’energia che ognuno trasmetteva, era restituita amplificata da stordire i corpi madidi di sudore che si agitavano nel letto. Capirono che l’amore, ancor prima d’essere attrazione fisica, era questione che atteneva la mente, lo spirito, dopodiché tutto diventava passione, desiderio. Si giurarono fedeltà; mai più si sarebbero divisi. Nessun’altra donna, anche più giovane, avrebbe saputo ricreare la tenera complicità che s’instaura tra coniugi, dopo anni di vita in comune, in cui è sufficiente un cenno per capire tutto dell’altro. E questo era mancato, più d’ogni altra cosa, all’avvocato Otello Soldini. Decisero di isolarsi, per evitare di frequentare i vecchi amici, molto legati all’uomo con cui la moglie aveva avuto una relazione, anche se Renata si sentiva sovente al telefono con Patrizia, l’amica del cuore.
Ilaria riteneva importante incontrarsi con Patrizia e Laura, anche se quest’ultima ignorava che Jeanpierre avesse avuto una relazione con la donna. Le tre donne insieme avrebbero analizzato il più piccolo dettaglio per ricostruire l’intera vicenda. Laura sembrò non meravigliarsi quando apprese del legame sentimentale che Jeanpierre aveva avuto con Patrizia.
“La nostra era una relazione molto libera e se tuo padre lo ha fatto, sono convinta, che avrà avuto buone ragioni,” aveva detto alla giovane amica per giustificare il comportamento dell’uomo. “In ogni modo, la sua tragica fine rende irrilevante qualsiasi recriminazione da parte mia. Sarò lieta di conoscere Patrizia,” aveva concluso, dimostrando di sapere gestire con realismo qualsiasi situazioni.
Decisero di vedersi un pomeriggio a Casa degli elci. La prima ad arrivare fu Patrizia, accompagnata dal marito. L’inaspettato ospite aveva colto di sorpresa la ragazza, ma fu felice di fare la conoscenza dell’uomo perché la sua presenza dimostrava che la coppia aveva ritrovato la solidarietà di un tempo.
“Sono stato io ad insistere ad essere qui,” spiegò l’uomo rivolto alla ragazza. “Sono avvocato e la mia esperienza vorrei metterla al servizio della causa. Tuo padre mi ha fatto capire quale tesoro di donna avessi al mio fianco e di questo gliene sarò riconoscente per sempre,” continuò con voce affabile sorridendo alla moglie. “Lascia che ti abbracci,” accennò con fare paterno.
La ragazza avvertì un buon odore d’acqua di colonia, mentre l’uomo le baciava la fronte, un gesto non formale che lasciava presagire una continuità d’affetto. Era strano, ma il padre, nonostante fosse morto, continuava ad ispirare nelle persone comportamenti protettivi nei suoi confronti. Laura arrivò con mezz’ora di ritardo. Aveva dovuto dare le disposizioni necessarie per la messa in onda del telegiornale. Salutò Patrizia con lo stesso trasporto affettivo di chi rivede un’amica dopo un lungo periodo di assenza, anche se era la prima volta che le due donne si vedessero. In quell’abbraccio prolungato ognuna esprimeva all’altra la stessa partecipazione che solitamente accomuna le persone coinvolte nello stesso lutto familiare. Sul tavolo dello studio Ilaria aveva raccolto in due fascicoli il materiale riguardante il caso: estratti conto della carta di credito del padre, pagine Web di siti di teatri italiani con i relativi programmi, ritagli di giornale, che l’avvocato aveva cominciato a consultare, prendendo appunti. La sua presenza si rivelò preziosa. Fu lui a coordinare gli interventi, dando la parola ad Ilaria. La ragazza, avvalendosi degli appunti di Gabriele, in cui erano trascritte le testimonianze di camerieri, portieri di notte, valletti di teatro, fece un resoconto dettagliato dei luoghi dove i tre amici avevano fissato i loro appuntamenti per assistere agli spettacoli lirici. Laura puntualizzò meglio il viaggio in Tunisia, cercando di non tralasciare nessun particolare su ciò che Jeanpierre aveva affermato quando si erano salutati alla stazione di Milano. Patrizia aveva riferito delle ammissioni che Renata le aveva fatto al telefono. Accennò persino al gran segreto riguardante il chirurgo, fondamentale per capire lo svolgimento dell’intera vicenda, della cui rivelazione aveva incaricato il marito. Quest’ultimo, prima di interpretare i fatti, lesse ad alta voce alcuni passi d’articoli di giornale, che descrivevano la scena del delitto. Al termine raccolse tutti i suoi appunti che continuava a leggere con occhio avido, affinché nessun particolare potesse sfuggirgli. Quello che segue è la ricostruzione che l’avvocato Otello Soldini fece dell’intera vicenda. Modulava la sua bella voce secondo l’intensità dei passaggi, specialmente per far comprendere la genesi del rapporto, legata al gran segreto, che aveva guidato il comportamento di Renata, Adalberto e Jeanpierre. La sua fu una sorta d’arringa, come se avesse dovuto convincere una giuria di un’aula di tribunale. Riuscì, con la più ampia facoltà di prova, a dimostrare l’innocenza degli amici, il cui unico torto era l’avere evocato pulsioni primigenie, la parte selvaggia che ogni individuo ha in sé.
Renata e Adalberto
La stagione sinfonica era terminata e Jeanpierre, approfittando dell’assenza di Laura impegnata in Sicilia per alcune riprese pubblicitarie, aveva accolto l’invito a cena in casa di Renata e Adalberto. In altri momenti, trascorrere una serata come quella, senza la presenza di Patrizia, era impensabile, ma dopo la riappacificazione della donna con il marito, la coppia conduceva una vita riservata, anche se le due amiche, sovente, si sentivano al telefono. L’abitazione del chirurgo si trovava nella parte alta della città, sviluppatasi intorno agli anni venti. Erano ville circondate da giardini con varietà di piante che rispecchiavano la moda del tempo: paulonie, magnolie dai fiori rosa, aceri, ippocastani e l’immancabile fontana con il putto nell’atto di mingere, il cui zampillo ricadeva nella vasca dalla forma di conchiglia, dove nuotavano pesciolini rossi. Gli alberi, con il tempo, erano diventati immensi e in estate le loro chiome ombreggiavano la strada pubblica, dove Renata parcheggiava l’auto. Jeanpierre, con un mazzo di rose in una mano e una bottiglia di champagne nell’altra, avanzava lungo il vialetto illuminato da bulbi opalescenti che proiettavano una moltitudine di sagome della sua ombra sul prato circostante, bordato di sassifraghe e cinerarie. Le stesse specie erano presenti anche nei giardini delle altre ville, come se un’unica mano avesse progettato il verde dell’intero quartiere. Dopo una giornata d’intenso lavoro per l’approssimarsi delle scadenze fiscali e contributive, sentiva il bisogno di liberare la mente. Gli amici erano sempre prodighi di premure nei suoi confronti, ed aveva bisogno di rilassarsi per non sentire la mancanza di Laura. Adalberto lo attendeva sotto il portico. Dall’uscio socchiuso proveniva la celeberrima aria tratta dal Werther di Jules Massenet. Jeanpierre riconobbe il brano e intonò subito le parole del protagonista, l’eroe romantico, idealista e sognatore, “Ah, non mi ridestar”.
“Ho sentito il rumore della tua auto e sono uscito ad attenderti,” disse l’uomo appoggiato alla balaustra del portico, sorridendo. Sapeva che quelle note colme di passione, tormento e incanto sarebbero piaciute all’amico. “Tu appartieni a quella categoria di persone che quando vanno a trovare gli amici, sono costretti a bussare con i piedi per le mani impegnate a portar doni,” continuò con tono scherzoso.
“Allora mettila in fresco,” rispose Jeanpierre porgendogli la bottiglia.
La casa emanava un fascino particolare. Alcune suppellettili, come il lampadario di Burano, il grande specchio che sovrastava la consolle dell’ingresso, erano in stile liberty. Gli stessi motivi floreali comparivano negli architravi delle porte e delle finestre e persino su una cassapanca del corridoio, di fronte alla porta del suo studio. Molte volte i pazienti, che l’uomo visitava solo per appuntamento, sbagliavano porta e Renata se li trovava per le stanze, con aria imbarazzata, che cercavano l’uscita. I mobili del soggiorno, laccati di bianco, sembravano usciti da una rivista d’arredamento moderno per la sobrietà e l’eleganza delle linee, ma ciò che colpiva il visitatore era il pianoforte a coda, il cui colore nero ebano spiccava in mezzo a tanto nitore. Nei pomeriggi domenicali freddi e piovosi, Adalberto si dilettava ad accompagnare al piano la moglie mentre eseguiva, con la sua bella voce da mezzo soprano, arie del repertorio operistico italiano. L’uomo in gioventù aveva preso lezioni di pianoforte, in ossequio a certe tradizioni borghesi che imponevano la conoscenza di uno strumento per affinare la sensibilità musicale. L’amore per la scienza, poi, aveva preso il sopravvento e il giovane, l’ultimo anno di liceo, aveva smesso con gran disappunto della madre che sperava tanto che fosse diventato un pianista per via delle sue belle mani affusolate.
Dal corridoio si era affacciata Renata con una zuppiera di porcellana in mano.
“Sono in anticipo?” disse Jeanpierre vedendola impegnata.
“Sei puntualissimo,” rispose la donna appoggiando il recipiente sul carrello di portata.
Dal numero delle posate che imbandivano la tavola, s’intuiva che la donna aveva preparato un ricco menù.
“Queste sono per te.”
“Sei sempre galante,” disse prendendo le rose. “Le metto subito in acqua.”
“Non te lo avevo detto, ma siamo diventati nonni,” s’intromise Adalberto mostrando all’amico l’album con le foto di una neonata in abiti da battesimo. “Mi dispiace che non ci sia Patrizia, lei che si è sempre vantata delle sue nipotine. Ma anche la nostra piccola americana è molto bella. Non trovi che assomigli a Renata?”
Jeanpierre prese l’album, accennando un lieve movimento del capo, più per compiacere l’amico che per altro. Pensava a Patrizia che non aveva più rivisto e sentito.
“Come sta la nostra amica?” chiese Jeanpierre, con un sussurro di voce.
“Bene, secondo le informazioni di Renata.”
“Ci siamo sentite alcuni giorni fa,” intervenne la donna che, nonostante fosse impegnata nei preparativi della cena, seguiva la conversazione dei due uomini. “Le ho detto di trascorrere la serata con noi, come ai vecchi tempi, ma lei ha declinato l’invito, per timore di mettere a disagio il marito, incontrandoti,” continuò rivolta a Jeanpierre con voce velata di tristezza.
“Occorre però superare questa condizione,” saltò su Adalberto, visibilmente contrariato. “Non si può imputare a Jeanpierre nessuna colpa; il suo è stato un atto d’altruismo. Ha teso la mano a chi gli chiedeva aiuto. Caso mai la colpa è dell’avvocato Otello Soldini che ha abbandonato la moglie per correr dietro ad un’altra, solo perché più giovane.”
L’uomo si era alzato dalla poltrona per prendere una caraffa contenente un liquido rosato, dove galleggiavano cubetti di ghiaccio e pezzi di frutta che agitò con un lungo cucchiaio di plastica.
“È la mia specialità preparare bibite dissetanti con poco alcol,” disse mentre riempiva i calici. “La verso anche per te,” soggiunse rivolto alla moglie, che aggiustava sulla tavola i cartellini segnaposti su cui aveva vergato i loro nomi.
“Preferisco di no; sai bene che i tuoi aperitivi mi danno subito alla testa.
Jeanpierre sorseggiò la bevanda e, dopo essersi umettato le labbra, riprese il discorso.
“Tu hai ragione,” esordì rivolto all’amico. “Forse abbiamo calcato troppo la mano. Un conto sapere che tua moglie è andata con un uomo per vendicare il tradimento subito, altra cosa sbattergli in faccia la prestazione sessuale, documentata attraverso la crudezza delle immagini di un video,” terminò con un tono di voce che lasciava intendere una certa solidarietà nei confronti dell’avvocato.
“Jeanpierre, condivido ciò che hai affermato,” assentì Renata. “Però dobbiamo mettercela tutta per ricostruire l’amicizia. Ammetto che ci vorrà del tempo, ma questo deve essere il nostro obiettivo. Con loro abbiamo trascorso momenti importanti, non possiamo vanificarli, altrimenti cos’altro ci rimane? Ed io, francamente, non voglio vivere solo di ricordi, ho bisogno della presenza fisica delle persone cui mi sento legata.”
“Ricostruire il legame di stima è molto semplice,” rispose Jeanpierre. “É sufficiente che mi faccia da parte. Non voglio che per causa mia voi non possiate frequentarvi. D’altronde le cose che avete in comune sono più importanti della mia amicizia che è cosa recente.”
La musica era cessata, e benché l’apparecchio di riproduzione lampeggiasse nessuno vi badava, presi com’erano a conversare.
“Non sono per niente d’accordo,” ribatté Adalberto. “Immolare un’amicizia per resuscitarne un’altra, è una strada sbagliata. No! Come dice Renata dobbiamo ricostruire il rapporto, con molta pazienza, ricercando le occasioni appropriate, magari un concerto, uno spettacolo lirico.”
“Conducono una vita appartata, proprio per evitare incontri indesiderati,” ammise amaramente Jeanpierre.
“Questo non significa niente,” replicò Renata, avvicinandosi ai due uomini seduti in poltrona. “In questo momento sentono il bisogno di starsene in disparte, ma alla fine l’occasione si presenterà e noi dobbiamo essere pronti. Per questo dobbiamo coinvolgere anche Laura. Sono convinta che, se la tua compagna entrasse a far parte della nostra cerchia, le cose sarebbero più semplici; cadrebbe qualsiasi resistenza da parte dell’avvocato, sapendoti felicemente accompagnato. Occorre quanto prima che tu ce la fai conoscere,” continuò la donna. “Ti siamo così affezionati, che non possiamo ignorare i tuoi affetti. Di tua figlia Ilaria, sappiamo solo che sta specializzandosi in giornalismo e nient’altro. Perché questa rigida separazione fra noi e loro?”
“Sono così rispettoso delle libertà altrui che non ho mai voluto imporre le mie amicizie,” precisò Jeanpierre. “Figuratevi che ho persino tenuto distinti i rapporti tra Laura e mia figlia. Ilaria era così affezionata alla madre, che per timore di ferire la sua sensibilità, ho evitato di darle la sensazione che un’altra donna potesse prendere il suo posto, tant’è che Laura non frequenta la mia casa. Ci vediamo nel suo appartamento di città, per non dar fastidio a nessuno. Per quanto concerne voi, sono mancate le occasioni di farvela conoscere, forse perché svolge un lavoro che non ha orari prestabiliti, o forse anche perché in fatto di musica abbiamo gusti differenti. Laura è una ragazza sensibile ed intelligente, sono convinto che alla fine diventerà dei nostri. Vi assicuro che se non fosse dovuta partire, ora, ella sarebbe qui accanto a me.”
“E noi l’avremmo accolta a braccia aperte, perché appunto è la tua compagna,” precisò Adalberto. “Devo ammettere che Renata ed io seguiamo le sue inchieste giornalistiche sull’emittente televisiva che dirige. Oltre ad essere una bella donna, è anche un’ottima professionista, si capisce dalle domande che rivolge ai suoi ospiti: sono sempre quelle che il pubblico si attende che lei faccia.”
“Possiamo continuare la conversazione a tavola,” disse Renata, rivolta ai due uomini.
La donna era appassionata di nouvelle cousine, dove contava più la presentazione che la consistenza dei cibi, tanto che piatti da lei preparati prima saziavano l’occhio poi lo stomaco. Aveva trascorso il pomeriggio a preparare la cena a base di pesce, che sapeva trovare il consenso dei commensali.
“Ti aiuto a portare i vassoi,” disse Alberto.
“Non ti disturbare, fai compagnia a Jeanpierre, riesco a sbrigarmela da sola,” rispose la donna.
“Non mi piace vederti indaffarata, mentre noi ce ne stiamo seduti,” ribatté l’uomo mentre la seguiva in cucina.
Jeanpierre osservava la coppia che si scambiava tenerezze. Vagava con la mente, cercando di cogliere gli aspetti positivi del loro rapporto. Renata sembrava più protettiva, mentre Adalberto più portato alla cortesia. Era raro imbattersi in un uomo che, superato i sessant’anni, conservava, per la moglie, lo stesso trasporto affettivo di quando era fidanzato, come se gli anni non avessero scalfito i suoi sentimenti. Quella coppia trasmetteva serenità e lo colmava di piacere annoverarla tra i suoi amici. Pensava che la stessa Laura, non avrebbe trovato alcuna difficoltà legare con i due, specialmente con Adalberto, che riusciva ad ammaliare chiunque per la sensibilità del carattere e la delicatezza dei gesti.
Renata posò sul carrello un piatto di verdure crude, conciate in maniera tale, che ravanelli, carote e piccoli pomodori avevano l’aspetto di fiori e persino d’animali. Finanche il vassoio accanto ricordava una composizione astratta, per quelle salse colorate, distribuite come tante pennellate intorno a scampi ed altri molluschi. L’uomo teneva la bottiglia di champagne avvolta in un tovagliolo per non riscaldare il contenuto con il calore delle mani.
“Facciamo un brindisi,” disse rivolto a Jeanpierre seduto nel posto assegnato. “Vieni Renata, lo verso anche per te; ora non puoi esimerti di brindare alla nostra amicizia,” continuò porgendole il bicchiere.
I bicchieri tintinnarono e bevvero, anche se la donna accostò appena le labbra, timorosa che lo champagne le facesse girare la testa e, con tutto quello che l’attendeva nel corso della serata, non era proprio il caso.
“Non voglio fare lunghi discorsi, ma qualcosa occorre dire,” esordì Adalberto in vena di dichiarazioni, posando il bicchiere. “La nostra amicizia nasce dalla passione che abbiamo per la musica: il nutrimento dell’anima.” Pronunciò quest’ultima frase scandendo le parole con enfasi. Fece persino una breve pausa per consentire ai suoi interlocutori di riflettere sull’asserzione appena pronunciata. “È la musica che affina la sensibilità, che predispone gli stati d’animo, che aiuta a far apprezzare le piccole cose del vivere quotidiano, tra cui il rapporto con le persone,” continuò, mentre Renata distribuiva nei piatti acciughe crude al limone. “Jeanpierre non giudicare mai un amico troppo severamente, anche se delle volte ti possono sfuggire le ragioni di certi comportamenti,” disse con tono di voce quasi supplichevole. “Da un amico si pretende tutto, perché è semplicemente un amico. Sono convinto che tra noi non debbano esserci segreti. Anzi, sollevare i veli, mettersi a nudo, significa misurare il grado d’amicizia.”
Fu in quel momento che alla donna scivolò la forchetta di mano, e solo l’accortezza del marito evitò che andasse a finire sui calzoni di Jeanpierre.
“Ti chiedo scusa Jeanpierre,” disse prontamente la donna.
“Succede a chi ha faticato tutto il giorno,” intervenne Adalberto accarezzando la mano della moglie. “Non è vero Jeanpierre?” continuò rivolto all’amico.
“Sono d’accordo con te,” rispose l’uomo, cui erano sfuggiti i rapidi sguardi della coppia. “Siediti che ci serviamo da soli,” proseguì Jeanpierre, desideroso di riprendere il filo dell’argomento interrotto, sorridendo alla donna. “M’interessa il discorso che hai accennato sui segreti,” aggiunse, facendosi il piatto.
“Chi non ha un segreto da custodire gelosamente,” ammise Renata.
“E tu quanti ne hai?” chiese Adalberto all’amico, come se volesse escludere la moglie dalla conversazione.
“Che cosa intendi per segreti?” seguitò Jeanpierre.
“C’è sempre una parte in noi che preferiamo non rivelare, forse perché contrasta con l’immagine che vogliamo offrire agli altri, oppure che si discosta dal modello che la società impone.”
“Reprimere la vera indole per conformarsi al mondo circostante,” specificò con enfasi Jeanpierre.
“Certo, qualcosa da tener celato, per paura d’essere invisi, non accettati. I segreti nascono da quest’esigenza. È una forma d’autodifesa.”
“Quindi tutte le nostre azioni sono finalizzate per compiacere gli altri, è questo che vuoi dire?” l’incalzò l’amico.
“Tutto ciò che contrasta con i caratteri dominanti tende a diventare segreto,” tagliò corto Adalberto. “I segreti rendono insicuri gli individui, ma perdono il loro carattere se condivisi con le persone cui si vuole bene, semplicemente perché non ci si sente esposti a critiche.”
“Ma un segreto quando cessa d’essere tale?” ribatté Renata, intenta a servire il brodo di pesce nei piatti dai disegni identici a quelli della zuppiera.
“Le situazioni possono variare di volta in volta,” chiarì Adalberto guardando l’orologio da polso, senza che gli altri notassero il gesto. “Per alcuni i segreti costituiscono un peso così difficile da sopportare che ricorrono al sacramento della confessione per liberarsene, ma, in definitiva, un segreto non è più tale quando i suoi contenuti non producono alcun effetto.
“Sono convinto che tu hai qualche segreto,” insisté Jeanpierre sorridendo. “Sei troppo edotto in materia,” continuò l’amico con tono scherzoso.
“Non esiterei un istante ad aprire il mio animo, ma il problema si pone laddove le ammissioni coinvolgessero più persone, nel qual caso nessuno avrebbe il diritto di decidere anche per gli altri.”
Jeanpierre stava per replicare, quando improvvisamente il telefono squillò. Renata trasalì. Era allarmata come quando durante una passeggiata all’aria aperta, il tuono scuote l’aria, annunciando l’arrivo di un temporale. Nessuno decideva a muoversi, paralizzati dal suono che invadeva la stanza ad ondate sempre più incalzanti. Alla fine fu la donna ad andare a rispondere, come piegata dalla volontà del marito che l’osservava con occhi simili a fessure, un’espressione insolita sul suo volto sempre disteso.
“Pronto,” si limitò a dire la donna. “È per te,” disse, dopo una breve pausa, rivolta al marito.
“Sì, sono io,” disse Adalberto, prendendo la cornetta in mano.
L’uomo annuì con il capo senza dire una parola, ma dall’espressione del viso s’intuiva che doveva trattarsi di una telefonata che aveva a che fare con la sua professione.
“Speravo di essere lasciato in pace, almeno questa sera, ma purtroppo non è così,” cercò di giustificarsi l’uomo, appena ebbe riattaccato il telefono. “Jeanpierre ti chiedo scusa per questo contrattempo. Voi continuate a mangiare. Non voglio rovinarvi la serata. Purtroppo questa professione richiede una dedizione totale.”
“Non ti fare scrupoli,” disse l’amico. “Capisco perfettamente la tua posizione.”
“Non andare,” intervenne la moglie.
“Non posso,” rispose l’uomo. “Stanno già allestendo la camera operatoria.”
“Ti supplico non andare,” insistette la donna “Sostieni che stai male.”
Jeanpierre non riusciva a comprendere l’ostinazione della donna. Prestare soccorso ad una persona era più importante di una cena; c’era qualcosa che gli sfuggiva per via di quegli sguardi duri che dicevano più delle parole che trattenevano, probabilmente per riguardo alla sua presenza. Scusandosi con Jeanpierre, la donna raggiunse il marito nello studio, per rinnovargli l’invito a rimanere, forse con argomentazioni che non voleva far sentire all’ospite. Jeanpierre era costernato, si trovava in una situazione di forte disagio e non sapeva come comportarsi. Gli giungevano le voci concitate dei due che parlavano animatamente, sembrava che in certi momenti litigassero. Non aveva mai visto i due amici in quello stato. Le attenzioni che entrambi si scambiavano in pubblico erano forse finte, se tra le mura domestiche si comportavano come stavano facendo. L’uomo non aveva più fame, tutto il suo appetito se n’era andato dopo la telefonata. Trangugiò un bicchiere d’acqua nell’attesa che qualcuno lo togliesse dall’incomoda posizione. Di nuovo sentì la porta dello studio aprirsi, accompagnata da una grande sbattuta del portone principale. Entrò Renata rossa in viso che stringeva i pugni per controllare la collera che non riusciva a dissimulare.
“È accaduto qualcosa!” l’apostrofò l’amico che giocherellava con una forchetta.
La donna non rispose; si limitò a scuotere il capo.
“Posso esserti d’aiuto?”
“Ci sono altre pietanze da assaggiare,” disse Renata, come se volesse ricuperare le sorti della serata ormai compromessa.
“Come puoi pensare che io riesca a mangiare,” disse Jeanpierre. “Il vostro rapporto è forse in crisi?” provò a chiedere l’uomo.
“È vero il contrario,” rispose in modo sibillino la donna. “Forse perché ci amiamo troppo.”
“Se vi amate, dov’è il problema? Tutto allora si può risolvere,” sentenziò l’uomo.
“Magari, fosse così semplice come tu dici,” sospirò la donna, che sentiva sulle spalle il peso della conversazione.
“Capisco che tu possa essere infastidita, giacché tuo marito è dovuto andare via nel bel mezzo di una cena. Però tu sai la professione che egli esercita; chiamate simili devono sempre essere messe in conto, ormai siete sposati da più di trent’anni e dovresti esserci abituata.”
La donna continuava a scuotere la testa senza rispondere. L’uomo intuiva che voleva dirgli qualcosa ma che non trovava il coraggio di farlo.
“È meglio che me ne vada,” disse Jeanpierre. “La cena la continueremo in una serata più propizia, quando gli animi saranno tornati sereni.”
“Se te ne vai peggiorerai la situazione,” replicò la donna in tono di sfida.
“Non capisco,” disse l’uomo allarmato.
La donna si versò dello champagne che bevve tutto di un fiato, dietro lo sguardo stupito dell’uomo.
“Forse un po’ d’alcol mi aiuterà a trovare il coraggio di spiegarti quello che sta accadendo,” disse con la voce rotta dall’emozione. “Dopo che mi avrai ascoltato, sarai libero di andartene e persino di disprezzarmi se vorrai, e non ci sarà alcun risentimento da parte mia,” continuò con gli occhi umidi di lacrime. “E questo vale anche per Adalberto.”
Anche Jeanpierre ebbe bisogno di bere, per fermare quel turbinio d’emozioni che come un vento caldo gli avevano inaridito la gola.
“Io e Adalberto ci amiamo,” esordì la donna.
“Che cosa c’entra con il fatto che tuo marito sia dovuto andare in clinica per un’emergenza!” sbottò l’uomo spazientito.
“No! Adalberto non è andato in clinica.”
“E dove è andato di tanto urgente da lasciarci soli nel bel mezzo di una cena?” sibilò con veemenza, dimenticando i modi garbati che gli erano soliti.
“Forse in un cinema; in un bar del centro; forse da qualche altra parte, ma non è importante dove sia andato. Egli, con il pretesto della telefonata, ha voluto semplicemente lasciarci soli.”
“Ti stai prendendo gioco di me?” protestò l’uomo.
Renata scuoteva la testa. Cercava l’amico, sensibile e generoso, invece aveva l’impressione di avere di fronte un estraneo, per quel suo atteggiamento ostile. Si allontanò da lui, voltandogli le spalle con risentimento.
“Non fare così: ti prego,” disse Jeanpierre trattenendola. “Non volevo essere scortese,” continuò. “Cerca di comprendermi.”
Era la prima volta che stringeva a sé la donna senza la presenza di Adalberto. Provò uno strano piacere, perché continuava ad accarezzarle il capo e sarebbe andato oltre se Renata non si fosse liberata.
“Non so dove cominciare,” iniziò con voce emozionata. “Tu sei apparso improvvisamente nella nostra vita, nel foyer del teatro, quando Patrizia ti presentò a noi. La passione che avevi per la musica, la sensibilità, la tua cultura, una certa prestanza fisica, facevano di te la persona giusta: l’ideale di uomo che Adalberto inseguiva da anni.”
“Continuo a non capire,” l’interruppe l’uomo.
“Cercherò di essere più chiara,” l’apostrofò la donna, che sentiva crescere la sua temerarietà per gli effetti dell’alcol. “Come giudicheresti un uomo che ama sua moglie alla follia, ma che non riesce a soddisfarla sessualmente?” continuò, spostandosi intorno al tavolo.
“Vuoi dire che il vostro amore è solo platonico?”
La donna fece finta di ignorare ciò che Jeanpierre aveva proferito, e proseguì aumentando il tono, come se la sua voce dovesse arrivare in tutte le stanze della casa.
“L’impotenza di cui soffre lo spinge a cercare una sorta di alter ego,” riprese a dire guardando Jeanpierre diritto negli occhi. “Una persona capace di sostituirlo in ciò che lui, da cinque anni, è incapace di fare.”
“Non ci credo,” balbettò l’uomo con voce esterrefatta.
“Jeanpierre devi ascoltare senza interrompermi, altrimenti non riesco ad arrivare sino in fondo,” proruppe la donna.
“Ti chiedo scusa, ma ho sempre creduto che voi foste una coppia felice,” replicò l’uomo, che non aveva mai visto sul volto dell’amica tanta sofferenza. “Consideravo la vostra unione unica, tanto da portarla ad esempio con amici il cui loro rapporto familiare era in crisi.”
Renata si accasciò sulla sedia; singhiozzando convulsamente.
“Bevi un sorso d’acqua, ti farà bene,” disse l’uomo porgendole un bicchiere.
La donna si bagnò le labbra, guardando con occhi imploranti l’amico che si affannava a prendersi cura di lei. I ruoli sembravano invertiti: lui, la persona ingannata, era a soccorrere colei che si era prestata al gioco. No! Renata non aveva alcuna colpa, casomai l’imputato era Adalberto che l’aveva costretta ad agire in quel modo.
“È inutile che tu prosegui: tutto mi appare chiaro,” disse l’uomo rivolto all’amica. “Non voglio vederti soffrire.”
Renata si era alzata dirigendosi verso il pianoforte a passi lenti, come se le parole di Jeanpierre le avessero restituito coraggio. Sentiva in lui la solidarietà che sino a quel momento le aveva negata.
“Abbiamo coltivato il nostro segreto, così a lungo che sento il bisogno di liberarmene e solo con te posso farlo senza provare vergogna,” disse la donna accarezzando i tasti del pianoforte.
“Allora ti ascolterò se ciò servirà a farti star meglio,” rispose l’uomo che ora capiva la ragione della supplica che Adalberto, durante la cena, gli aveva rivolto quando disquisiva sui segreti.
“Lasciami riannodare i fili del discorso,” continuò la donna, mentre con il dito indice batteva lo stesso tasto del pianoforte, come quando Adalberto doveva darle la nota giusta per l’intonazione di una qualche romanza. Quel suono richiamava alla mente altri suoni. La donna si sedette e cominciò ad accennare l’inizio di uno studio di Chopin, come se la musica potesse ispirarle il sofferto monologo. Non era brava come il marito, ma conosceva diverse pagine del repertorio pianistico dei compositori romantici dell’ottocento. Quella musica, però, non si addiceva al suo stato d’animo. Si arrestò e, sollevando entrambe le braccia, cominciò a martellare i tasti come se stesse suonando una grancassa. Un suono sordo e cupo riempì la stanza. Fu allora che le parole cominciarono a farsi largo: una nenia lamentosa, dalla cadenza simile ai cori recitanti nelle tragedie greche, cui aveva assistito a teatro, tanto da conferire a quella sorta di confessione un carattere di sacralità.
“La donna ama il marito con la stessa dedizione ed è pronta, per lui, a rinunciare al sesso,” iniziò a dire, calzando le dita, simili ad artigli, sulla tastiera. “Per anni rifiuta qualsiasi relazione che il marito le propone,”continuò con voce ferma, spingendo sempre più con rabbia i tasti. “L’uomo, che è medico, insiste: - Un corpo sano non può fare a meno dell’eros. La forzata astinenza produce scompensi, che possono ripercuotersi sulla serenità della coppia, -” seguitò Renata con tono beffardo, rivolgendo lo sguardo verso Jeanpierre. “Allora i due coniugi raggiungono un compromesso. La donna accetta alla sola condizione che possa essere innamorata dell’uomo con cui dovrà andare a letto.”
Renata s’irrigidì appena ebbe terminato di pronunciare la frase. Un silenzio irreale era piombato nella stanza, rendendo palpabile la disperazione della donna per la dichiarazione d’amore rivelata. Dai suoi occhi sgorgavano lacrime silenziose che le bagnavano il viso.
“Non fare così,” disse l’uomo cingendole le spalle.
“Non voglio la tua pietà,” ribatté la donna, scostandosi. “Sono troppo orgogliosa. Solo l’idea che tu possa respingermi mi ferirebbe profondamente. Per questo devi andartene. Non ti voglio coinvolgere in questa storia. Adalberto capirà. Se ne deve fare una regione. Egli non può corteggiare per me tutti gli uomini che mi sono simpatici,” continuò con voce colma di risentimento. “Non volevo che questa sera lui ci lasciasse soli. Desideravo stare con entrambi. Trascorrere una serata in armonia, tra amici. Ora capisci la mia ostinazione a volerlo trattenere. Ma lui, nello studio, è stato inflessibile. Ha affermato che un’occasione come questa non si sarebbe più presentata. Bastava che io fossi stata gentile con te, e tutto si sarebbe svolto in maniera naturale. Ma io, Jeanpierre, non so mentire alla persona che sento di voler bene! Ingannarti e perdere la tua stima, mi rende incapace di qualsiasi azione.
Mai la donna aveva espresso i propri sentimenti in maniera tanto esplicita; non lo aveva fatto nemmeno con il marito nel timore di ferire la sua sensibilità. C’era riuscita con Jeanpierre, un uomo, per giunta, più giovane di lei, di cui si sentiva attratta. Finalmente la tensione accumulata durante la serata s’era dissolta come nebbia al sole. Era pronta ad affrontare persino il sarcasmo che di solito gli uomini riservano alle donne che osano andare contro i canoni tradizionali in fatto di relazioni sentimentali.
È difficile capire quali siano i meccanismi che muovono le emozioni. Il confine, che separa la passione dal suo opposto, è così sottile che è sufficiente il peso di una piuma a fare spostare il piatto della bilancia. Se un sospiro di Jeanpierre fosse stato percepito dalla donna come insofferenza anziché come anelito d’amore, ella avrebbe agito di conseguenza senza alcuna esitazione. L’uomo era cosciente di quello che passava nella mente della donna e benché il suo animo traboccasse d’identica passione, non si era sentito così solo come in quel momento. Non sapeva come infrangere quel muro invisibile che li separava, e più il tempo passava, più aumentava in Renata la convinzione dell’imminente rottura, tant’è che il busto leggermente flesso, di chi esprime sofferenza, stava distendendosi, come quello di certi felini che raccolgono le forze prima di spiccare il salto sulla preda. La donna si voltò proprio nel preciso istante che Jeanpierre stava chinandosi su di lei. Sembrava che qualcuno avesse regolato i loro gesti, perché le bocche si unirono in un lungo e appassionato bacio.
“Non ho parole per esprimere i miei sentimenti,” sussurrò Jeanpierre con la voce rotta dall’emozione. “Ciò che hai affermato mi commuove,” continuò mentre la riempiva di baci. “Ti ho sempre guardato come un’amica, per il rispetto che ho di Adalberto.”
Certo, lo aveva colpito l’eccessiva disponibilità dell’uomo: quel volere essere simpatico a tutti i costi; la sua eccessiva cordialità, tanto da essere considerato una sorta d’ambasciatore del buon umore, tra gli amici che frequentava. Cos’altro poteva fare un uomo impotente per dimostrare alla propria moglie il suo amore, se non riempirla d’attenzioni?
“In certi momenti la tentazione di baciarti è stata forte per le occasioni create da tuo marito,” aggiunse. “Ero convinto che lo facesse per mettere alla prova la mia lealtà. Mi sono trattenuto solo per la consapevolezza dell’amore che nutrivi per lui. Mi rammarico solo di non essermi accorto del dramma che si svolgeva sotto i miei occhi,” concluse.
“Non parlare; non ti devi giustificare,” disse la donna, che si sentiva come un recipiente vuoto che attende di essere colmato di baci e tenerezze.
Tutto il suo corpo era in subbuglio. I toccamenti di Adalberto mai le avevano procurato tanto piacere, forse per la consapevolezza, che con lui non ci sarebbe stato alcun seguito. Aveva ragione il marito nel sostenere come l’eros fosse importante per l’equilibrio della persona; se ne rendeva conto in quel preciso istante, per la carica d’energia che il suo corpo sprigionava, creandole un senso d’appagamento sconosciuto.
“Non stai bene?” chiese Jeanpierre vedendola silenziosa.
Renata scosse lievemente il capo, accompagnando il gesto con un sorriso.
“Ti senti in colpa nei confronti di Adalberto?” proseguì.
“No, egli proverebbe gioia, sapendomi felice. Sa che io lo amo,” sospirò. “Lo porto sempre nel mio cuore,” squittì ancora la donna. “Però non fraintendermi…, Jeanpierre, desidero te in questo momento!” esclamò.
Quei due corpi, che si stringevano sul divano, rappresentavano la prova conclamata che se al mero istinto atavico dell’accoppiamento subentrano pensieri che nutrono la mente, allora ogni gesto si carica di significati dove tutto appare stupefacente. Ciò che rende prezioso uno scrigno sono le gemme, non tanto il forziere che le contiene, proprio come l’anima rispetto al corpo. Passione, sentimento, emozione, nel crogiolo dell’intelletto, ispiravano ogni loro azione, sino al punto che la donna dominava l’uomo per la travolgente sessualità liberata. Jeanpierre le stava slacciando la blusa, ma la donna lo trattenne. Gli fece cenno di seguirla verso la scala che portava ai piani superiori. Solo nel letto che condivideva con Adalberto si sarebbe donata a lui.
La relazione fra Jeanpierre e Renata era come un fiume carsico, le cui acque inabissandosi in grotte sotterranee tra cascate spumeggianti e vortici impetuosi, riappaiono, placate, più a valle, senza l’irruenza accumulata nelle viscere della terra. Adalberto era soddisfatto che la moglie avesse scelto Jeanpierre come amante. Tra i tanti motivi, oltre a quelli legati ai comuni interessi musicali, c’era la circostanza che l’uomo fosse unito sentimentalmente a Laura. Ciò escludeva che il rapporto potesse sfociare in una passione intensa da minacciare il suo matrimonio. Considerava la donna alla stregua di una sua paziente sottoposta a terapia, colmandola d’attenzioni, tanto che chi li vedeva insieme era convinto che i due stessero vivendo una nuova stagione d’amore. Jeanpierre non aveva dovuto cambiare abitudini; si recava dagli amici quando Laura era impegnata in televisione. Se era presente Adalberto, la serata procedeva con le solite discussioni intervallate da ascolti musicali, tratti dalla loro ricca collezione di dischi; mentre se ad accoglierlo era la donna, significava che il marito aveva tolto il disturbo, (sarebbe ricomparso il giorno dopo, come se nulla fosse accaduto). Era stato Adalberto a consigliare che i loro appuntamenti si tenessero in villa. Nessuno avrebbe pensato che lì si consumasse una storia di “tradimenti” con la complicità del marito. L’uomo si era ritagliato il ruolo di fedele cane da guardia, deciso ad azzannare chiunque avesse tentato d’invadere la zona posta sotto la sua protezione. Sembrava che l’uomo avesse sublimato la carica sessuale nell’impegno che metteva nel lavoro. La sua abilità in sala operatoria, nonostante l’età, era portata ad esempio, ed i giovani chirurghi facevano la fila per fare pratica sotto la sua guida.
In pubblico, il comportamento di Jeanpierre e Renata era improntato ad un apparente formalismo, proprio per allontanare qualsiasi sospetto; mentre in privato, evitavano qualsiasi riferimento alla relazione, per una forma di riguardo nei confronti di Adalberto. Però, chi li avesse visti sorridere alle battute ironiche di quest’ultimo, ammiccare alle dotte citazioni di Jeanpierre, s’intuiva che c’era qualcosa d’altro. Una fuggevole stretta di mano si prolungava sempre più del solito; ad una frase di cortesia di Jeanpierre ne faceva seguito un’altra di Adalberto ricca di espressioni. Renata, quando l’atmosfera si caricava di seduzione per certi silenzi che calavano improvvisi, interveniva dispensando gesti e complimenti nelle giuste dosi a dimostrazione che nella scala degli affetti prima veniva il marito e subito dopo Jeanpierre. D’altronde quei due uomini, la donna li amava entrambi perché ad ognuno era affidato un ruolo, che cercavano di interpretare nel migliore dei modi. Forse stava nell’occasionalità degli incontri, nell’esito incerto che avrebbe assunto la serata, sta di fatto che Jeanpierre faceva di tutto per non mancare agli appuntamenti, specialmente da quando si era accorto delle attenzioni che la donna gli tributava anche alla presenza di Adalberto, come se i due uomini fossero diventati la stessa persona, giacché, molte volte, proseguiva la discussione iniziata con il marito attraverso l’altro. Questa metamorfosi che nessuno ostacolava, rinsaldava la loro unione, suscitando emozioni che si riverberavano positivamente anche all’esterno. Lo stesso rapporto tra Jeanpierre e Laura cresceva d’intensità di pari passo con quello di Renata, come se l’energia accumulata si trasferisse dall’uno all’altra esperienza senza alterare gli equilibri.
Erano due settimane che Jeanpierre non vedeva gli amici. Aveva trovato nella segreteria telefonica di Casa degli elci un messaggio di Adalberto che chiedeva, senz’altro aggiungere, come stava. Così quel pomeriggio lo aveva chiamato annunciando il suo arrivo, subito dopo terminato il consiglio d’amministrazione della società dello studio, di cui era presidente. Laura era impegnata in televisione sino a tardi, e sovente accadeva che, in circostanze simili, l’uomo preferisse trascorrere la notte nella sua abitazione di campagna. Erano le ventidue quando bussò alla porta della villa, nascosta dalle chiome di due giganteschi ippocastani, le cui foglie già si tingevano di ruggine per l’approssimarsi della stagione fredda. Aveva in mente le parole di Adalberto che gli comunicavano l’entusiasmo per la visita, tanto che si stupì di vedere Renata ad accoglierlo.
“Scusami il ritardo,” disse l’uomo dissimulando la sorpresa. “Purtroppo tra i punti all’ordine del giorno c’era l’approvazione del bilancio,” aggiunse baciandole la fronte in segno di saluto.
“Devi essere stanco,” l’interruppe Renata, accarezzandogli il viso. “Te lo leggo negli occhi.”
“L’idea di trascorrere una serata diversa mi è stato di conforto,” ribatté l’uomo varcando la soglia. “Ero così annoiato mentre esponevo i vari capitoli, che ho creduto di non riuscire ad arrivare sino in fondo,” continuò sorridendo.
“Ora non pensarci, cerca di rilassarti,” suggerì la donna con voce premurosa.
Jeanpierre era pratico della casa. Superò la porta dello studio di Adalberto, attento a non scivolare sullo scintillante parquet del corridoio che conduceva al soggiorno. La tavola era apparecchiata per due, significando che erano soli. Non chiese informazioni dell’uomo per delicatezza nei confronti della donna. Intuiva il corso che avrebbe avuto la serata, ma non volle pensarci, tutto doveva svolgersi con la massima naturalezza e la musica che Renata aveva scelto contribuiva allo scopo. Si lasciò andare alle note dei preludi di Rachmaninov, movendo lentamente il capo, ora destra ora a sinistra, per meglio apprezzare alcuni passaggi virtuosistici di pianoforte e, immediatamente, la spossatezza della giornata lasciò il posto ad altre sensazioni. Lo stesso pezzo lo aveva ascoltato nell’auditorium cittadino l’estate scorsa insieme ad Adalberto e Renata. Anzi la donna, che di quel concerto aveva conservato l’invito con i titoli eseguiti, aveva programmato, nel suo impianto stereofonico, gli stessi ascolti, proprio per richiamare alla mente l’esibizione di quella sera, in cui i tre amici avevano vissuto un’intensa esperienza emotiva. Adalberto non c’era ma quella musica n’evocava la presenza.
“Ti ricordi il concerto di quella sera?” chiese Renata.
“Ho bene in mente i commenti che facemmo seduti in quella gelateria all’aperto. Adalberto sosteneva che i preludi eseguiti da Ashkenazy non avessero confronti; ora capisco il suo convincimento udendo questa registrazione.”
“Lui è fatto così. Quando deve assistere ad un concerto si prepara ascoltando diverse esecuzioni, pronto a giudicare l’interpretazione che si discosta dai suoi modelli di riferimento.”
“Concordo con lui nell’affermare che una buona esecuzione deve suscitare emozioni, come sosteneva quella sera. Ascolta questo passaggio,” disse con la mano ferma a mezz’aria.
La donna congelò il gesto di accendere le candele sulla tavola imbandita, annuendo con il capo, per poi aggiungere con espressione amorevole: “Ho fatto bene, allora, a programmare questi ascolti.”
La frase non ebbe risposta, semplicemente perché lo sguardo dell’uomo conteneva tutta la tenerezza possibile, ed era la dimostrazione della sua raggiunta intesa spirituale. Per conseguire lo stesso grado d’intensità, la donna, però, aveva bisogno d’altro. Confidare all’uomo i più intimi segreti, era il modo d’infrangere la barriera residua per donarsi a lui senza complessi di colpa. Per un uomo avere un rapporto con una donna diversa dalla propria compagna rientrava tra i comportamenti accettati, ma non altrettanto si poteva dire per la donna. Benché Renata avesse il consenso del marito, sapeva che il suo sarebbe stato un comportamento esecrato dai più. Era questo giudizio negativo che doveva scrollarsi di dosso. Con Jeanpierre, era come se fosse sempre la prima volta. Quindi aveva bisogno di continue sollecitazioni, pur sapendo che una volta vinta l’indecisione, sotto l’incalzare dei suoi baci, si sarebbe caricata d’energia, tanto che la donna gentile, riservata e pudica, spariva per far posto ad una femmina determinata, da intimidire lo stesso Jeanpierre durante l’amplesso. Era consapevole che fosse l’eros a guidare le sue pulsioni, che andavano solo assecondate, come l’aveva tranquillizzata l’uomo. L’unico cruccio di Renata era l’esclusione, dai giochi amorosi, del marito così presente nella sua mente, da confondere persino i ruoli dei due uomini. Di questo voleva parlare con Jeanpierre. Sentire la sua opinione l’avrebbe aiutata a superare lo stato di tensione.
“Vedi Jeanpierre, tu ed Adalberto mi siete così vicini, che le vostre personalità sono percepite nella mia mente come un’entità unica,” sospirò la donna, mentre aggiungeva della salsa sulle pietanze che stava servendo. “Non so se riesco a farti comprendere quello che mi sta accadendo.”
“Sei innamorata di entrambi,” ribatté l’uomo. “E questo ti porta ad esaltare aspetti dei nostri caratteri affini al tuo. Di noi, tu hai preso le migliori virtù, creando nella tua mente una sorta d’uomo ideale, capace di appagare ogni tua esigenza.
“Per me, voi siete due metà che diventano un intero,” precisò meglio la donna, porgendogli il piatto. “Alcune volte confondo persino le vostre figure. Se ho bisogno dell’uomo pratico in te vedo Adalberto; viceversa, se sono con lui ed ho bisogno di tenerezze, allora, mi appari tu. Ormai queste evocazioni spontanee sono così frequenti, che ho l’impressione di avervi sempre accanto,” si lamentò.
“Ma è normale il desiderio che tu hai,” incalzò Jeanpierre. “Anche a me capita che al volto di Laura si sovrapponga il tuo, specialmente in quei momenti in cui vorrei che Laura ti somigliasse per certe tue sensibilità.”
“Non voglio fare paragoni; quello che sento è qualcosa di diverso, di più complesso,” l’interruppe la donna. “Tu ora sei di fronte a me; sei solo la metà dell’uomo ideale, l’altra metà la sento dentro di me, come se io fossi anche Adalberto.”
Jeanpierre ebbe un moto di fastidio, senza darlo a vedere. La presenza di Adalberto incombeva sempre, una sorta di convitato di pietra. Egli avrebbe preferito incontrarsi in un altro luogo, ma la donna aveva sempre sostenuto che la villa fosse il posto più sicuro, tanto che si era lasciato convincere.
“Interessante quello che dici,” sibilò, incapace di altri commenti.
“Quello che mi fa più soffrire è l’esclusione di Adalberto dai nostri momenti d’intimità,” si lasciò andare la donna. “Lo so che sono fantasie stravaganti, ma volevo comunicartele,” concluse.
“Delle volte mi domando perché anch’io pur avendo una donna con cui sto facendo progetti di matrimonio, senta il desiderio di intrattenere un’altra relazione,” esordì Jeanpierre, ignorando volutamente l’ambiguo riferimento al marito. “Quante volte me lo sono chiesto!” continuò con lo sguardo fisso sul bicchiere di vino che aveva alzato per bere.
“Qual è stata la risposta che ti sei dato,” s’affrettò a dire Renata, abbassandogli il braccio che le impediva di osservare l’espressione del suo viso.
“Ognuna di voi appaga intime necessità, che non avevo mai avvertito prima,” disse l’uomo avvicinandosi alla donna. “Quello che mi piace della nostra relazione è il percorso interiore che facciamo per raggiungere l’intesa sessuale,” continuò. “È questo scavare dentro di noi che rende il rapporto speciale,” sussurrò baciandole teneramente la nuca. “Con Laura è tutto più semplice. È il richiamo dei sensi; è l’attrazione a prima vista; è l’istinto che prende il sopravvento, senza mediazione alcuna. Forse perché sto invecchiando, ma tutto ciò che precede l’atto è importante quanto l’atto stesso. È attraverso la messinscena dei preliminari che cadono le ansie, i timori della prestazione. Mostrando la propria anima, come noi facciamo, ritorniamo alla purezza primitiva di Adamo ed Eva. Essi, nel giardino dell’Eden, colgono il frutto proibito con la stessa curiosità dei fanciulli per assecondare istinti primigeni, gli stessi che noi cerchiamo di evocare, togliendoci la maschera del falso perbenismo. Sono due settimane che non ci vediamo. Non puoi immaginare quanto mi sei mancata!” disse stringendola con impeto.
La donna si fece piccola tra le sue braccia. Affondò il viso sul suo petto, scuotendo la testa in segno d’assenso per quello che l’uomo aveva affermato.
La luce azzurrognola dell’impianto stereo, collocato sul ripiano della libreria, rischiarava appena la stanza del soggiorno, dove ancora aleggiava un leggero odore di cera bruciata. I listelli di legno del parquet, assestandosi, provocavano scricchiolii simili ai passi di una persona che procede con cautela. Era trascorsa più di un’ora da quando Jeanpierre e Renata, erano saliti in camera, accompagnati dalle sonate per pianoforte di Alexander Skrjabin. Stesi sul letto, con i sensi appagati, godevano quei momenti d’estraniamento che seguono quando si è fatto l’amore con passione. Dalla porta socchiusa del bagno, una striscia di luce, come un raggio di sole, si stagliava in un angolo del soffitto, ricadendo diffusamente sul gran letto, modellando il corpo nudo dell’uomo. Il suo ventre ansante sembrava prolungare il piacere, come l’eco di una voce, il cui suono continua a propagarsi anche quando la fonte d’emissione è cessata. L’uomo aveva sussurrato alcune parole.
“Che cosa hai detto?” chiese la donna che per una forma di pudicizia era avvolta nel lenzuolo a mo’ di tunica.
“Non avevo messo in conto di trascorrere la notte fuori,” s’affrettò a dire. “Debbo lasciarti.”
“Non farlo,” supplicò.
“Non posso rimanere,” insistette, scendendo dal letto.
“Lo sai quanto mi piace svegliarmi tra le tue braccia la mattina.”
“Sarà per un’altra volta,” continuò l’uomo, entrando nel bagno. “Domani ho un convegno.”
“Potrai partire da qui,” suggerì la donna. “Lo hai fatto altre volte.”
“Devo prendere alcuni documenti che ho in casa e passare di nuovo allo studio per firmare...”
Lo scrosciare della doccia aveva coperto la sua voce. La donna rimase ad osservare il riquadro di luce, come se da un momento all’altro dovesse riapparire e completare la frase che non era riuscita ad afferrare. Ma poi la sua mente prese altre strade. Sapere che l’uomo con cui aveva fatto all’amore, era di là che usava il suo bagno, impregnando di se stesso ogni cosa, accresceva in lei il senso di appartenenza, da perdonargli persino la frettolosa partenza. Dai rumori intuiva le azioni che stava compiendo. Ecco: ora poggiava il sapone sul ripiano; ora si passava la spugna sul corpo; ora si frizionava la pelle con l’accappatoio; ora assolveva la funzione fisiologica di urinare. Il fragore dello sciacquone che ne seguì, rimbombò per tutta la casa, a causa delle vecchie tubature. Era quasi impossibile usare il bagno del piano superiore in forma anonima. Non era questo l’unico inconveniente della casa. Se la disposizione su due piani aveva rappresentato una comodità i primi tempi di matrimonio, ora, con il trascorrere degli anni, fare quelle rampe di scale era diventato un supplizio, tanto che Renata le faceva solo due volte il giorno: la mattina per scendere e la sera per salire. Lei aveva una stanza tutta sua a pianterreno, che dava su un balcone, collegato al giardino attraverso una gradinata, la cui balaustra aveva lo stesso stile di quella dell’ingresso principale. La donna considerava quella stanza il luogo più suggestivo della casa, per via di una gran vetrata che occupava l’intera parete, fatta installare, negli anni trenta, per sfruttare la luce naturale del giorno, da una zia di Adalberto, valente pittrice, specializzata in ritratti, tanto che lo stesso Adalberto, da bambino, aveva posato per lei alcune volte. Durante la stagione autunnale, quando i colori della natura si facevano più forti e i rami degli alberi, mossi dal vento, lambivano la vetrata, Renata aveva la sensazione di ammirare un quadro impressionista. Il vecchio giradischi, spodestato dal nuovo lettore ottico di CD, in quella stanza, aveva trovato la giusta sistemazione insieme ai dischi di vinile che la donna ascoltava sovente distesa sul divano con un libro in mano.
“Perché ti sei alzata,” disse l’uomo vedendo la donna che aveva già indossato la vestaglia. “Conosco la strada.”
“Voglio accompagnarti,” rispose la donna.
Renata lo seguì con lo sguardo sino a quando Jeanpierre non raggiunse il cancello, di fronte il quale aveva parcheggiato l’automobile. Dal frigo prese una bottiglia d’acqua minerale attenta a non far rumore. Bevve a piccoli sorsi, colmando ancora il bicchiere per portarselo in camera. Stava per salire le scale, quando si ricordò che doveva spegnere l’amplificatore della programmazione musicale. Attraversò il soggiorno senza accendere la luce, seguendo il lampeggiare dell’apparecchio che come un faro le indicava il percorso. Nel ritornare indietro si arrestò di fronte alla sua stanza preferita, osservando la maniglia indecisa se entrare. C’era qualcosa al suo interno che l’attraeva e con un gesto quasi di sfida, varcò la soglia con il bicchiere in mano, richiudendo la porta dietro di sé. La finestra doveva essersi aperta. Il vento agitava le tende, provocando un rumore simile alle vele imbrogliate di una barca. Il suono metallico delle ante agganciate riportò la quiete nella stanza. Si udì il fruscio delle lenzuola, segno che la donna stava coricandosi sul divano letto, ma da sotto la porta, la luce continuò a mandare bagliori ancora per molto.
Jeanpierre rivide Renata la settimana successiva e nulla lasciava presagire che l’incontro avrebbe avuto uno svolgimento dagli esiti imprevedibili. Laura era occupata in televisione per il programma del giovedì sera, aperto agli ascoltatori che potevano intervenire con telefonate in diretta. Il trafugamento da una chiesa di campagna di una statua lignea policroma del cinquecento, rappresentava il pretesto per discutere dei beni culturali dell’intera provincia. Gli operatori si erano spinti nelle pievi più sperdute, nei vecchi borghi, negli antichi castelli, non tralasciando musei e pinacoteche. Per preparare i filmati della trasmissione e cercare gli ospiti da invitare in studio, Laura era stata impegnata per l’intera settimana. Con Jeanpierre si erano sentiti per telefono, subito dopo il suo rientro dal convegno di Milano e la donna, appreso che avrebbe trascorso la serata in compagnia degli amici, ne fu felice. Al contrario, le sarebbe dispiaciuto se fosse rimasto solo in casa, dimostrando che la relazione con Renata non aveva modificato abitudini e tanto meno rotto gli equilibri esistenti. Molti uomini allacciavano relazioni sentimentali ogni volta che i loro matrimoni erano in crisi, o si accorgevano della fragilità della loro unione solo quando erano tra le braccia d’altre donne. Jeanpierre non si trovava in nessuna di queste condizioni: più cresceva il coinvolgimento emotivo nei confronti di Renata più aumentava l’amore per Laura. Delle volte attribuiva quest’atteggiamento ad un presunto complesso di colpa; ma ragionandoci sopra era convinto che non fosse questa la causa. Renata non sottraeva amore a Laura, anzi lo fortificava per un’insolita commistione d’affetti di cui tutti, se pur indirettamente, beneficiavano. Il primo a trarne vantaggio era Jeanpierre che si sentiva sempre più appagato; Renata che aveva riscoperto l’amore; Adalberto che non si considerava più un reietto; Laura che aveva messo ordine nella sua vita affettiva. Interrompere la relazione significava riportare il caos nei sentimenti di quelle persone. Egli spesso si chiedeva come avrebbe reagito Laura se avesse saputo che gli interessi per Renata oltrepassavano quelli musicali. Gli capitava di fare queste riflessioni in macchina, quando lasciava vagare la mente per vincere la monotonia della strada che percorreva per raggiungere i suoi clienti. L’attributo fisico più ricercato nelle donne era la giovinezza. Partendo da questa constatazione, si era fatto l’idea che la relazione con Renata, data l’età, avrebbe avuto tutte le attenuanti del caso, anche se lui la pensava diversamente rispetto alla maggioranza degli uomini. Infrangere le regole era una prerogativa solo dei maschi e le femmine che osavano farlo subivano la gogna. Non riusciva a concepire che donne non più giovani erano considerate alla stessa stregua di certi articoli scaduti o passati di moda. Significava ammettere che la data di nascita di Renata, stampigliata sul documento di riconoscimento, avesse lo stesso valore delle etichette con il codice a barre che attestano la validità di un prodotto. L’accostamento gli era venuto spontaneo per un seminario che aveva tenuto agli associati del suo studio sulle strategie di vendita. Era così assorto nei suoi pensieri che non s’era accorto d’essere passato con il giallo, tagliando la strada ad una macchina che proveniva in senso inverso dalla fabbrica di laterizi dove era diretto.
Non c’era stata una volta che Jeanpierre e Renata avessero fatto l’amore nella stessa identica maniera. Superate le iniziali inibizioni, la donna si caricava d’energia, sino a diventare la protagonista assoluta. L’uomo l’assecondava in tutto, convinto che fosse la medicina giusta per ricuperare gli anni della forzata castità. In alcuni momenti sembrava che Adalberto fosse lì con loro; si capiva dal temperamento della donna che mutava secondo le circostanze da rendere ancora più eccitante il gioco di seduzione che s’instaurava tra i due. Questo doppio ruolo, che lei interpretava del tutto inconsciamente, sembrava placarsi quando proiettava in Jeanpierre la parte del marito che era in lei. Spinta da un istinto ferino, di cui ignorava possibili effetti collaterali, agiva come se facesse l’amore con due uomini, dominando l’intero rapporto.
Renata, quella sera, indossava una lunga vestaglia trasparente che esaltava la sensualità del corpo. Jeanpierre gliela aveva quasi strappata, tanto era il desiderio di possederla. L’aveva sdraiata sul letto, facendola volteggiare in aria. Lei aveva chiuso gli occhi abbandonandosi alle sue carezze, ma poi la donna era riuscita ad affermare la sua volontà, da sottrargli ogni supremazia. Era seduta sopra di lui con le mani che gli bloccavano i polsi come in una mossa di lotta grecoromana. Il suo busto eretto sembrava un monolite, il cui biancore spiccava nella stanza avvolta nella penombra. Aveva girato il capo alcune volte, scuotendo la massa di capelli per meglio accompagnare i movimenti del corpo. Sussurrava mezze parole; emetteva suoni gutturali; pronunciava il nome di Jeanpierre con la stessa cadenza di una nenia, poi quello di Adalberto invocato prima con voce sommessa poi sempre più forte, sino a riecheggiare nella stanza. L’uomo aveva creduto che lo avesse fatto per un processo d’immedesimazione, ma ebbe qualche sospetto, quando la donna osservava con insistenza la porta della camera che si affacciava sul corridoio.
“Tuo marito è qui?” chiese con voce sgomenta.
La donna fece finta di non udire; continuava ad invocare il nome del marito, incurante che l’uomo si agitasse sotto di lei.
“Rispondimi: tuo marito è qui?”
“Sì è in casa,” rispose con voce ferma.
“Come hai potuto permetterlo!” sibilò sprezzante.
“Tutte le volte che c’incontriamo esce per alcune ore,” si giustificò la donna. “Al suo rientro si trasferisce in una stanza del pianterreno, rimanendovi sino a quando non te ne vai.”
Si sentirono alcuni rumori provenienti dal piano di sotto e dei passi ovattati che salivano frettolosamente le scale.
“Togliti,” saltò su l’uomo. “Voglio rivestirmi.”
“Non te lo permetterò!” ribatté, esercitando una maggiore pressione con il corpo.
La porta si aprì e apparve Adalberto. Indossava un pigiama di seta blu a righe rosse ed una vestaglia dello stesso colore, riuscendo ad essere elegante anche quando si preparava per la notte. La sua figura aveva un aspetto aristocratico. L’incidere di una persona non è una predisposizione naturale, ma è l’adattamento del corpo allo spazio fisico in cui è vissuto. Adalberto era cresciuto in una villa dalle stanze immense, non in appartamenti di città dove tutto è ridotto, questo appariva dalla sua molle falcata, per certi versi simile a quella di un soldato che marcia con lo sguardo diritto, sicuro di non trovare ostacoli sul suo percorso. La sua padroncina lo aveva chiamato e lui come un fedele cane da guardia era accorso. Fece alcuni passi, ma poi si arrestò per non varcare la linea che divideva lo spazio a lui precluso. Si trattava di pochi metri, ma mai distanza era apparsa così siderale. Jeanpierre, con le braccia aperte e le gambe leggermente raccolte, sosteneva il peso della donna. Lei muoveva i glutei per meglio sentire la consistenza del pene, mentre lui inarcava il bacino come per liberarsi dal giogo. Sembrava di assistere ad un rito primordiale. Corpi sudati si attraevano e respingevano in una lotta la cui posta in gioco era l’affermazione della propria volontà. Il viso d’Adalberto non lasciò trapelare alcun’emozione; la sua espressione era la stessa di quando visitava i pazienti nel suo studio medico stesi sul lettino.
La sera del giovedì della settimana precedente, egli aveva lasciato la casa appena Jeanpierre era apparso sul vialetto del parco. All’inizio trascorreva il tempo presso il bar del teatro a parlare di musica con il proprietario, presidente del circolo musicale “La Barcaccia”. Da quando qualcuno aveva notato l’assenza di Renata, per evitare di fornire spiegazioni poco convincenti su presunte indisposizioni della donna, passava le ore in una sala cinematografica di periferia, preferendo, infine, la sua clinica, dove vi rimaneva sino a notte tarda a sfogliare riviste mediche d’aggiornamento professionale. Rientrava in villa attraverso l’ingresso secondario, per coricarsi nella stanza preferita della moglie. L’intelaiatura metallica, che reggeva le lastre di vetro della stanza, sembrava una sorta di radar, attraverso il quale egli riusciva a cogliere ogni respiro della casa. Come in un organismo umano esistono punti sensibili e ricettivi, la stanza con la vetrata, nel corpo della casa, rappresentava il giusto equivalente. Della serata, aveva colto ogni particolare, persino la frase non afferrata da Renata, per via dell’acqua che batteva sul piatto della doccia. Si era meravigliato che Jeanpierre non avesse trascorso la notte con lei. Sapeva come la donna amasse svegliarsi la mattina tra le sue braccia. Renata raccontava ogni sensazione provata con Jeanpierre. Lo faceva per condividere ogni attimo dell’esperienza, sino al punto che l’uomo poteva identificarsi nell’altro. Ed era rimasto piacevolmente sorpreso vederla apparire nella stanza con il bicchiere d’acqua in mano.
“Vieni tra le mie braccia, voglio tenerti stretta sino a quando non ti svegli,” le aveva detto, scostando le coperte come avrebbe fatto Jeanpierre.
Adalberto le accarezzava il ventre, le baciava i seni, con l’intento di impregnarsi dell’odore di Jeanpierre che sentiva ancora sulla pelle della donna, alla guisa di certi animali che si cospargono di sterco della preda che inseguono per confondere le tracce. Sapere che la vagina della moglie fosse ancora pregna del liquido seminale di Jeanpierre, stimolava la sua fantasia. Aveva allungato la mano accarezzandole la vulva ancora umida. Ne percorreva la lunghezza, per coglierne il profumo, annusando le dita che sapevano di muschio selvatico. La sua impotenza l’aveva portato ad esaltare altri sensi del corpo. Come i ciechi utilizzano i polpastrelli delle mani per percepire il mondo circostante, a lui stava accadendo la stessa cosa con l’olfatto. Renata si era eccitata, ma cercava di contenere le espressioni; aspettava al marito prendersi la parte di piacere; lei non doveva fare altro che assecondare i suoi gesti. Tra Adalberto, finalmente reintegrato nel suo ruolo, e Jeanpierre, che lo aveva sostituito nell’atto della penetrazione, la donna non avvertiva più alcuna differenza. Si era rannicchiata tra le braccia del marito. Non esisteva sensazione più bella che svegliarsi la mattina tra le braccia dell’uomo con cui aveva fatto l’amore.
Adalberto per curare l’impotenza, si era sottoposto a numerose visite specialistiche ma nessuna patologia era mai emersa. Un collega endocrinologo gli aveva consigliato un nuovo farmaco per stimolare l’erezione. I risultati erano stati così deludenti che aveva smesso di assumerlo. Sotto la doccia provava a masturbarsi per controllare l’infermità. L’effetto era sempre un modesto gonfiamento che durava l’attimo dell’eiaculazione, perché poi il pene ritornava la solita appendice floscia buona per pisciare. Solo l’amore di Renata aveva placato la sua pena, e per evitare che la malattia coinvolgesse la donna con la forzata astinenza, le aveva imposto la sua cura, che a ben vedere stava dando giusti risultati.
“È accaduto qualcosa?” apostrofò la moglie, entrando nella stanza.
Nel tono di voce e nel viso leggermente accigliato c’era una sorta di rimprovero. La donna aveva contravvenuto alla regola principale, rivelando la sua presenza. L’inopportuno gesto sarebbe stato foriero di guai. Lo capiva dallo sguardo di collera di Jeanpierre.
“Stai bene?” soggiunse, cercando di cogliere nell’espressione della moglie le ragioni del suo comportamento.
“Sì sta bene,” s’intromise Jeanpierre sollevando il bacino per scrollarsi il peso di dosso.
La spinta pelvica aveva provocato ad entrambi un sottile piacere, tanto che la donna non era riuscita a trattenere un gemito. Immedesimarsi nell’altro attraverso gli occhi della propria moglie era un conto; altra cosa era vedere la proiezione di se stesso in carne ed ossa. Un profondo senso di disagio lo aveva assalito; voleva andarsene, vista l’inutilità della presenza.
“Sdraiati accanto a me!” intimò la moglie, che aveva colto le sue intenzioni.
La donna non riusciva a comprendere perché tre persone che avevano un intenso legame spirituale non potevano condividere anche nuove esperienze. Era convinta che alla base della loro amicizia ci fossero comportamenti, le cui radici affondavano nel subconscio. E la relazione tra lei e Jeanpierre, con la complicità del marito, ne era la prova evidente. Quando la sessualità non è più legata alla procreazione, la coppia non rappresenta più la combinazione ideale. Lei era pronta piantare il bisturi ancora più in profondità sino a scarnificare la propria anima per scoprirlo. E benché i due uomini fossero impreparati, la loro ostilità non era assoluta. Forse perché a suggerire comportamenti poco ortodossi fosse una donna, e questo mitigava il rischio dell’esperienza che rappresentava il massimo della trasgressività, minando i pilastri della stessa istituzione familiare.
“Non farlo!” intimò Jeanpierre.
“Che fastidio ti dà se è qui con noi,” rispose lo donna. “Può mai un impotente farti paura?” disse con un tono di voce che sfiorava l’ironia. “Tu devi ascoltare solo me!” aggiunse rivolta al marito, affinché fosse chiaro chi avesse voce in capitolo.
Adalberto non riusciva a sottrarsi alla volontà della moglie. Si avvicinò esitante, incurante delle rimostranze di Jeanpierre, che sperava ancora in un gesto di comprensione, sempre presente in circostanze simili tra uomini. Cercava di capire il perché la donna avesse voluto coinvolgerlo. Poi, n’afferrò le ragioni, forse per quello sguardo complice quasi d’intesa, con il quale voleva riaffermare il vincolo di solidarietà tra coniugi, nei momenti di difficoltà, pronunciato il giorno del loro matrimonio. Forse la donna, invocando la presenza del marito, voleva porre fine ai sotterfugi e agli estenuanti compromessi, che avrebbero pesato negativamente sull’amicizia di entrambi nei confronti di Jeanpierre. Forse perché aveva voluto accelerare un percorso in fondo al quale sarebbero giunti in ogni caso. Jeanpierre, l’uomo sensibile, non poteva ignorare il disperato appello. Certo lo aveva fatto senza chiedere il suo parere. Ma nessun uomo razionale avrebbe potuto accogliere una richiesta dal sapore blasfemo.
“Come puoi pensare che io possa fare l’amore con una donna il cui marito giace nello stesso letto?” saltò su l’uomo. “Lasciaci soli,” disse rivolto ad Adalberto.
“Non ascoltarlo,” rispose con veemenza la donna. “Ti prego amore mio spogliati: ti voglio accanto a me.”
Adalberto osservava la moglie. Non aveva niente della donna mite che gli preparava il caffè la mattina. Doveva obbedirle anche se l’istinto gli ricordava che non era quello il suo posto. Sciolse il nastro che teneva stretta la vestaglia. Lasciò cadere il pigiama a terra e si sdraiò sul letto, con le mani sul pube, rivolgendo le spalle alla moglie per una forma di riservatezza.
La donna sembrava appagata dal comportamento rassegnato del marito; ora doveva vincere la diffidenza di Jeanpierre, coinvolgerlo emotivamente, ma per farlo l’uomo doveva liberare la mente, scrollarsi di dosso qualsiasi precetto inibitore. In che modo avrebbe reagito la parte selvaggia che albergava in lui era ciò che si accingeva a scoprire.
“Jeanpierre cerca di capirmi,” continuò con voce implorante. “Voglio condividere con la persona che amo le nostre sensazioni.”
Voleva metterlo di fronte ad una situazione nuova in cui s’improvvisano i comportamenti. Roteava il bacino per rendere più consistente la penetrazione, cercando la sua bocca, che colmò di baci. L’uomo, in quel gesto, vi aveva colto un amore totale rivolto al marito attraverso il proprio corpo, ma così coinvolgente che non riuscì a sottrarsi alle carezze della donna, che ripagò con lo stesso ardore. Ormai aveva raggiunto con la mente quella zona torbida dove era impossibile distinguere sogno e realtà. Tutto gli appariva confuso per certe visioni ancestrali che affioravano prepotentemente. E abbandonarsi alla mercé della donna era il suo unico desiderio. La presenza di Adalberto era meno ingombrante della sua assenza. La donna non sopportava l’idea che il marito dovesse nascondersi quando s’incontrava con Jeanpierre. Sentirlo vicino la rendeva più sicura, nonostante se ne stesse in disparte, disinteressandosi a ciò che accadeva intorno a lui. All’opposto, la vicinanza dei due uomini influenzava Renata. Avvertiva un’energia potente che la pervadeva e che cresceva sotto l’incalzare delle spinte di Jeanpierre che contrastava con tutto il suo peso, per sentire meglio la spada calda che l’attraversava le viscere.
Era indubbio che l’eros risvegliava funzioni vitali del suo corpo, una sorta di olio che lubrificava gli ingranaggi. Se ne rendeva conto in quel momento, e se non fosse stato per Jeanpierre che le aveva fatto riscoprire l’amore come medicina che cura i mali dell’anima, lei si sarebbe rassegnata ad un’esistenza priva di sesso, come accadeva alla maggior parte delle donne della sua età. Anche Adalberto era stato un amante premuroso, pieno d’attenzioni, le stesse qualità possedute da Jeanpierre e non a caso, tra i tanti aspiranti, la scelta era caduta proprio su di lui. Se ne stava inerme, in posizione fetale, simile ad un’ombra che non interferiva con i giochi della coppia. Renata, che non si arrendeva alla sua malattia, cercava di coinvolgerlo con carezze premurose, tanto da suscitare solidarietà nello stesso Jeanpierre che mai come in quel momento aveva percepito l’impotenza dell’amico come un’infermità.
Adalberto cercava d’estraniarsi, consapevole che mai avrebbe potuto partecipare al rito orgiastico. Era come volere affermare che un uomo privo di gambe potesse scalare una cima, semplicemente perché vedeva gli altri farlo. I sospiri di Renata, nella sua mente, erano diventati singulti, pianti sommessi, che associava ad altri ricordi che gli provocarono uno strano malessere, dimostrando ancora una volta che piacere e dolore nelle loro espressioni vocali quanto fossero simili. Con la mente era tornato nella sala operatoria. Sotto i ferri aveva una ragazza vittima di un incidente stradale. La giovane donna era spirata per arresto cardiaco, nonostante che l’equipe medica si era prodigata per rimuovere l’ematoma che comprimeva la parete occipitale del cervello. Attendevano fuori della sala operatoria il marito e la cognata. Spettava al chirurgo comunicare l’esito dell’intervento, l’incombenza più difficile della professione medica. Adalberto aveva delle carte in mano. Un innocente espediente per nascondere l’espressione del viso. Si avvicinò, a passi lenti, verso i due giovani che nutrivano un filo di speranza, che si spezzò nel preciso istante in cui l’uomo alzò il capo. Fu un pianto sommesso il loro, che provocò in Adalberto, delusione, impotenza, la stessa sofferenza fisica che stava provando in quel momento, accanto alla moglie che cercava di strapparlo dall’abisso in cui era caduto.
Il tormento della donna nel vedere il corpo rannicchiato del marito era troppo forte. Non era giusto! Doveva svegliarlo dal letargo. Gli accarezzava la schiena, convinta che il contatto diminuisse la distanza, ancora una volta siderale, ma senza risultato. Come avrebbe desiderato che la verga di Jeanpierre, che sentiva fremere in corpo, le fosse appartenuta, solo per donarla al marito e riaccendere in lui la passione spenta. Non era forse questo un grande atto d’amore, se una donna è disposta a farsi uomo, pur di lenire la sofferenza della persona amata? E seguendo quest’assurdo pensiero, si staccò da Jeanpierre, brandendo, con entrambe le mani, il suo pene che cercava maldestramente di introdurre tra i glutei del marito.
“Che cosa vuoi fare?” urlò sdegnato l’uomo.
“Non lo immagini!” sbuffò la donna. “Jeanpierre te lo chiedo con tutta l’anima: ubbidisci senza tante domande! Lo voglio riportare tra i vivi e tu sei l’unica persona che può aiutarmi. Lo hai fatto con me, perché non può accadere lo stesso miracolo anche con lui? Non voglio lasciare nulla d’intentato.”
“Ho accettato di fare l’amore al suo cospetto; non puoi chiedermi anche un rapporto contro natura.
“Contro natura? Che espressione assurda. Noi siamo Natura! I nostri istinti sono Natura! Non lasciarti condizionare dalle regole, esse sì sono contro natura, se reprimono le nostre inclinazioni. Non credi che dovrei essere io la persona più a disagio? Ebbene non lo sono, perché non vedo alcun male in quello che stiamo facendo. Quale regola stiamo infrangendo nel chiuso di questa stanza? Nessuna Jeanpierre, proprio nessuna!”
Disse quest’ultima frase stringendo a sé i due uomini, baciando le loro nuche, un gesto che reclamava solidarietà che tardava a venire. Insormontabili sembravano da superare certi tabù e non poteva essere altrimenti se nel corso dei secoli si erano propagandati valori che esaltavano il mito del maschio.
“Ti prego non farlo!” implorò Adalberto, anche lui vittima dello stesso modo di pensare.
“Amore fidati di me,” sussurrò la donna. “Sono io il tuo dottore.”
“É troppo umiliante!” singhiozzò l’uomo.
“Ti amo, non puoi immaginare quanto ti amo,” continuò la donna accarezzandogli il viso.
Adalberto piangeva come un bambino spaventato. Il pene di Jeanpierre non entrava nel suo orifizio avvizzito. Si sentiva come un paziente in sala di rianimazione, quando i medici si prodigavano in complicati interventi, senza badare che l’accanimento terapeutico umiliava e faceva soffrire le persone. Renata capì immediatamente la situazione. Andò nel bagno e prese la crema fluida con cui si ungeva il corpo dopo la doccia. Quante volte aveva fatto scivolare le mani sulle parti intime? Era tutto quello che le era rimasto della sessualità prima di conoscere Jeanpierre. Stese accuratamente la crema tra le natiche del marito, sino a spingere il dito nell’ano che entrò senza difficoltà. Spalmò la crema anche sul pene di Jeanpierre, massaggiandolo con cura per fargli riprendere consistenza.
“Prova ora,” disse rivolta all’uomo.
Era lei l’individuo dominante e non c’era verso di contrastare il suo preciso disegno.
Adalberto emise un lungo fiotto, mentre il pene di Jeanpierre vinceva la resistenza dei molli tessuti.
“È troppo umiliante,” continuava a ripetere.
“Vedrai che tra poco tutto passerà,” cercò di tranquillizzarlo la moglie.
“Sento solo dolore.”
“Amore, non irrigidirti; rilassati; non pensare. Ci sono io accanto.”
La donna gli baciava le lacrime che bagnavano il viso. Non osava accarezzargli il pene. I primi tempi, lo aveva toccato, succhiato, leccato per stimolare un’erezione che non arrivava mai, con il risultato di aumentare in lui il senso della sconfitta e della disperazione. Ancora una volta un pene eretto esercitava potere. Lui, che non aveva un’erezione da più di cinque anni, in una sorta di scala gerarchica, occupava l’ultimo gradino, non perché si sentisse un reietto, ma a causa di codici comportamentali che tutti dicevano superati ma che erano lì, sempre in agguato, a dettare legge; e ad un uomo impotente, secondo l’opinione corrente, cos’altro gli rimaneva se non prenderlo nel culo?
“Mi sento mortificato,” continuava a ripetere.
“Hai superato la parte più difficile. Ora devi solo abbandonarti. Il mio amore ti guiderà.”
Jeanpierre ascoltava Renata e capì dalle sue parole cosa sperava di ottenere. Adalberto aveva bisogno d’amore. I suoi gesti meccanici esprimevano solo disgusto, ferendo profondamente l’amico. Jeanpierre pensò che la schiena appartenesse a Laura, come quel giorno in cui avevano avuto il loro primo rapporto sodomitico. Cominciò a stringerlo a baciargli il collo, leccargli i lobi delle orecchie. Spingeva il bacino, come volesse praticare un profondo massaggio. Gli accarezzava il capo con passione, fino al punto che la distinzione tra uomo e donna si fece così sottile da sparire. Lui stava stringendo tra le braccia un essere umano bisognoso d’affetto, senz’altra connotazione riferita al sesso. Adalberto si sentiva accettato. Il peso sullo stomaco che lo aveva accompagnato, sino a quel momento, stava diminuendo. Sentiva un calore che gli partiva dalle viscere e si spandeva in tutto il corpo. Un sottile piacere, di cui ebbe vergogna, lo pervadeva. Lui era un chirurgo; conosceva bene l’anatomia del corpo umano. Il pene stava stimolando la ghiandola prostatica. La sensazione di benessere partiva proprio da quel punto. Finalmente il suo corpo reagiva. Un’energia lo stava investendo. Ondate di calore partivano dal cervello. Attraversavano il corpo, risvegliando funzioni assopite. Il sangue a fiotti si riversava nei corpi cavernosi del suo atrofico pene. Adalberto gemette. Sentiva il suo sesso crescere, crescere e ancora crescere. Fu a quel punto che Renata provò a toccarlo. Lo sentì enorme, tanto che le sue mani non riuscivano a contenerlo. Scivolò sotto il marito per accogliere il suo membro. Erano cinque anni che aspettava quel momento. L’uomo era in preda ad un’eccitazione incontenibile. Cominciò a dimenarsi dentro il corpo della moglie. La sensazione caldo umido, dopo il gelo dell’impotenza, gli restituiva la gioia di vivere. Adalberto era l’individuo dominante. Era lui che imprimeva il ritmo, che gli altri seguivano. Su di lui si era trasferita tutta l’energia. Non era più l’ultima ruota; finalmente era tornato un individuo completo. Fu lui ad eiaculare per primo. Renata rispose alle sollecitazioni, facendosi ricettacolo degli umori caldi del suo uomo. Il suo pene si contrasse ancora come se dovesse buttare fuori tutto il liquido seminale accumulato negli anni. Intensificò gli sforzi, finché la donna non urlò di piacere. L’uomo si abbandonò esausto sul corpo della moglie, proprio mentre sentiva il pene di Jeanpierre sussultare dentro di lui.
Una quiete profonda aveva invaso la stanza. I corpi avvinghiati in un unico abbraccio giacevano distesi sul letto. I loro visi sereni esprimevano una pace interiore, la stessa che prende quando si ha la consapevolezza di avere compiuto un’azione giusta e con la mente si assapora il gusto del risultato. Ognuno era incapace del più piccolo movimento per timore di rompere l’armonia raggiunta. Renata accoglieva tra le braccia Adalberto; Jeanpierre stringeva l’amico da dietro. Non trovava nulla di sconvolgente per ciò che aveva fatto. Per lui, il gesto aveva lo stesso valore di chi ha praticato ad un annegato la respirazione a bocca a bocca, in cui è normale che due labbra, appartenenti a persone dello stesso sesso, si congiungono, significando che la liceità del risultato giustifica qualsiasi comportamento. A rifletterci bene, però, non era tanto sicuro dell’affermazione. Se l’istinto, la parte selvaggia della sua personalità, gli aveva suggerito il comportamento da tenere, ora affioravano i dubbi. Doveva vedersela con la parte razionale di se stesso, quella delle regole, dei comportamenti condivisi, dell’educazione ricevuta, sempre poco incline a dare assoluzioni in casi analoghi. Un osservatore che fosse entrato in quel momento nella stanza, quale giudizio avrebbe espresso nel vedere quella sorta d’ammucchiata? Scosse il capo e, mettendosi questa volta lui dalla parte dell’opinione pubblica, si staccò dall’amico, per non essere colto in flagrante.
Per Adalberto non c’erano conflitti morali da risolvere. Nessuna moneta sonante sarebbe stata in grado di ripagare l’erezione gagliarda con cui aveva penetrato la moglie. Dopo essere passato attraverso l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, luoghi simbolici che ben si addicevano a descrivere i suoi differenti stati d’animo, tra le braccia di Renata, assaporava il piacere di trovarsi nell’empireo, confermando che le vette più alte si raggiungono solo con la sofferenza. Il suo Io non gli appariva come l’immagine riflessa in uno specchio in frantumi. Si sentiva un individuo ricomposto, completo, la cui dignità non era per niente scalfita, anzi ne usciva rafforzata, e lo diceva come uomo di scienze che guarda al risultato conseguito alla stregua di un intervento chirurgico ben riuscito.
Renata cercava il corpo di Jeanpierre, che si era scostato da quello del marito. Gli afferrò la mano in segno di riconoscenza. Dopo quanto accaduto, la donna avvertiva nei confronti dell’uomo un vincolo d’appartenenza quasi parentale. Per questo volle mettersi in mezzo ai due uomini. Baciava prima l’uno e poi l’altro, affinché fosse chiaro ad entrambi quale fosse il suo stato d’animo. Quell’abbraccio caldo servì a tranquillizzare Jeanpierre, il cui istinto stava di nuovo prendendo il sopravvento sulla parte razionale. Ancora una volta, era la donna a dominare e tra le sue braccia i due uomini non tardarono a prendere sonno.
La mattina, Jeanpierre credette che fosse stato tutto un sogno, di quelli che capitano dopo una cena dalla difficile digestione. Osservò Renata stesa sul letto. Stringeva un cuscino come se volesse prolungare l’abbraccio con il marito. Adalberto doveva essersi alzato alle prime luci dell’alba a sentire le lenzuola fredde. Il copriletto avvolgeva appena i fianchi della donna ed egli le accarezzò la schiena nuda, ma lei non si mosse, sebbene fosse sveglia. Forse era meglio così, qualsiasi parola avrebbe potuto turbare entrambi. Scivolò dal letto attento a non far rumore, sperando che una buona doccia riuscisse a rimetterlo in forma. Gli occhi irritati dal sapone fiammeggiavano, e sembravano esprimere tutto il tormento per quello che aveva fatto. Gli costava fatica persino farsi il nodo alla cravatta e allacciarsi le scarpe. Doveva cambiare aria per riacquistare lucidità mentale. Si chinò per baciare Renata come faceva di solito. I particolari dell’episodio gli balzarono di nuovo alla mente ed egli si allontanò con la fretta di chi non vuole rimanere un attimo di più in un luogo divenuto insopportabile. La sbattuta del portone aveva fatto vibrare il lampadario dell’ingresso e, per Renata, quel tintinnio fu il segnale che era ora d’alzarsi.
Jeanpierre si diresse sul retro della villa. La ghiaia sotto le scarpe produceva un suono quasi musicale e lui, per rispettarne la cadenza, aumentò l’incedere, segno che l’umore volgeva al meglio. La porticina di legno aveva lo stesso colore del muro di cinta, nascosta dai rami degli ippocastani che formavano una specie di tunnel, di rimpetto alla gran vetrata della casa. Fece scorrere il chiavistello, accertandosi che la strada fosse deserta. Era una precauzione che aveva mantenuto sin dai primi incontri, quando Renata lo accompagnava per scambiarsi ancora tenerezze, appoggiati allo stipite con il piede tra la porta socchiusa. Raggiunse un camminamento pedonale che collegava la via ad una piazzetta sottostante, il luogo dove aveva parcheggiato l’auto la sera precedente. Nessuno avrebbe sospettato che provenisse dalla villa del chirurgo, il cui ingresso principale era in tutt’altra direzione. Sul marciapiede della via erano stati collocati contenitori dai colori diversi per la raccolta differenziata della carta, del vetro e della plastica, gli stessi che utilizzava Renata, sensibile ai problemi dell’ambiente, per conferire i materiali che pazientemente metteva insieme. Qualcuno aveva depositato a terra dei sacchetti, che i cani avevano lacerato, spargendo il contenuto al suolo. Jeanpierre non sopportava che si abbandonassero i rifiuti con la scusa del cassonetto colmo. Era un comportamento incivile. Lui, in circostanze identiche, proseguiva sino a quando non trovava un cassonetto in grado di ricevere i suoi rifiuti sempre ben sigillati all’interno del sacchetto, per evitare lo spargimento d’odori sgradevoli.
Lui amava la città, specialmente alle prime luci dell’alba. Senza traffico, con i semafori lampeggianti, animata dagli addetti ai rifornimenti dei negozi e dalle squadre di nettezza urbana che tiravano a lucido ogni via con le loro macchine complesse, indossando le belle divise arancione con le strisce luccicanti per l’alta visibilità. Non aveva una meta precisa, percorreva con la sua auto le vie dove si affacciavano i monumenti più insigni. La cattedrale, il palazzo dei priori, la fontana e altre vestigia antiche, riuscivano a trasmettergli le stesse sensazioni della musica; cosicché di fronte a tanta bellezza anche i pensieri che gli agitavano la mente sembravano acquietarsi. La pasticceria del centro era affollata di giovani che rientravano dalle discoteche. Mangiavano paste appena sfornate, sorseggiando cappuccini. Alcune coppie si scambiavano, con i gomiti appoggiati sui tavoli, parole affettuose con la voce arrochita dalle troppe sigarette fumate. Quei giovani con gli orecchini, il gel nei capelli, il rossetto viola alle labbra, si muovevano come guerrieri vincitori al ritorno da un’impresa, inconsapevoli che nei loro volti fossero già evidenti i segni della sconfitta. Tra qualche ora, smessi i capi d’abbigliamento firmati, con gli occhi rossi di sonno, sarebbero ritornati alla solita vita (dietro un bancone di un supermercato o sull’impalcatura di un cantiere edile), vagheggiando una serata come quella appena trascorsa.
Guardò l’orologio. Era troppo presto per l’ufficio. Si fermò ad un’edicola per acquistare qualche quotidiano. Dovette aspettare che la signora slegasse i pacchi lasciati dal distributore sul marciapiede. Lesse i titoli delle prime pagine svogliatamente. Tutte le notizie gli apparivano insignificanti, rispetto alla sua avventura. Quella sì che avrebbe meritato un bel trafiletto nella parte riservata alla cronaca di costume, convinto che i suoi concittadini avrebbero letto il pezzo con morbosa curiosità. Si abbandonò sul sedile con il giornale sul volante preso dai suoi pensieri. Doveva analizzare quanto accaduto; lo esigeva la sua mente razionale. Cominciò da Renata. Esaminava la circostanza di come la donna, nel mezzo del rapporto, fosse riuscita a cambiare personalità. Una donna mite era riuscita ad esprimere una forza di comando inaspettata, da soggiogare due uomini, sino ad imporre loro un rapporto omosessuale. Finalmente, come una sorta di liberazione, aveva pronunciato la maledetta parola. Era inutile cercare alibi, addossando la colpa alla donna; lei non sarebbe mai stata in grado di imporre un atto così violento, se i due uomini non fossero stati consenzienti. Bisognava capire perché egli lo avesse fatto. Alcuni interrogativi gli affioravano alla mente con puntigliosa precisione, come se dovesse dare conto del suo comportamento ad un’autorità superiore. Cominciò ad elencarli con la stessa meticolosità utilizzata per le analisi aziendali. La colpa era della sua libido che gli aveva ottenebrato la mente? Lo aveva fatto per esaudire le suppliche della donna? Per spirito di solidarietà nei confronti dell’amico sofferente? Per provare una nuova esperienza? Per la latente omosessualità che affiora nei momenti più impensati? Jeanpierre si rendeva conto che le cause appena accennate potevano essere tutte valide, arrivando persino ad ammettere che nel corso del rapporto quegli stati d’animi li aveva percepiti tutti, anche se in maniera confusa, senza la divisione netta compiuta a mente fredda. Si sentiva ancora insoddisfatto: non era quella la strada da percorrere per giungere alla comprensione del suo gesto. Non doveva soffermarsi sulle cause. Lui si era trovato in una situazione estrema in cui tutti i comportamenti possono trovare la loro giustificazione, specialmente quando si è coinvolti emotivamente per questioni particolari, come poteva essere l’impotenza dell’amico. Doveva verificare se l’esperienza avesse lasciato qualche traccia su di lui. Spostare l’attenzione sul dopo, lo tranquillizzò di colpo e tutte le ansie sparirono. Si guardò nello specchietto e trovò il suo aspetto migliorato senza gli occhi arrossati della mattina. Ingranò la marcia e riprese il suo vagabondare per le vie della città. Alla guida dell’auto gli riuscivano meglio le sue analisi, convinto che non avesse macchie ed onte particolari da cui emendarsi, anzi si sentì pervaso da una certa euforia, la stessa che gli capitava in concomitanza d’esperienze vissute intensamente. Non si pentiva di quello che aveva fatto e, a voler essere sinceri, ripensando alla serata, anche se non voleva ammetterlo, lui avrebbe di nuovo amato Adalberto con la stessa tenerezza e passione riservata per Laura e Renata. Ebbe paura di essersi lasciato andare ad un pensiero così audace che gli aveva procurato una scarica d’adrenalina, perché, se lo eccitava l’idea di andare con un uomo, significava che stava diventando un pederasta? No, un pederasta non sentiva di esserlo; ma allora cosa gli stava accadendo? S’era avvicinata l’ora d’apertura delle banche e, alla rotatoria che portava alla stazione ferroviaria, invertì marcia imboccando un viale alberato in direzione del suo studio. Parcheggiò la macchina al solito posto e prima di salire si fermò a fare colazione. Il ragazzo del bar appena lo vide gli tributò un gran sorriso. Jeanpierre lo fissò con occhi diversi. Rappresentava il prototipo del maschio italiano: capelli castani scuri, naso regolare, sguardo un po’ accigliato, mento volitivo. Immaginò di possederlo, ma solo il pensiero lo disgustò. Pensò subito che avesse sbagliato modello. Lui era troppo giovane. D’altronde egli aveva fatto l’amore con Adalberto uomo ben più maturo. Aspettò un avventore con le stesse caratteristiche. Si affacciò il notaio, il cui studio era un piano sotto il suo. Persona distinta, elegante, una bella chioma bianca, gioviale perché appena vide il professionista che lo fissava con insistenza, si sentì in dovere di salutarlo con più calore del solito. Jeanpierre gli guardò il viso solcato da profonde rughe, le labbra sottili come una linea, la pancetta che tutti gli uomini di una certa età hanno, fino al punto che il suo sguardo, in maniera insolente, si posò sulla patta dei pantaloni. Pensò di infilarci la mano dentro, ma fu nauseato, pensando che le sue mani potessero sfiorare lo scroto dell’ignaro notaio che con modi garbati stava sorseggiando il caffè. Sentì la voce della commessa della boutique, che stava entrando. Lo sguardo civettuolo che la ragazza gli indirizzò lo afferrò al volo. La fragranza del suo profumo, la spaccatura del seno che s’intravedeva sotto la camicetta, la rendeva desiderabile. Questo pensiero gli restituì il buonumore, perché sentiva intatta la sua virilità, significando, quindi, che non era un pederasta. Ma allora perché continuava a smaniare per Adalberto? Possibile che fosse attratto da quell’unico uomo? Pensò che la causa dell’interesse fosse dovuta alla presenza di Renata, una sorta di catalizzatore che aveva fatto esplodere certi istinti. Lo stesso Adalberto non voleva essere sodomizzato, e se aveva subito il rapporto lo aveva fatto dietro insistenza della moglie. Allora cosa era successo? Chiuse gli occhi, cercando di ripercorrere gli attimi salienti della serata. Gradualmente cominciò prendere forma una verità che lo convinceva. Lui aveva fatto l’amore senza distinzioni di ruoli. Corpo e spirito si erano amalgamati, fino al punto che aveva percepito i due amici come un’entità unica. Per lui, Adalberto e Renata, erano la stessa persona e fare l’amore con l’uno o con l’altro non faceva differenza. Era come se la coppia fosse composta di tre elementi, e lui rappresentava la metà della parte; il suo comportamento era lì a dimostrarlo. Però cadde di nuovo nello sconforto e se Renata e Adalberto non avessero nutrito gli stessi sentimenti, cosa sarebbe accaduto? L’equilibrio si sarebbe spezzato e sarebbe rimasto solo a proclamare certe insane passioni. Doveva parlare assolutamente con loro, chiarire il suo stato d’animo. Meglio però non farlo subito. Tra qualche giorno, appena le forze che lo scuotevano fossero scemate. Ora aveva necessità di abbandonarsi alle carezze di Laura, immergersi nelle placide acque della loro relazione, un bagno tonificante, necessario per acquietare i suoi timori.
I giorni che Jeanpierre trascorse con Laura furono una sorta d’esame al microscopio dei suoi comportamenti. Voleva verificare se ci fossero state implicazioni sulla sua natura d’uomo, dopo il rapporto avuto con Adalberto. Fu un esercizio utile, che servì capire meglio se stesso, forse perché non si era mai messo in discussione come persona, dopo i successi in campo professionale.
Un gesto che infrange regole condivise, come quello compiuto da Jeanpierre, può suscitare reazioni diverse. L’autore potrebbe nascondersi dietro un’intransigenza morale, giusto alibi per coltivare indisturbati le proprie inclinazioni; oppure farne una battaglia politica, levando la bandiera delle libertà contro ogni intolleranza; avere un contegno riservato, convinto che qualsiasi atto che attiene la sfera privata degli individui non sia sanzionabile da chicchessia.
Jeanpierre conformò il proprio atteggiamento a quest’ultima possibilità, provando simpatia per le innocue pratiche casalinghe trasgressive, fatta salva la dignità delle persone coinvolte. Quando si è raggiunto una certa età, stendere consuntivi viene spontaneo, specialmente per uno come lui che lo faceva come prassi aziendale. Il denaro non rappresentava l’unità appropriata per misurare il successo. Era giunto il momento di invertire rotta, fissando nuove frontiere, come coltivare interessi che arricchissero lo spirito. Sentì Laura vicino. L’amava con tutta la passione che una persona matura sa farlo. Non semplice infatuazione, ma un amore profondo. La donna si era meravigliata che l’uomo le dedicasse più tempo del solito, sottraendolo anche al lavoro d’ufficio. Trascorreva con lei interi pomeriggi presso gli studi televisivi, aiutandola persino a redigere gli articoli per il notiziario della sera. L’uomo aveva cercato di darsene una spiegazione, convinto che dovesse dedicarle più attenzione per riportare in equilibrio la bilancia dei sentimenti. Ma questa positività che sentiva crescere, la riservava anche per altre persone nei cui confronti non aveva obblighi affettivi. Si rese conto che questo sentirsi migliore traeva origine dall’esperienza avuta. Era sufficiente che lui si soffermasse a pensare a Renata ed Adalberto che la biochimica del suo corpo si mettesse in fermento, agendo su di lui come un forte corroborante. Non è che sentisse il bisogno di incontrarli. Il solo pensiero di sapere che c’erano, gli procurava una fonte inesauribile di sensazioni, da appagarlo. Lui stesso non sapeva capacitarsi, come un’esperienza potesse incidere così profondamente nell’animo di una persona, senza intaccare gli equilibri degli affetti esistenti.
Con il trascorrere dei giorni, gli appariva ben evidente che l’esperienza, per la complessità dei meccanismi messi in moto, gli faceva persino paura. Era stata così intensa che escludeva che potesse essere ripetuta con leggerezza e tanto meno invocata per soddisfare pulsioni morbose. Si doveva ricorrere ad essa con cautela, come tutti i potenti talismani, solo così i suoi benefici avrebbero esplicato gli effetti salutari di rigenerare l’anima finalmente priva delle incrostazioni dei codici comportamentali che avevano allontanato l’uomo dalla natura, riscoprendo la purezza dell’istinto nella sua forma primigenia. Doveva coinvolgere Laura, ma era troppo presto. Non avrebbe capito.
La zona industriale della città era un susseguirsi di capannoni tutti uguali. Piccole fabbriche impegnate a produrre ceramiche, laterizi, accessori per mobili, sempre sull’orlo della crisi, a causa delle ridotte ordinazioni delle case madri cui erano collegate. Ad una fabbrica che chiudeva, un’altra ne apriva a gestione familiare, con un pugno d’operai in prevalenza extraeuropei, disponibili a lavorare anche in nero. L’oleificio, dove era stato Jeanpierre, risaliva agli anni sessanta, e trasformava il raccolto delle olive dell’intera zona, a riprova dell’antica vocazione agricola dell’area. La struttura, dalla facciata ad arco attraversata da grandi vetrate, si distingueva rispetto alle altre, simili a tanti parallelepipedi, che nemmeno un bambino con i mattoncini “lego” avrebbe costruito con tanta poca fantasia. L’incontro era stato molto impegnativo, e aveva riguardato il nuovo assetto societario dell’azienda, che prevedeva l’ingresso di nuovi soci, tra cui alcuni proprietari d’oleifici minori, che non reggevano alla concorrenza dell’olio greco e spagnolo. Aveva partecipato anche al consiglio d’amministrazione, che ne era seguito, nella veste di sindaco revisore. Il barman dello spaccio aziendale aveva preparato diversi tramezzini, che i presenti avevano consumato tra una pausa e l’altra dei punti posti all’ordine del giorno. Per Jeanpierre saltare il pranzo era un sacrificio che non lo disturbava, serviva a mantenere il suo peso entro livelli accettabili. La riunione era terminata alle ore sedici e l’uomo, scambiato qualche parola con le maestranze che si attardavano sul piazzale del parcheggio, era salito sulla sua auto, immettendosi nell’arteria principale a quell’ora percorsa da un intenso traffico. Dalla zona industriale al suo studio aveva circa trenta minuti di strada. Accese la radio per le ultime notizie, ma i continui messaggi pubblicitari, lo infastidirono, tanto che inserì una cassetta nel registratore. Le note del Trio, opera cento, di Schubert gli fecero compagnia lungo il tragitto. Osservava la borsa gonfia di fogli, facendo mente locale sulle cose urgenti da fare appena sarebbe giunto in ufficio. Doveva telefonare al perito del tribunale, un professionista che lui ben conosceva cui aveva reso molti favori e si aspettava da lui la stessa cortesia per la perizia tecnica sul patrimonio che il consiglio gli aveva affidato. Inoltre, doveva stendere il verbale con tutte le dichiarazioni dei soci; preparare le lettere per i dipendenti, tra cui alcuni licenziamenti, dovuti al riassetto organizzativo. Era questa la ragione per cui alcuni rappresentanti sindacali lo avevano fermato sul piazzale dell’azienda. Lui li aveva rassicurati, impegnandosi, per coloro i quali erano in soprannumero, una collocazione dignitosa presso alcune ditte in cerca di mano d’opera, cui forniva consulenza. Giunse in città in concomitanza dell’apertura pomeridiana dei negozi. Per le vie, i passanti già affollavano i marciapiedi per gli acquisti. Era stanco e non aveva voglia di rinchiudersi di nuovo sino a tardi. Le carte potevano benissimo aspettare. Sentiva il bisogno di liberare la mente e proseguì, oltrepassando il palazzo del suo studio, solo con l’intento di terminare il brano musicale della cassetta. Non aveva una meta precisa e all’incrocio, per evitare strade a scorrimento veloce, prese in direzione della parte alta della città, quella delle ville, dei viali alberati, luogo ameno che stimolava l’ascolto della musica. La musica, solo quella classica, agiva su di lui come un calmante: un soffio caldo che disperde il pulviscolo nell’aria e rende nitidi gli oggetti. Gli abbassava lo stress sino al punto di riuscire a collocare la montagna d’informazioni ognuna in un comparto preciso della sua mente, né più e né meno come in una memoria di un computer. Le intuizioni, le decisioni più efficaci nascevano sotto lo stimolo dei suoi autori preferiti come Schumann, Brahms, Bach, Haydn e a seguire tutti gli altri. La breve deviazione del percorso gli era servita a scrollarsi di dosso l’apatia che lo assaliva sempre nel primo pomeriggio. Era pronto ad affrontare, con rinnovata energia, le pratiche contenute nella borsa, gonfia come un otre. Una delle sue regole, cui si atteneva con il massimo scrupolo, era quella di pianificare il lavoro, distribuendolo equamente durante la giornata. Evitava di lavorare a singhiozzo, come alcuni suoi colleghi che a momenti d’intenso lavoro facevano seguire periodi d’inoperosità. Lo considerava un errore spezzare il ritmo solo per crogiolarsi sull’attività svolta per ritemprare le forze. Dosi massicce di lavoro, dopo le pause creavano scompensi fisici, e il rischio, per persone dell’età di Jeanpierre, di un infarto era un’evenienza da non sottovalutare, com’era accaduto all’avvocato dello studio accanto al suo. Capita, però, che anche alle menti più razionali d’imbattersi nell’imprevedibile e di fronte ad esso i comportamenti dell’uomo si adattano alle circostanze. Sotto l’influsso della musica Jeanpierre si era lasciato andare. La parte vigile della coscienza aveva ceduto il posto a quella più profonda; altrimenti come spiegarsi che stava percorrendo il viale dove abitavano Adalberto e Renata? Il trovarsi lì non era un caso. Egli desiderava incontrarli, anche se si era ostinato a rinviare la visita in giorni più propizi, non appena superata la mole di lavoro che lo affliggeva. Con la complicità della musica di Schubert, al cui Trio aveva fatto seguito Rosamunde (musiche di scena) sempre dello stesso autore, l’inconscio aveva preso il sopravvento. Egli però non si sarebbe fermato se l’imponderabile non avesse, ancora, guidato i suoi comportamenti. È strano come alcune volte, insignificanti accadimenti riescono a piegare la volontà degli individui, segnandone irrimediabilmente il destino. Nel preciso istante che Jeanpierre stava per oltrepassare l’ingresso della villa, la freccia di una macchina in sosta cominciò a lampeggiare per immettersi nella corsia di marcia. Era un invito troppo evidente, conoscendo le difficoltà di trovare un parcheggio nella via in pieno giorno. Si parla di congiunzione favorevole degli astri e nella mente di Jeanpierre si accese identica visione. Non poteva ignorare le forze arcane che gli avevano spianato la strada, sino ad arrivare con l’auto davanti al cancello principale degli amici che non sentiva da tre settimane dopo la travolgente esperienza. Le occasioni devono essere colte al volo. Non ci pensò due volte ad arrestare l’auto con grave disappunto di un automobilista, cui faceva gola l’ambito parcheggio.
Jeanpierre spinse il pulsante del campanello. Era emozionato. Non voleva pensare a quello che avrebbe detto agli amici. Lui si sarebbe comportato come se nulla fosse accaduto, con lo stesso atteggiamento che teneva quando andava a fargli visita, trovandosi a passare da quelle parti.
“Sì,” disse la voce metallica di Renata attraverso il citofono.
“Sono Jeanpierre.”
“Jeanpierre!” esclamò Renata.
“Sì, sono io,” rispose l’uomo, cercando di cogliere dall’espressione della voce lo stato d’animo della donna.
“Se sei impegnata passo a trovarti un altro giorno,” si affrettò a dire l’uomo a causa della pausa di silenzio che ne era seguita.
Lo scatto metallico dell’apertura del cancello fu la risposta, anche se non era riuscito a capire se la voce di Renata, per l’inaspettata visita, esprimesse gioia o fastidio. Non volle pensarci. Il momento tanto atteso era giunto. Lui vi si recava con la consapevolezza che l’esperienza avuta stava mutando il legame d’amicizia, senza ancora avere compreso quali altre categorie affettive invocare per descrivere ciò che sentiva palpitare in cuor suo. Percorreva il vialetto del giardino con la mente sgombra da tutti i problemi che lo avevano assillato sino ad un momento prima. Era stato sufficiente avere varcato la soglia del cancello perché una strana euforia gli afferrasse la mente, trasportandolo nel mondo delle forti pulsioni, le sole che riuscissero a scacciare il tedio della giornata. Si sentiva bambino, quando con gli amici andava alla scoperta del mondo. Solo i giochi dei fanciulli stimolano sensazioni forti, le stesse che lui provava in quel momento. Ed era questo il significato di purezza, cui egli spesso alludeva per descrivere certi stati d’animo.
La circostanza che avesse parcheggiato l’auto di fronte il cancello, sotto gli occhi di tutti, stava a dimostrare che egli voleva semplicemente fare visita agli amici per placare certe inquietudini che gli avevano tolto il sonno.
Alzò lo sguardo e vide Renata appoggiata alla balaustra del portico; una postura che gli ricordava quella che assumeva durante gli intervalli dei concerti a teatro, quando si affacciava per vedere dal palco le persone in platea. Era bella e solamente quella visione lo ripagava dell’insipienza di una giornata trascorsa ad illustrare procedure di fusioni aziendali. La professione esercitata aveva influenzato il suo carattere e tutte le cose che faceva erano compiute all’insegna del massimo rigore. La passione per la musica era la risposta razionale alle cose dell’animo, un nutrimento necessario per contemperare opposte esigenze. Non era da escludere che per riportare in equilibrio il suo essere si fosse lasciato coinvolgere dall’esperienza trasgressiva, solo per il gusto di ignorare quelle regole che quotidianamente, a causa del suo lavoro, era costretto ad applicare. Renata alzò il braccio in maniera molle, che ricordava quello delle mogli dei pescatori che salutano dalla scogliera i mariti costretti ad andare per mare con il cielo carico di nuvole, come nel film “L’uomo di Aran” di Flaherty. Il gesto esprimeva amore e sofferenza insieme, che non sfuggì per niente all’uomo.
“Perché ci hai lasciato senza notizie per tutti questi giorni?” si lasciò sfuggire Renata con voce malinconica, appena gli fu vicino. “Sei stato forse male?” sussurrò con il velato tentativo di avere da quella domanda una risposta a quanto accaduto tra loro.
La stessa Renata si era tenuta in disparte, convinta che Jeanpierre fosse in collera con lei. Il fatto che l’ultima volta non l’avesse salutata, aveva accresciuto i suoi timori e non poteva dargli torto. Lui si era prestato a compiere un rapporto particolare esclusivamente per esaudire una sua invocazione. Voleva far trascorrere un po’ di tempo per consentire agli animi di placarsi, era stata questa la ragione se la donna non l’aveva cercato.
“No, cosa vai a pensare. Sono stato impegnato per questioni di lavoro,” si affrettò a dire Jeanpierre per tranquillizzarla.
“Allora non sei in collera con noi?” insistette la donna.
“E perché dovrei esserlo? Ho sentito il bisogno di salutarvi ed eccomi qui.”
“Adalberto ed io non abbiamo aspettato altro che questo momento. Vieni sarà felice di vederti è davanti al computer che sta consultando alcuni siti Internet.”
Era la prima volta che metteva piede all’interno della stanza preferita di Renata. Attraverso la grande parete vetrata si aveva l’impressione che il giardino entrasse nella stanza. Capì perché la donna avesse elevato quel luogo a rifugio, pieno di ninnoli, ricordi collocati in bell’ordine sullo scaffale dei libri, ognuno dei quali ricordava un momento rilevante della sua vita. Le fotografie in bianco e nero, nelle piccole cornici d’argento ovali, testimoniavano la crescita del figlio; statuette di vetro di Burano, maioliche smaltate erano altrettanti ricordi degli innumerevoli viaggi con Adalberto. Jeanpierre ebbe la sensazione che la stanza fosse la proiezione materiale dell’anima di Renata. Essere ammessi in quel luogo era un privilegio e lui ne colse tutto il significato, da rendere superfluo qualsiasi commento.
Adalberto si era alzato dalla poltrona per porgergli il benvenuto.
“Il tuo silenzio di questi giorni ci aveva preoccupati,” lo apostrofò l’uomo.
“Potevate anche voi farvi sentire,” l’incalzò Jeanpierre.
“Avevamo timore di disturbarti,” s’intromise Renata.
“Ma quale disturbo! Tra amici non devono esserci scrupoli di questa natura.”
“Tu conosci bene il francese, altrimenti ti avrei fatto tradurre questa relazione medica scaricata da un sito Internet di un’università americana che nostro figlio mi ha segnalato con un e-mail,” disse l’uomo mentre consultava alcuni fogli. “Ho impostato il traduttore automatico,” continuò rivolto alla moglie. “Il testo in alcuni punti è esilarante per certe costruzioni sintattiche azzardate, in altri incomprensibile.”
“Lo metterò a posto domani,” disse Renata. “Ora c’è il nostro amico. Dobbiamo rivolgergli le attenzioni riservate agli ospiti di riguardo.”
“Hai ragione,” disse l’uomo mentre con il mouse chiudeva le pagine web visitate. “Cerco della buona musica da ascoltare,” continuò mentre digitava il nome del quinto canale della filodiffusione, Auditorium, che trasmetteva musica classica ventiquattro ore al giorno. “Non è un suono raffinato, però contribuisce a rendere rilassante l’atmosfera,” disse sedendosi. Tese l’orecchio per riconoscere il brano musicale, poi senza alcun’esitazione disse: “Sì, e proprio il concerto per violoncello e orchestra di Darius Milhaud.”
“Ti preparo un caffè,” disse la donna rivolta a Jeanpierre.
“Volentieri,” rispose l’uomo che seguiva alcuni virtuosismi del solista. Pensò a Rostropovich, ma per timore di sbagliare preferì astenersi.
“Adalberto lo vuoi anche tu?” continuò la donna.
“È il violoncello di Rostropovich,” esordì Adalberto, come se la moglie gli avesse posto quella domanda; poi rivolto alla donna disse: “Scusa cara, lo sai che la musica mi distrae. Lo prendo anch’io il caffè per fare compagnia a Jeanpierre.”
La donna uscì dalla stanza e i due uomini rimasero soli. Ci fu un attimo di silenzio, senza che nessuno dei due si decidesse a rompere il ghiaccio sull’argomento che interessava entrambi. Il vassoio di ceramica dai disegni color malva, posto al centro del tavolo, accanto alla poltrona dove era seduto Adalberto, era colmo di cioccolatini, la cui pubblicità dai toni suadenti invadeva i programmi televisivi. Adalberto sembrava preso a metterli in ordine spingendoli con il dito ai bordi del piatto, raggruppandoli per marche. Teneva tra le dita un cioccolatino di produzione nazionale, avvolto nella carta stagnola colore argento, ricca di stelline, similmente ad un cielo stellato in una notte di luna piena. Quel cioccolatino con le nocciole, sulla cui scatola appariva la silhouette di due innamorati che si scambiavano un intenso bacio, non reggeva il confronto con le anonime delicatezze straniere. Per Adalberto rappresentava il giusto premio, da parte della madre, quando bambino assolveva piccole incombenze. Scioglierlo in bocca, non solo significava gustarne lo squisito sapore, ma accendere ricordi intensi. Jeanpierre avrebbe sostenuto che quel prodotto racchiudeva un valore simbolico, da accrescerne il prezzo commerciale, come sapevano gli esperti di marketing. Gli capitava la stessa cosa con alcuni brani lirici. Il “Vissi d’arte” tratto dalla Tosca di Puccini, era ineguagliabile, specialmente cantato dalla Callas, l’interprete preferita di Renata. I versi cantati con sofferenza dall’artista assomigliavano ad una sorta di testamento musicale, da commuoverlo ogni volta che li ascoltava.
“Vissi d’arte, vissi d’amore non feci mai male ad anima viva,” andava con la mente.
Per Adalberto l’aria racchiudeva altri significati, un valore aggiunto come nel cioccolatino, forse perché la madre, e prima di lei la nonna, gliela sussurravano in ogni occasione, accrescendo in lui la passione per la lirica. Ascoltare la stessa aria che aveva provocato identiche emozioni a persone a lui care, era come se il loro spirito fosse ancora vivo. Adalberto tendeva ad estendere sentimenti di solidarietà anche nei confronti delle persone che amavano quella musica. Cos’era quest’affinità spirituale tra differenti individui nell’ascoltare una semplice aria d’opera o addirittura assaporando un modesto cioccolatino?
“Koinè,” si lasciò sfuggire, rendendo palesi quali fossero i suoi pensieri circa il comune sentire di un Popolo.
“…hai detto?” chiese Jeanpierre.
Adalberto non voleva parlare di quell’argomento, anzi sarebbe stato oggetto di un loro prossimo incontro, magari con Renata. Avrebbero analizzato come certi autori avessero descritto la loro terra. Gli vennero in mente Smetana, Sibelius, Rimskij-Korsakov che con i loro poemi sinfonici erano riusciti a far rivivere musicalmente l’atmosfera della loro Patria. Rifletteva quali autori italiani potessero essere assimilati a quelli citati. Ma poi pensò che non ce ne fossero, semplicemente perché l’Unità d’Italia si era realizzata contestualmente a certe correnti musicali romantiche.
Quale macchina potente la mente umana, in grado di confrontare nello spazio di un lampo le esperienze sedimentate nella memoria con comportamenti apparentemente insignificanti, come quello di tenere un cioccolatino in mano. Ecco stava di nuovo divagando, mentre erano altri gli argomenti con cui voleva intrattenere l’amico.
“Rifaresti quello che hai fatto?” disse a bruciapelo Adalberto, posando il cioccolatino sul piatto. Si meravigliò egli stesso della domanda impertinente, che non avrebbe voluto fare, ma che era sgorgata dal profondo dell’animo, senza la mediazione della coscienza, superando tutte le barriere poste a difesa delle buone maniere.
“E tu lo rifaresti?” rispose Jeanpierre.
Ormai il ghiaccio era rotto e come l’acqua irriga i campi portando vigore alle colture avvizzite dal sole infuocato, così i due amici si lasciarono andare, consapevoli di trovare ognuno il giusto ristoro nelle parole dell’altro.
“Per me è facile risponderti,” esordì Adalberto. “E lo posso fare sotto la duplice veste d’uomo di scienze e di paziente. Nella prima ipotesi, un medico è disposto a percorrere tutte le strade per rimuovere il male. Come paziente essere riuscito ad amare Renata, giustifica qualsiasi comportamento. Devo solo ringraziarti Jeanpierre, per quello che hai fatto,” disse mettendosi di fronte alla vetrata che dava sul giardino. “Ti tranquillizza la mia risposta o ti crea imbarazzo?”
Jeanpierre non rispose. Cercava le parole adatte per esprimere all’amico la sua opinione. Accavallò le gambe in una posizione comoda, e già si capiva dalla rilassatezza del corpo che le sue sarebbero state parole di conforto, quelle che l’amico avrebbe voluto sentire.
“Tu e Renata siete una coppia formidabile, la cui forza fondante sta nell’amore assoluto che vi lega. Siete capace di attraversare, in virtù di tale legame, qualsiasi avversità, senza che la stima reciproca venga meno,” cominciò a dire Jeanpierre. “Partendo proprio dall’immagine che date di voi stessi, io vi ho sempre considerato come se foste una sola persona. Non riesco a disgiungere la vostra fisicità. Se penso a Renata vedo immediatamente Adalberto e viceversa. Quando Renata ti ha voluto accanto a sé mentre facevamo l’amore, superato i primi attimi di smarrimento, ho trovato coerente il suo modo di agire, dando dimostrazione di una gran prova d’amore nei confronti del proprio uomo, con cui ha sempre condiviso tutto. È stato quest’aspetto che mi ha permesso di vincere ogni inibizione. Per me quella sera eravate una sola persona ed io ho fatto l’amore con Renata attraverso il tuo corpo. Certo detto così, qualcuno potrebbe accusarmi di chissà quale bizzarro comportamento, ma credimi il mio è stato un gesto d’amore, nei confronti di persone accomunate dagli stessi sentimenti.”
Jeanpierre si era alzato dalla poltrona, mettendosi di lato all’amico, osservando lo stesso punto indefinito del giardino.
“Dovrò far tagliare il ramo dell’ippocastano,” disse Adalberto, come se l’ammissione di Jeanpierre non lo riguardasse. “Insiste troppo sulla grondaia del tetto e se non s’interviene, si corre il rischio d’infiltrazioni d’acqua che possono creare danni alla struttura.”
“Se vuoi posso mandarti il giardiniere che cura l’esterno di Casa degli elci,” aggiunse Jeanpierre. “È molto bravo e le sue prestazioni sono contenute.”
“Potrebbe essere un’ottima idea. Ho sempre detto a Renata che per tenere in ordine il giardino occorrono persone capaci e competenti,” continuò Adalberto. “Sì, prenderò in considerazione il tuo suggerimento. Con un uomo esperto accanto sarò in grado di capire come meglio curare il verde. Dopo tanti anni le piante necessitano di attenzioni particolari, altrimenti entrano in sofferenza, come la magnolia vicino al cancello,” disse indicando l’albero. “Le foglie stanno ingiallendo e sono preoccupato. Quella pianta rappresenta il simbolo del nostro matrimonio per averla messa a dimora appena tornati dal viaggio di nozze.”
I due uomini parlavano in maniera traslata del loro rapporto, della loro amicizia, di Renata, semplici allusioni, accostamenti, che andavano diritti all’essenza del problema, ma chiariva senza mezzi termini quali fossero i sentimenti che guidavano le loro azioni. Avrebbero continuato a parlare per metafore se non fosse entrata Renata nella stanza, tenendo la caffettiera in una mano e nell’altra il vassoio con le tazzine e lo zucchero.
“Il caffè è pronto.”
La donna aveva ritardato il suo ingresso proprio per consentire ai due uomini di chiarirsi tra loro. La delicatezza degli equilibri non dipendeva dalla sua volontà. Nell’ambito di una relazione a tre, lei avrebbe continuato ad essere se stessa con comportamenti connaturati alla propria indole di donna. Il compito più delicato competeva agli uomini, le cui prestazioni superavano gli atteggiamenti abituali.
Renata, dopo la fatidica notte, si era tenuta in disparte per il timore che un insuccesso del marito avrebbe fatto precipitare quest’ultimo nella disperazione più cupa, con gravi ripercussioni sulla serenità del loro rapporto. D’altronde, Adalberto era uscito da una malattia e durante la convalescenza occorreva stare riguardati. Una notte, l’uomo si era svegliato con il pene turgido. Felice per una manifestazione così naturale, lo aveva fatto sentire alla moglie con orgoglio. Erano timidi segnali che lasciavano presagire un progressivo miglioramento dello stato di salute, anche se egli si sentiva come un vaso di porcellana cui sono stati incollati i cocci. Il rapporto omosessuale avuto con Jeanpierre, non lo imbarazzava. L’energia, prodotta dal funzionamento delle ghiandole endocrine, aveva attraversato il suo corpo, guidando gli impulsi già tutti iscritti nel proprio bagaglio genetico. A tanta perfezione della natura l’uomo di scienze s’era commosso. E affinché il miracolo si ripetesse, voleva ricreare le stesse condizioni, ripresentando gli elementi nel loro giusto ordine, un po’ come in una formula chimica. Per questo non aveva osato fare all’amore con la moglie, senza la presenza di Jeanpierre.
Il programma radiofonico “Echi di fine millennio” trasmesso dal sito web della Rai era terminato con il quartetto per archi di César Franck. Ci fu un attimo di silenzio e dagli altoparlanti del computer le note delle Bachianas Brasileiras di Villa-Lobos aprirono il programma successivo, annunciato, con tono confidenziale, da una voce maschile. Questa volta fu Renata a lasciarsi andare in un commento da cui traspariva l’ammirazione per il compositore.
“Il contrappunto di Bach intimamente legato alla musica folkloristica brasiliana,” disse versando il caffè. “È il capolavoro assoluto di tutta la letteratura musicale sudamericana.
“Passato e presente si coniugano in perfetta armonia,” chiosò Jeanpierre anche lui attratto dalla melodia.
“Ti ricordi,” s’intromise Adalberto, rivolgendosi alla moglie “quando ritenevi blasfemo un accostamento simile, semplicemente perché l’autore aveva voluto reinterpretare Bach, intoccabile secondo i tuoi canoni.”
“Per fortuna ci sei tu, amore mio, ad avermi aperto gli occhi,” disse la donna sorridendo.
La musica per i tre amici era una sorta d’involucro, che permetteva loro di muoversi al suo interno come pesci in un acquario.
Adalberto si avvicinò alla moglie.
“Jeanpierre nutre i nostri stessi sentimenti,” disse con tono rassicurante, prendendole la mano.
“Speravo in quest’epilogo!” esclamò la donna, baciando Jeanpierre in segno di gratitudine.
Era la prima volta che la donna manifestava il suo affetto di fronte al marito in circostanze normali.
“Tu e Adalberto siete le persone a me più care?” continuò, baciando in maniera profonda prima l’uno e poi l’altro.
Con quei baci, la donna trasferiva gli umori umidi di Jeanpierre nella bocca di Adalberto e viceversa, creando un contatto fisico, se pur indiretto, tra i due uomini, con lo scopo di ricreare l’atmosfera di seduzione della fatidica sera. Come adepti che seguono la vestale nel rito d’iniziazione, Adalberto e Jeanpierre si lasciarono guidare in una sorta di girotondo. La donna accarezzava i loro volti, premendo le nuche, fino a che le labbra dei due uomini si toccarono.
“Ormai ognuno di noi appartiene all’altro,” aggiunse con voce suadente, mentre leccava i loro visi, per condividere l’intenso momento.
I due uomini non riuscirono a sottrarsi all’invito e si lasciarono andare in un intenso bacio. Era il suggello al loro legame, che non aveva nulla di femmineo, anzi aveva qualcosa di selvaggio, d’arcano, d’animalesco per l’irruenza posta. Con le bocche incollate, avvinghiati in uno stretto abbraccio, ognuno cercava di prevalere sull’altro. Istinti primordiali stavano affiorando. Scaturivano dal sistema limbico, la parte primitiva del cervello che agiva appena sotto la soglia della coscienza, per questo tutto lasciava presagire che sarebbero andati oltre l’esperienza consumata.
Ora che le anime si erano ritrovate, ed ognuno era sicuro dei sentimenti dell’altro, le loro angosce sembravano svanite.
“Dobbiamo gestire bene il nostro sodalizio,” suggerì Jeanpierre, staccandosi da Adalberto.
“È così trasgressivo il nostro rapporto,” l’interruppe l’amico, “che se trapelasse all’esterno, ci arriverebbe addosso solo fango.”
“Già immagino il sarcasmo d’alcuni clienti del mio studio. Le loro battute ironiche.”
“Sì,” disse Renata. “Abbiamo l’obbligo d’essere prudenti… difenderci dagli altri.”
“Ma anche da noi stessi,” puntualizzò Jeanpierre.
“Che cosa intendi?” si affrettò a dire Adalberto che non comprendeva il senso dell’affermazione.
“Dobbiamo evitare che il nostro rapporto sfoci in pratiche abitudinarie. Alla lunga, potrebbe far venire meno il rispetto tra noi,” insistette Jeanpierre. “É necessario agire con cautela: ogni frutto deve essere colto e consumato al momento giusto.”
“Siamo persone civili e la stima della persona è questione fondamentale,” ribatté deciso Adalberto. “Sono molte le affinità spirituali che ci legano. La musica ha sempre esaltato la parte migliore degli individui. Un quintetto per archi di Mozart, come quello che stiamo ascoltando, non ha mai istigato nessuno alla violenza,” disse indicando il punto della stanza da dove proveniva la melodia.
“Sono consapevole di questo,” tagliò corto Jeanpierre. “Però insisto, occorre stare attenti a non fare passi falsi. La natura particolare del nostro legame, non ammette abusi.”
La donna aggrottò le ciglia e alla fine sbottò:
“Jeanpierre ti vuoi spiegare meglio!”
“Bisogna non confondere i momenti dell’amicizia con quelli dell’amore, ognuno dei quali ha regole e comportamenti ben definiti. Accarezzarti la mano, come faccio in questo momento,” disse rivolto a Renata, “deve avere solo il significato che vedi, se vuoi d’affetto, d’amicizia. Non deve contenere allusioni velate. Spogliare i nostri gesti da ogni ambiguità è una regola importante, non attenervisi significherebbe commettere un passo falso.”
“La tua esposizione si fa interessante,” interloquì Adalberto. “Sei però troppo enigmatico.”
“Improvvisare i nostri incontri per puro capriccio è un errore da evitare. Dobbiamo essere tutti emotivamente coinvolti quando c’incontriamo. La carica prorompente della nostra passione non può essere ridotta a puri gesti meccanici. Finirebbe per stancare. Potrebbe succedere, andando avanti, che ognuno di noi sia disgustato dell’altro, proprio per avere evocato la parte oscura dei comportamenti dell’uomo. Potrebbe anche verificarsi che il rapporto si esaurisca ed ognuno ritorni alla propria vita. Comunque vadano le cose, sono convinto che la nostra esperienza lascerà una traccia profonda su ognuno di noi. Saremo migliori? Peggiori? Questo dipende da come sapremo gestire il nostro rapporto.”
“Ti conosco,” replicò Adalberto. “Tu hai in mente qualcosa.”
“Sì, non posso negarlo,” disse corrugando la fronte. “Occorrono delle regole.”
“Quali ad esempio?” si affrettò a dire Renata.
“Siamo fuori con amici, a nessuno deve sfiorare l’idea che la serata potrebbe concludersi diversamente, trovando sotterfugi per liberarsi degli inopportuni ospiti. Si accorgerebbero presto del nostro ambiguo comportamento. Dobbiamo tenere distinte la nostra relazione dall’amicizia, che deve continuare ad andare avanti, coinvolgendo anche altre persone. Un pomeriggio tra amici, come questo, deve rimanere tale, nonostante siamo noi tre soli in casa.”
“Ma com’è possibile riuscire a comportarsi come tu suggerisci?”
“È molto semplice. Occorre individuare luoghi deputati ai nostri incontri. Il nostro rapporto deve essere un rito e tutti i riti hanno bisogno di un’appropriata liturgia, di cui l’attesa è parte fondamentale. È il desiderio che carica i nostri impulsi, non la consumazione dell’atto. Riflettete: sono alcune settimane che non ci vediamo ed ognuno desidera stringersi all’altro. Però manca il luogo dove consumare il rito, che non può essere lo stesso spazio dove si compiono azioni abituali. Sacro e profano vanno tenuti distinti. Immaginate, invece, di svolgere la cerimonia in un posto sempre diverso e in date stabilite, solo l’idea è eccitante, non vi pare?”
“Sì, hai perfettamente ragione,” saltò su Renata. “Ma allora che cosa consigli?”
“Il Lohengrin del Teatro alla Scala vi suggerisce nulla?
“No,” disse la donna.
“Ma sì,” ribatté Adalberto che aveva capito le intenzioni dell’amico. “Tu intendi fare coincidere i nostri incontri, nelle città dove allestiscono spettacoli lirici o sinfonici.”
“Hai colto nel segno,” disse Jeanpierre soddisfatto. “Sarà questo il nostro rito. Noi siamo in grado di programmare le nostre uscite. Non solo la nostra intimità sarà protetta, ma non ci sarà rito uguale a quello precedente, perché diversi saranno i luoghi dove c’incontreremo.”
“Hai ragione, nessuno potrà mai sospettare della nostra relazione,” sospirò soddisfatta Renata. “Rientra nelle nostre abitudini frequentare teatri d’altre città.”
Adalberto era già seduto di fronte al computer che digitava la parola “Opera”, il sito italiano attraverso il quale era possibile collegarsi con i più importanti teatri italiani ed europei. Sotto i loro occhi si materializzarono all’istante i templi della lirica, con tutte le informazioni di cui avevano bisogno.
“Osservate,” disse Adalberto indicando la pagina web che illustrava la mappa del sito. “È sufficiente cliccare su una qualsiasi regione italiana per conoscere gli spettacoli in programmazione in ogni teatro. Ci sono persino indicati i percorsi più convenienti: macchina, treno, aereo. Come vedi Jeanpierre è molto semplice. C’è solo l’imbarazzo della scelta. Possiamo prenotare, sin da ora, biglietto e albergo con le nostre carte di credito.
“È bene che ognuno di noi prepari una lista compatibile con i rispettivi impegni professionali,” suggerì Jeanpierre.
“Sono d’accordo,”disse l’amico. “Mi metterò subito al lavoro con l’agenda degli appuntamenti accanto.”
“Tra qualche giorno trascorrerò l’intera giornata presso Casa degli elci,” aggiunse Jeanpierre. “Aspetto mia figlia per il fine settimana. N’approfitterò anch’io per effettuare la ricerca, i cui risultati ti farò avere al più presto.”
“Una volta concordato il calendario, lo rispetteremo scrupolosamente,” disse Adalberto. “Questo sarà il nostro patto segreto.”
Per il primo appuntamento scelsero Trieste. L’occasione era abbastanza ghiotta: al Teatro Comunale davano una novità assoluta: Nozze Istriane d’Antonio Smareglia, rappresentata per la prima volta nel 1895 nello stesso teatro. Nella scelta c’era stata la determinazione di Renata, sempre alla ricerca di novità in campo musicale. Autori come Smareglia, secondo la donna, andavano rivalutati.
“Vedi Jeanpierre, lo stile del compositore istriano fa riferimento a Wagner,” continuò per rispondere all’amico che le aveva chiesto informazioni sull’autore poco conosciuto. “Musicalmente si è formato a Vienna, tanto da essere apprezzato dallo stesso Brahms.”
“Nozze Istriane è la sua opera più famosa, in cui si sente un certo influsso verdiano,” puntualizzò Adalberto.
“Il soggetto di amore e gelosia con duello finale lo rende simile a Cavalleria Rusticana,” aggiunse Renata con tono accalorato per avallare la scelta.
L’idea di andare a Trieste li eccitava. Jeanpierre aveva un convegno a Venezia e arrivò con il treno, mentre Adalberto e Renata raggiunsero la città in macchina. Chi mai avrebbe pensato che i tre per vedersi avessero fissato un appuntamento in un luogo tanto distante? L’albergo era vicino al teatro, di sobria eleganza, in cui si respirava un’atmosfera tipicamente mitteleuropea. Mancava circa un’ora allo spettacolo e avevano preferito passeggiare per la città, anziché starsene in albergo, sovvertendo le solite abitudini, come se un luogo chiuso non potesse contenere la gioia che avevano in corpo. Provenivano dalla basilica romana, ognuno con il braccio sulla spalla dell’altro, scambiandosi effusioni, comportamento tollerato nelle giovani coppie d’innamorati, non certo in uomini stagionati che si contendevano la medesima donna, ma essi ignoravano gli sguardi di disapprovazione dei passanti. Vestiti di tutto punto, come si conviene per le grandi occasioni teatrali, sembravano giungere da un altro secolo, quando la città era il porto dell’impero e Vienna la capitale. Jeanpierre aveva colto nel segno, proponendo per i loro incontri luoghi sempre diversi. Trieste era una città dal fascino discreto, un luogo di frontiera per le influenze venete, austriache e slave, dove si respirava un’aria europea. Si erano imbattuti in uomini con lo smoking e signore in abito lungo. Simili a tante falene che agitano le ali attratte dalla luce, andavano avanti e indietro nella piazza illuminata nell’attesa che si dischiudessero le porte del teatro, il luogo della messinscena dei sentimenti. I tre amici proseguirono lungo la Riva Mandracchio, presi com’erano a metabolizzare le bellezze della città. Amicizia, amore per la musica, eros, tutti elementi, di per sé, ad alta potenzialità emotiva, ma se ricondotti in situazioni completamente diverse, esaltavano ancor più le pulsioni di voluttà e bramosia, cui andavano aggiunte per completare l’intera gamma delle emozioni forti, secondo un articolo che Adalberto aveva letto su una rivista medica specializzata, panico, angoscia e rabbia, anche se queste ultime non avevano toccato le corde del legame che li univa. I loro animi erano in perfetta sintonia, pronti ad immergersi nel rito, senza preoccuparsi di stabilire la liturgia, consapevoli che ciò che avrebbero fatto non sarebbe stato altro che la materializzazione dei loro desideri, dimostrando di aver superato la gestualità simbolica del linguaggio, al fine di ottenere risposte appaganti ai propri bisogni individuali. Tutto era elaborato all’istante, come se mente e corpo fossero una sola cosa. Di fronte a tanta affinità di spirito, l’unione fisica rappresentava la conseguenza logica, un mero atto dovuto, volendo usare un’espressione burocratica di Jeanpierre, o meglio ancora, una questione puramente tecnica, perché nelle loro menti tutto era accaduto, tanto che ogni gesto raffigurava l’ombra dei loro pensieri.
É un fatto incontrovertibile che la gamma delle emozioni di un individuo adulto, fossero riconducibili ad esperienze successe nel periodo dell’adolescenza. Quel pomeriggio, girovagare per una città sconosciuta, c’era la stessa ansia, timore e stupore che avevano provato da bambini: Jeanpierre nell’andare in bicicletta al fiume per fare il bagno; Adalberto nel percorrere un sentiero di montagna delle Dolomiti, eludendo la sorveglianza del padre; Renata nell’assistere da sola ad uno spettacolo cinematografico per adulti, contravvenendo ai consigli della madre. Perché una passeggiata per le vie di Trieste aveva fatto palpitare i loro cuori come allora e acceso visioni dall’identico sapore? Quando il fine è l’appagamento dei propri istinti, come possono essere quelli di un adolescente, il quale, per scoprire cosa ci sia di là dell’orizzonte imposto dagli adulti, infrange regole stabilite, ecco che allora si liberano le pulsioni e diventa tutto straordinario semplicemente perché si osserva il mondo con occhi diversi. Questo stava accadendo ai nostri amici e grazie all’innocenza ritrovata si sentivano come rinati. Avevano avuto ragione di collocare la loro relazione entro un rito, le cui uniche regole stabilivano semplicemente un QUANDO e un DOVE. Il resto, qualsiasi cosa facessero, era improvvisazione. Mangiare in un ristorante, non rappresentava semplicemente l’atto del nutrirsi, ma era l’esaltazione del gusto. Visitare una cattedrale significava toccare il sublime. Ascoltare la musica esprimeva il loro modo di pregare. Fare all’amore il momento in cui corpo e anima si amalgamavano e tutti i sensi trovavano il giusto ristoro. Chi può dire quello che i tre si apprestavano a compiere fossero atti deprecabili, quando l’intento era la ricerca dell’armonia tra il loro essere e l’ambiente circostante? Non stava forse in questo il significato dell’espressione “Ritornare bambini”? Jeanpierre ripercorreva con la mente alcune esperienze adolescenziali e doveva ammettere che la violenza contenuta in certi episodi di quel periodo legati alla scoperta dell’eros, superava di gran lunga le situazioni che stava vivendo in età adulta.
Lo scrosciare dell’acqua nel bagno sembrava incombere sul sonno dei clienti delle camere accanto. Adalberto diminuì la pressione del rubinetto, sempre violenta a quell’ora tarda della notte. Stava lavandosi energicamente i denti per togliersi di bocca il pungente sapore delle salse che avevano accompagnato i frutti di mare, consumati in una cantina vicino al porto al termine dello spettacolo. Era una consuetudine per il locale ospitare il pubblico delle prime teatrali. Il proprietario aveva preparato un ricco menù a base di pesce, e per rendere piacevole la serata dei suoi clienti, in prevalenza melomani, aveva messo il meglio del repertorio operistico italiano come sottofondo musicale e, non a caso, Adalberto, mentre asciugava lo spazzolino, mimava la celebre aria “Vesti la giubba,” l’ultimo brano ascoltato prima di saldare il conto.
L’allestimento teatrale lo aveva completamente soddisfatto. La pagina d’effetto del temporale all’inizio del primo atto, aveva messo in luce un’orchestra affiatata, anche se composta in prevalenza da giovani. Sotto la guida del maestro, erano riusciti a restituire la particolare raffinatezza timbrica prevista in partitura dall’autore. La direzione orchestrale, nel sostenere le voci dei cantanti nei passaggi difficili, aveva dimostrato notevole sensibilità. Adalberto non sopportava i ritmi sostenuti imposti d’alcuni direttori, come se l’orchestra dovesse eseguire una sinfonia. I cantanti, in circostanze simili, non avevano nemmeno il tempo di prendere fiato, con il rischio di emettere note sbagliate, compromettendo la riuscita dello spettacolo. Direzioni di quel tipo lo mettevano a disagio sin dalle prime battute. In Nozze Istriane, orchestra e cantanti erano stati all’altezza della situazione, specialmente la giovane protagonista che, nel duetto tra Lorenzo e Marussa, gli sfortunati innamorati, aveva mostrato un’estensione vocale sorprendente per un soprano lirico leggero.
Adalberto spense la luce e uscì dal bagno. Indossò la vestaglia a righe rosse e blu per ricreare lo stesso abbigliamento del primo incontro. Percorse il corridoio illuminato dalle sole luci d’emergenza, con l’incidere di chi sta recandosi ad un appuntamento galante. Lui aveva insistito per avere le stanze vicine, ma inutilmente. L’albergo era al gran completo per il pubblico accorso ad assistere l’opera in cartellone e per i numerosi espositori di una mostra di motocicli d’epoca, che si teneva in alcuni padiglioni del porto. Confrontò il numero stampigliato sul ciondolo della chiave con quello riportato sulla targhetta della porta ed entrò. Sul pavimento del piccolo soggiorno, gettati alla rinfusa, c’erano la vestaglia di Renata, i pantaloni di Jeanpierre, le scarpe di vernice con i calzini accanto e più avanti il gilet di raso nero; disordine che testimoniava l’impeto passionale della coppia. Sul lume a stelo penzolava una camicia per attenuare la luce, che si riverberava nell’altra stanza da letto, da cui proveniva un leggero ansimare. Adalberto s’affacciò alla porta. Era una scena già impressa nella mente quella che gli si parò d’innanzi. Sul letto, da cui erano state tolte le coperte per non ostacolare i movimenti, giacevano completamente nudi Jeanpierre e Renata, stretti in un abbraccio. L’uomo li osservava come l’artista ammira la tela che ha appena terminato di dipingere, senza sentirsi un intruso, anzi quei corpi dalla bellezza ferina, esprimenti una voglia prorompente di vita, sentiva che gli appartenevano, come d’altronde tutto il suo essere apparteneva a loro. La donna alzò le dita della mano stesa sul letto, un gesto appena accennato, che indicava di farsi avanti, e lo stesso fece Jeanpierre, con un sorriso seguito da un lieve movimento del capo. Sorrisi, piccoli gesti, ammiccamenti, comunicavano più delle parole le rispettive emozioni. Quante volte Adalberto aveva cercato d’immaginare lo stesso attimo, solo per anticipare le suggestioni, affinché tutto procedesse secondo i suoi migliori auspici. Essere dentro il rito lo appagava interamente. Jeanpierre e Renata che facevano all’amore rappresentavano l’incarnazione dei suoi desideri. Era lui ad amare la donna, attraverso il corpo dell’uomo. Lentamente fece scivolare la vestaglia ai suoi piedi. Non provò imbarazzo per il suo pene inconsistente, smarrito tra i peli del pube. Con il ginocchio appoggiato sulla sponda del letto, ebbe la percezione di issarsi su una zattera, trascinata dalla corrente, difficile da governare. Renata gli fece posto, baciandolo con intensità per togliergli dal viso quell’aria persa. Ma lui si sentì sicuro solo tra le robuste braccia di Jeanpierre. Sentiva la bocca umida dell’uomo che cercava di contendere quella di Renata. Lei si ritrasse per consentire ai due uomini di manifestare i propri sentimenti. L’idea di essere un naufrago, aggrappato ad una zattera, svanì di colpo. Per Adalberto, il quadrato bianco del letto, si trasformò in un tappeto volante, pronto a solcare i cieli con la semplice forza del pensiero, come accadeva nella raccolta araba di novelle “Le mille ed una notte”.
All’inizio, furono le mani messaggere d’amore protagoniste dei loro giochi: mani che scivolavano sulla pelle; mani che s’afferravano per rendere tangibile il legame; mani che accarezzavano i sessi; mani che affondavano le dita sui corpi sudati per improvvisi lampi di piacere. Poi furono le bocche: bocche desiderose di abbeverarsi ad altre bocche; bocche dispensatrici di piaceri che s’insinuavano in ogni anfratto del corpo; bocche che spargevano il loro umido tepore.
Renata baciava il pene di Jeanpierre, mentre Adalberto le accarezzava i capelli. In quel gesto, c’era tutto l’amore nei confronti della moglie. Lei, carica di passione, s’incaricò di prendersi cura del marito, ma la molle appendice rimase insensibile alle sue attenzioni. Ritornò su Jeanpierre.
“Vieni,” sussurrò quest’ultimo, vedendo l’espressione umiliata dell’amico.
Lo baciò intensamente per dimostrargli sostegno. Lui si lasciò andare e per ripagarlo di tanto calore, afferrò il pene dalla bocca della moglie e lo infilò tra le sue labbra, imitando i gesti della donna. Era la prima volta che Adalberto praticava un rapporto orale ad un uomo. Lo fece con intensità, sotto la guida di Renata che con la lingua leccava le sue labbra e ciò che esse stringevano. Quando il corpo è pervaso dall’eros e gli istinti si liberano, tutto è ammesso anche tra persone dello stesso sesso. Incuranti d’infrangere divieti mai esistiti in natura, i due uomini si contorcevano in preda a nuovi turbamenti, spostando in avanti la curva del piacere. Scariche violente d’adrenalina lubrificavano il corpo stanco di Adalberto, tanto che Jeanpierre invertì la posizione. Con gesti rapidi, appoggiò il glande bagnato di saliva tra i glutei dell’amico. Spinse e il pene scivolò senza difficoltà. Furono sufficienti alcuni movimenti per stimolare l’erezione. Adalberto, ebbro di gioia, si staccò dall’amico, impugnando il membro come una clava per esibirlo alla moglie. I sessi dei due uomini, visti uno accanto all’altro, erano possenti. Esprimevano bramosia. La donna afferrò quello del marito, più bisognoso di cure. Lo accostò alla vulva per saggiarne la consistenza, movendosi con gesti lenti per assecondare la sua natura delicata. E come lo spadaccino che porta a termine l’ultima scoccata, Adalberto affondò il proprio sesso nelle viscere della donna, inarcando la schiena, con un urlo di liberazione, per la virilità ritrovata. Bagnata di sperma, la donna si portò sul membro di Jeanpierre ed insieme inseguirono l’orgasmo sino a raggiungerlo. Ci fu un attimo di quiete. Renata accarezzava i ventri ansanti dei due uomini. Erano sopraffatti dalla potenza degli istinti evocati, gli stessi che sin dalla notte dei tempi avevano guidato l’uomo ad uscire dalle tenebre.
La mattina successiva Renata e Adalberto accompagnarono Jeanpierre all’aeroporto Marco Polo di Venezia. Era pronto un volo diretto per Roma, dove ci sarebbe stata Laura ad attenderlo.
Le settimane successive per Jeanpierre furono cariche d’impegni professionali. Sembrava quasi che nei due giorni trascorsi a Trieste si fosse abbeverato alla fontana della giovinezza. Sprizzava energia da tutti i pori. Se n’era resa conto la stessa Laura che, nella città eterna, aveva vissuto momenti di travolgente passione. Jeanpierre appariva pervaso da una voglia incontenibile di fare all’amore. La donna, che partecipava ad un convegno organizzato dal coordinamento italiano delle piccole emittenti televisive, più volte aveva dovuto lasciare la sala, distratta dalle continue effusioni dell’uomo. Colto da una sorta di raptus, aveva preteso, persino, un fugace amplesso nell’ufficio della segretaria, una cara amica di Laura, non ancora pago delle follie della notte precedente in un locale notturno di trastevere. Jeanpierre non sapeva dare una spiegazione logica a quello che gli stava capitando. Seguiva semplicemente un impulso profondo che doveva assecondare. Si ritrovava ad avere superato i cinquant’anni con una voglia d’amare tutta da esprimere, da far sembrare il periodo universitario, in cui credeva di aver raggiunto l’acme del desiderio, un pallido ricordo. Intuiva che la causa andava ricercata nella relazione intrattenuta con Adalberto e Renata. Sino a quando gli effetti dei loro incontri si riverberavano positivamente sulla sua vita sentimentale e professionale, si guardava bene di ostacolare la relazione, anzi era pronto a viverla intensamente, senza opporre alcuna resistenza. Avere evocato istinti primigeni, lo avevano portato a fare la conoscenza con l’anima selvaggia che albergava in lui e questo se da un lato lo intimoriva dall’altro non poteva ignorarne l’esistenza. Sapeva che se ne stava sonnacchiosa nel profondo della sua coscienza, pronta a saltare fuori nelle situazioni estreme, con la stessa agilità di una fiera che affonda gli artigli nelle carni vive della preda, trovando vigore nel banchetto di sangue. In quelle circostanze, i suoi organi sensoriali, resi atrofici dalla vita sedentaria, riprendevano smalto e grinta e, come quando era bambino, gli si dischiudeva il mondo dei sogni che pensava definitivamente perso.
Era questa la ragione della sua impazienza per il successivo incontro con Adalberto e Renata, che avevano fissato a Napoli con il pretesto di assistere alla rappresentazione al San Carlo di Anna Bolena di Donizetti. Ansioso di verificare la sua teoria, si era attenuto strettamente al rituale, evitando persino di sentirli al telefono, per timore di offuscare la passione che gli cresceva in petto. Jeanpierre si presentò in villa che albeggiava, parcheggiando davanti all’ingresso secondario, precauzione inutile data l’ora. Da dietro la porticina sgusciarono Renata e Adalberto, ognuno con in mano alcune borse da viaggio che sistemarono nel retro del portabagagli, con l’aiuto di Jeanpierre. Finalmente le ore anime si erano ritrovate, si capiva da come Adalberto e Renata avevano afferrato le mani dell’uomo. Non era un semplice gesto di saluto, ma una stretta forte e prolungata per rinnovare il legame profondo che li univa. Fu sufficiente salire in macchina, per sentirsi persone diverse, come se l’esperto fiscalista, il valente chirurgo, l’efficiente donna di casa, fossero rimasti lì sul marciapiede a salutare con il braccio alzato quella parte di loro che si allontanava. Era la prima volta che lasciare la casa non gli creava apprensione, forse perché ciò che avevano di più caro era lì accanto a loro.
“Ti ricordi, Jeanpierre, la grande pianta di Magnolia accanto al cancello principale della villa,” esordì Adalberto, tanto per aprire la conversazione. “Ebbene l’intervento del giardiniere si è dimostrato provvidenziale.”
“Avevo ragione nel sostenere che era persona esperta,” rispose l’amico, con le mani sul volante. “È un uomo di poche parole che sa il mestiere.”
“Si muoveva intorno alla pianta, osservandola come se fosse stata una bella donna,” continuò Adalberto. “Ha raccolto una manciata di terra, per sentirne la consistenza e il profumo, sicuro di avere individuato le cause del patire dell’albero. Il giorno dopo è ritornato con tutto l’occorrente. Per un istante ho creduto che esercitasse la mia stessa professione, quando, salito sulla scala, tagliava i rami secchi, accorciava quelli sofferenti, asportava le foglie ingiallite. Lo guardavo con occhi avidi per apprendere il suo mestiere di chirurgo delle piante. Lui, per ripagarmi dell’interessamento, mi ha confidato persino le sostanze contenute nella mistura da lui stesso preparata e mai rivelata a nessuno per i suoi prodigiosi effetti, per concimare il terreno.”
“A distanza di tre settimane la pianta ha preso nuovo vigore,” confermò Renata. “Le pagine superiori delle foglie, hanno un colore brillante, mai avuto prima d’ora.”
“Le piante e i fiori sono come le persone,” disse Jeanpierre. “Hanno bisogno di poche ma costanti cure. Non possono essere trascurate, altrimenti avvizziscono.”
“Consiglio prezioso,” assentì l’uomo. “Non permetterò più che le piante del mio giardino deperiscano. Ho capito come accudirle grazie al tuo giardiniere. Egli, con la sua esperienza, mi ha restituito sicurezza.”
“Il mio Adalberto,” disse Renata, accarezzandogli il capo. “Ora è in grado di prendersi cura anche dei fiori d’appartamento.”
Jeanpierre sorrise per la sottile allusione. Adalberto era riuscito ad amare Renata, significando che l’amico stava avviandosi alla guarigione e questo non poteva che renderlo felice.
“Non ho mai dubitato delle sue capacità,” si limitò a dire Jeanpierre, pensando che l’energia, liberata negli incontri amorosi, aveva dato vigore e significato al vivere quotidiano della coppia, così com’era accaduto tra lui e Laura.
Renata osservava i due uomini. Li amava entrambi. Bastava che allargasse le braccia per contenere tutto il suo mondo affettivo. Per questo si sentiva fortunata ad avere un marito come Adalberto con cui condivideva tutto, persino un altro uomo. Solo Jeanpierre teneva distinte le due relazioni sentimentali. Era certa che l’uomo si trovasse in una situazione difficile. Vivere in perenne conflitto emotivo, alla fine avrebbe nuociuto all’equilibrio del loro rapporto. Occorreva fare qualcosa. Limitarsi ad aspettare, significava affidare le sorti del proprio futuro alla fatalità e questo la donna lo rifiutava categoricamente.
“Quand’è che ci fai conoscere Laura?” disse Renata che non era riuscita a trattenere i suoi pensieri.
“Domanda intrigante,” rispose Jeanpierre.
“Riflettevo sulla nostra relazione,” continuò la donna. “Stiamo andando a Napoli per una serata all’opera. Vedi Jeanpierre, l’idea che tu la tradisca, mi crea ansia. Sono convinta che, lasciarla fuori del nostro sodalizio, possa, col tempo, costituire un pericolo per tutti noi. Oggi avrei gradito la presenza di Laura tra noi.”
“La preoccupazione è anche la mia,” s’intromise Adalberto. “Tra me e Renata esiste completa armonia e sto male sapere il tuo animo lacerato, quando devi allontanarti da lei. Avere Laura come amica, rafforzerebbe il nostro legame affettivo.”
“Credete che non ci pensi!” sbottò Jeanpierre. “Mi arrovello in continuazione il cervello per trovare una soluzione. Il timore di perderla mi rende incapace di qualsiasi iniziativa. Senza Laura, non sarei in grado di proseguire la nostra relazione. Se sono riuscito ad aprirmi ad Adalberto, semplicemente perché ritrovo il mio equilibrio addormentarmi tra le braccia di Laura il giorno seguente. La nostra relazione è un po’ come condurre, a vele spiegate, una barca in un mare forza otto. Il timoniere è pronto a rinnovare l’ebbrezza della sfida solo dopo avere accertato che lo scafo non abbia subito danni.”
“Ti capisco perfettamente,” s’affrettò a dire Renata. “Però anche noi facciamo parte dell’equipaggio e vorremmo contribuire alla manutenzione della barca, nell’eventualità che ci fossero dei guasti. Lasciare ricadere solo sulle tue spalle il gravoso compito non mi pare giusto.”
“Non fraintendermi, lo faccio solo per proteggere le persone che mi stanno più a cuore. Perdere voi o Laura per me sarebbe un dramma,” disse Jeanpierre. “Dopo la scomparsa di mia moglie, non sarei in grado di sopportare un altro trauma. I distacchi affettivi sono i mali più duri da superare quando si è superata una certa soglia d’età.”
“Cosa dovrei dire io che ho superato l’età critica da un bel pezzo,” l’apostrofò Adalberto. “Chi porta i capelli bianchi sono le persone più vulnerabili. Siamo noi che percepiamo con maggiore intensità il tempo che passa.”
“Jeanpierre,” disse Renata. “Sono convinta che non puoi continuare a giocare su due tavoli, proprio per quello che hai detto. Quando ci sono di mezzo sentimenti che coinvolgono più persone, stare a guardare è molto più pericoloso che agire.”
“Devo decidermi: la devo sposare,” l’interruppe Jeanpierre.
“Non volevo dire questo,” si affrettò a dire la donna.
“Io l’amo e per me è un passo naturale,” continuò volgendo il capo verso Adalberto e, subito dopo, spiando dallo specchietto retrovisore l’espressione di Renata. “Solo dopo avere resa salda l’unione, sarà più facile, per me, prendere una decisione.”
“So che tu agisci sempre con accortezza, non accollarti la responsabilità del tuo gesto,” disse Adalberto.
“Mettici in condizioni di poterti aiutare,” insistette Renata. “Forse siamo noi ad attribuire al problema maggior peso di quello che meriti.”
“Che cosa intendi dire?”
“Laura è persona aperta e di larghe vedute, potrebbe essere attratta anche lei da una nuova esperienza, se questa rafforza il legame di coppia,” continuò la donna.
“I nostri riti prevedono una serie di cerimonie legati alla musica, all’arte, alla ricerca del bello,” incalzò Adalberto. “Sono questi gli aspetti da esaltare con Laura, un po’ com’è accaduto con te Jeanpierre. Il resto viene da solo. Conosciamo i vasti interessi di Laura, che le derivano dalla professione che esercita, vuoi che non riusciremo a farle amare il mondo della lirica?”
“Sì, avete ragione.”
“Conosci l’abilità di Adalberto. Riesce ad ammaliare chiunque con il suo modo di fare. Sono convinta che Laura si troverà bene con noi.”
Raggiunsero la città partenopea senza risentire della stanchezza del viaggio, per gli argomenti che avevano affrontato e per la musica che contrappuntava i lunghi silenzi carichi d’intime riflessioni. Alloggiavano in un albergo vicino alla piazza del Municipio. In quel tratto della città, gli insigni monumenti (Castel Nuovo, Palazzo Reale, Teatro San Carlo) testimoniavano come Napoli fosse stata la capitale di un regno, che per sontuosità rivaleggiava con città europee del calibro di Parigi, Vienna e Madrid.
Si sedettero ad un tavolo, sotto la galleria Umberto 1°. Jeanpierre sentiva la mancanza di Laura forse per tutti i discorsi espressi in macchina. Osservava i suoi amici, convinto che fosse lui a trarre maggiori benefici dalla relazione, per il fatto che Renata e Adalberto lo riempivano d’affetto, mentre lui era solo a distribuire tenerezze. Doveva ristabilire l’equilibrio, allora pesi e contrappesi avrebbero bilanciato i sentimenti e fatto in modo che l’armonia avrebbe reso salda la loro unione. Aveva già riflettuto come coinvolgere Laura. Le avrebbe regalato, alla riapertura della prossima stagione concertistica, l’abbonamento dal titolo accattivante “Musica del novecento: incontro con il jazz”. Sul giornale locale aveva letto la presentazione del programma che prevedeva per il concerto d’inizio la sinfonia Nuovo Mondo, di Antonin Dvorak. Spiegava l’articolo che il compositore boemo, nel suo soggiorno negli Stati Uniti, aveva scoperto la musica popolare dei neri americani, la stessa in cui affondano le radici del Jazz, realizzando il primo incontro tra il Jazz e la musica colta europea. Conosceva la passione di Laura per il Jazz, non avrebbe potuto ignorare l’importante avvenimento. Erano previsti nelle cinque serate, distribuite nell’arco di tre mesi, concerti con musiche di Debussy, Satie, Sravinskij, Hindemith, Ravel, Sostakovic, tutti autori che innamoratisi dei nuovi ritmi venuti dall’America, si erano ispirati ad essi nelle loro composizioni presenti in cartellone. Sì, questa sarebbe stata la mossa giusta. Laura non avrebbe potuto resistere al richiamo seducente della musica. E allora, all’interno del palco del teatro i cuori avrebbero vibrato all’unisono e si sarebbero create le condizioni per un’amicizia sincera con Renata e Adalberto.
Il fatto che avesse stabilito un piano, in ossequio a quanto detto da Renata “Meglio agire che attendere”, tutte le ambasce svanirono di colpo. Si sentì leggero come uno zefiro di primavera, trasmettendo la sua euforia agli amici, anch’essi desiderosi di lanciarsi nell’avventura, per sconfiggere il grigio conformismo, che solitamente avvolgeva persone della loro età. Passeggiare per le vie del centro, liberi di manifestare i propri sentimenti sotto gli occhi dei passanti, troppo presi dai problemi quotidiani che stare dietro ai turisti dall’aria svagata, era elettrizzante. Le note d’antiche melodie napoletane, si libravano nell’aria, tanto che unirono le loro voci a quella di un’anziana signora che sbatteva uno zerbino, mentre intonava il ritornello ’O Marenariello. Per questo Napoli fu per loro la città dell’amore e della musica.
All’uscita del teatro San Carlo, considerato da Stendhal per lo splendore della sala “Il più bello del mondo”, Renata sussurrava l’aria che Anna Bolena, rinchiusa nelle prigioni della Torre di Londra, intona alla fine del secondo atto Al dolce guidami castel natio.
“Non esiste mezzo più espressivo della musica per esprimere i diversi stati d’animo di una persona,” disse la donna, pensando al personaggio della sfortunata regina, di cui sentiva di condividerne il fiero atteggiamento.
“Ottima l’interpretazione della cantante, un soprano drammatico d’agilità, che per dare spessore al ruolo, è riuscita a combinare le qualità del soprano drammatico con quelle del soprano leggero,” disse Adalberto nella sua solita veste di critico musicale. “Donizetti con la scena finale è riuscito ad imporsi con un linguaggio drammatico maturo, superando le formule melodrammatiche della tradizione,”continuò, consapevole che i suoi giudizi fossero sempre ben ascoltati.
“Con Anna Bolena, apre la strada ai capolavori del futuro a cominciare da L’elisir d’amore,” l’incalzò Jeanpierre.
La tragica fine d’Anna Bolena, giustiziata a ventinove anni, solo perché il marito si era invaghito di un’altra donna, aveva turbato Renata. L’eroina, ai suoi occhi era diventata il simbolo di tutte le donne, le più indifese nel rapporto di coppia. Le davano fastidio persino Adalberto e Jeanpierre, che cercavano di toglierle dal viso quell’aria imbronciata. Quella sera, per riscattare la figura della protagonista del melodramma donizettiano, decise di prendersi una sorta di rivincita, non perché avesse motivi particolari nei loro confronti, li amava più della sua vita, ma semplicemente perché portatori di valori di supremazia maschile che voleva mettere alla berlina.
Renata era entrata nella stanza dell’albergo. I due uomini avevano notato che nei suoi atteggiamenti c’era qualcosa di strano, altrimenti non era giustificato il gesto di voltare il viso per evitare che Jeanpierre la baciasse, o di respingere Adalberto che tentava di abbracciarla. Jeanpierre pensò ad una sua indisposizione, ed era un peccato perché aveva prenotato le due migliori camere matrimoniali dell’albergo, per giunta attigue, senza badare a spese. L’arredamento della stanza, erano pezzi autentici della fine del ’700, il periodo aureo del mobile napoletano. Le due poltroncine accanto al letto provenivano da una delle tante ambasciate che la città di Napoli ospitava con l’avvento di Carlo Borbone.
Jeanpierre si diresse verso la porta interna che collegava le due stanze. Avrebbe disfatto le valigie per sprofondare nel morbido letto, rinviando ad altro momento lo svolgimento del rito, magari la mattina successiva, sotto una calda doccia, tutti e tre insieme. La donna, a dispetto di ciò che lui pensasse, lo fermò sulla porta. Cominciò a spogliarlo senza dire una parola. Si comportò nella stessa maniera con Adalberto, impedendogli persino di aiutarla per affrettare quella sorta di spogliarello. Lui cercò di accarezzarle la testa mentre stava sfilandogli le scarpe, ma lei rifiutò qualsiasi gesto affettuoso. I due uomini erano imbarazzati della loro nudità, forse perché Renata, con indosso l’elegante vestito da sera, li osservava con lo stesso sguardo che solitamente gli uomini riservano alle donne per metterle in soggezione. Adalberto si diresse verso il gran letto dalle spalliere d’ottone su cui spiccavano quattro pinnacoli di bronzo ai lati, degno talamo per i loro giochi amorosi, ma la donna scosse il capo.
“Il tuo posto è lì,” disse indicando la vetusta poltrona che tanti deretani illustri doveva avere accolto.
Jeanpierre sorrideva, come se avesse intuito le intenzioni della donna. Adalberto avrebbe dovuto assistere alla messinscena che Renata stava allestendo per lui. Se il letto doveva essere il palcoscenico, Jeanpierre guadagnò subito la scena, saltandovi sopra. Completamente nudo, osservava la donna in segno di sfida, ma lei sembrava non curarsi dei suoi atteggiamenti provocatori. Seguiva i suoi pensieri, mentre con gesti lenti cominciava a spogliarsi, per dare inizio al rito, le cui modalità erano avvolte in un’aurea di mistero, tanto che Adalberto dava segni d’insofferenza, per il ruolo passivo inflittogli, specialmente ora che non aveva più problemi di erezione.
“È piacevole anche osservare fare all’amore,” disse Renata con le mani sulle spalle del marito. Poi, accostando le labbra all’orecchio, come se volesse baciarlo, sussurrò:
“Devi solo osservare, astenendoti da ogni atto per conservare le energie per il difficile compito che ti attende.”
Per Jeanpierre era eccitante fare all’amore di fronte all’amico. Sembrava dovere superare un esame, per questo ogni movimento era portato a compimento con la massima intensità e partecipazione. Ad ogni iniziativa di Jeanpierre, Renata rispondeva con pari ardore. Si rotolavano sul letto, sino a quando la donna impose la posizione con la quale esprimeva dominio. Adalberto li osservava con lo stesso compiacimento con cui si ammira una manifestazione della natura, un temporale estivo, persino un tramonto infuocato poteva bene figurare di fronte all’atto più antico del mondo, senza il quale non sarebbe esistito nelle forme conosciute. Impedire alle ghiandole endocrine di non assolvere i propri compiti era impensabile per Adalberto, il cui pene svettava tra le cosce. Lo prese in pugno per nascondere l’ingombrante fisicità. Sarebbe bastato farci scorrere la mano nell’istante in cui i due amanti sussultavano per l’orgasmo raggiunto, che uno zampillo di materia lattiginosa sarebbe fuoriuscita, tanto era eccitato. Lui si astenne per non disattendere l’invito di Renata che mirava ad un disegno logico. Il corpo della donna copriva quello di Jeanpierre, le cui braccia bagnate di sudore luccicavano stese sul letto. Ci fu un lungo e interminabile silenzio; momento propizio per lasciare andare la mente che si arricchiva di nuove suggestioni, cui attingere, come in una dispensa, nei tempi di carestia affettiva. Poi, la donna prese dal comodino la sua crema da notte. Con una mano tratteneva Jeanpierre, con l’altra spalmava il contenuto nelle parti intime dell’uomo per lubrificarle. Le sue intenzioni apparivano evidenti, desiderava che il corpo dell’uomo, che l’aveva impregnata, diventasse ricettacolo del seme del marito. In questo scambio di fluidi si sarebbe ricreato l’equilibrio, una sorta di rito ancestrale dall’alto valore simbolico, simile al patto di sangue attuato dai giovani guerrieri delle tribù primitive. Adalberto aveva capito le intenzioni della donna. Lui si era dato a Jeanpierre molte volte ed era normale ripagarlo delle stesse attenzioni. Scese dalla poltrona dove era rimasto rannicchiato, per raggiungere l’uomo, sdraiato sul letto con le gambe divaricate. Era attraente in quella posizione, forse perché poteva baciarlo sulle labbra come una donna mentre lo possedeva. Con delicatezza appoggiò il glande tra i glutei, mentre Renata massaggiava l’orifizio per agevolare la penetrazione. Per Jeanpierre era la prima volta.
“Jeanpierre, non muoverti! Tu hai goduto. Vorresti privare dello stesso piacere Adalberto?” fece la donna.
L’uomo non rispose. Sul suo viso era apparsa un’espressione di paura, forse di disgusto, che non predisponeva Adalberto, nel modo giusto, a compiere il rito, che doveva essere di piacere per entrambi. Che cosa attraversava la mente di Jeanpierre per avere irrigidito il corpo in una sorta di disperata difesa, come se stesse subendo un atto di violenza? A ben riflettere, adottando le tecniche d’analisi che l’uomo utilizzava per superare momenti di difficoltà operative nelle aziende cui prestava consulenza, in cui ogni fatto, anche il più insignificante, era attentamente valutato, quand’anche segnalato da semplici sottoposti e non solo dai responsabili dei reparti in crisi, egli sarebbe stato in grado di comprendere l’ambiguo suo comportamento. Egli tutte le volte che aveva amato Adalberto, lo aveva fatto, considerando l’uomo una sorta di doppio di Renata. Partendo dalla consapevolezza che in ogni essere umano esiste una componente maschile e femminile, aveva finito per considerare Adalberto la proiezione della donna. Riusciva ad amarlo, baciarlo e possederlo, con tutta la passione di cui era capace, semplicemente perché tra le sue braccia stringeva Renata non certo Adalberto. Il suo, rimaneva un comportamento eterosessuale, tanto che solo l’idea di un rapporto con un uomo, diverso dell’amico, lo disgustava. Non solo egli si era attenuto a questo schema mentale, che già di per sé, appagava il suo istinto di maschio, ma si era guardato bene di violare i codici comportamentali appresi durante l’adolescenza. Nel rapporto con Adalberto egli aveva sempre rivestito il ruolo attivo, senza mai rinunciare alle prerogative che spettano al maschio. Era riuscito a superare qualsiasi conflitto interiore, semplicemente perché aveva rispettato le rigide regole del gruppo d’origine, le stesse di quando bambino giocava al fiume con i suoi amici a chi aveva il pisello più lungo. Solamente Renata, con il suo intuito femminile, aveva capito tutto. Dopo lo spettacolo al San Carlo, aveva deciso che era giunto il momento di infrangere l’ultimo tabù di Jeanpierre. La smorfia, che l’uomo aveva stampata in viso, non era il dolore fisico per quella sorta di deflorazione, ma la paura di incamminarsi in strade, questa volta sì, a lui sconosciute. L’uomo sapeva che non poteva ribellarsi al gesto dell’amico, che in quel momento gli accarezzava il volto per placarlo, se lo avesse fatto sarebbe andata in frantumi la loro amicizia e all’armonia, ricercata attraverso la comunione dei corpi e dello spirito, sarebbe subentrato il caos. Ancora una volta la ragione si opponeva alla sua anima selvaggia. Adalberto premeva con il corpo su Jeanpierre. Egli fece l’ultimo tentativo di scrollarselo di dosso, ma Renata neutralizzò il gesto, affondando la bocca sulla sua. Tutto gli apparve confuso, tanto che la fisicità dei due corpi si materializzarono in quello di Renata che li racchiudeva entrambi. Lui si abbandonò ai baci della donna, consapevole che la testa d’ariete che violava il suo corpo, procurandogli solo dolore, operava come un bisturi che, con precisione chirurgica, rimuoveva tutte le incrostazioni che gli avevano impedito sino a quel momento di liberare i suoi istinti. Dal viso di Jeanpierre cominciarono a sgorgare lacrime. Il sommesso pianto fu percepito da Adalberto come reazione al dolore fisico. Cercò quindi di dedicargli tutte le attenzioni, baciandolo, movendosi con gesti lenti, così come Jeanpierre aveva fatto la prima volta che l’aveva posseduto. Jeanpierre non poteva rimanere indifferente alle delicate attenzioni dell’amico. Adalberto, finalmente, gli appariva nella sua virile individualità, non più come il doppio di Renata. Lo sentiva muoversi dentro di lui, sino al punto che il suo pene cresceva di nuovo, schiacciato tra i loro molli ventri. Avvertì il caldo liquido dell’uomo bagnarlo completamente. In quel preciso istante si sentì purificato. Il membro di Adalberto aveva spazzato via ogni residua certezza su una presunta supremazia legata alla virilità, assunta nei secoli come valore dominante. La società era cambiata, ed erano altri i valori da esaltare, tra i quali al primo posto poneva il rispetto della persona, la cui dignità non poteva mai essere calpestata a causa di comportamenti difformi da quelli prevalenti. Jeanpierre, tra le braccia di Adalberto, si sentiva come un bambino cui è stata indicata la strada ed egli si apprestava a percorrerla fiducioso di avere ritrovato l’armonia con se stesso.
La vita di Jeanpierre ormai si muoveva su un doppio binario, da un lato il rapporto con Laura dall’altro quello con Adalberto e Renata. Nell’attesa di fare convergere le due esperienze, viveva la sua vita in uno stato d’euforia continua, consapevole che nella scelta delle proprie azioni, le uniche regole da rispettare fossero quelle imposte dalla propria coscienza. Era come se avesse mutato personalità. Persino i luoghi in cui aveva vissuto, gli apparivano carichi d’altri significati. Egli si sentiva come una persona cui è stata restituita la libertà, cogliendo la bellezza della vita nei piccoli gesti quotidiani. Non sono le grandi imprese che fanno un uomo importante, bensì è la sua capacità di rendere grandi le cose normali. Troppo spesso si è convinti che, per uscire dal grigiore della vita, occorra inseguire chissà quali sogni, mentre sarebbe sufficiente volgere lo sguardo al cielo in una notte stellata, per rendersi conto che si è persa la capacità di emozionarci. Confondere il grigiore dello spirito con il grigiore dell’esistenza è un male troppo diffuso.
I nostri amici avevano raggiunto, attraverso la musica, una sensibilità d’animo su cui poggiava l’ardente loro passione. Adalberto penetrava la moglie con una vigoria fisica che non aveva avuto nemmeno a vent’anni. A Modena, dopo lo spettacolo “La morte di Klinghoffer”, opera moderna sotto forma d’offertorio di John Adms, compositore contemporaneo, ispirata al sequestro della nave Achille Lauro, era stato lui a condurre il gioco sin dall’inizio, coinvolgendo la moglie e l’amico in una girandola di posizioni che ricordavano quelle del kamasutra. A Parma, dove avevano assistito al Teatro Regio a “Idomeneo” di Mozart, si erano posseduti sotto la doccia. A Firenze, al Maggio Musicale Fiorentino, avevano voluto dedicarsi a rapporti sodomitici. Questa volta era stato Jeanpierre a penetrare Renata, con il rito della saliva. Detestava l’odore della crema fluida, preferiva l’afrore dei corpi, che secondo lui evocava meglio le pulsioni. A Torino, dopo “Mefistofele” di Boito, i rapporti orali, senza l’uso delle mani, avevano catturato la loro fantasia. A Roma, la sera prima di assistere a “Il Tabarro” al Teatro dell’Opera, avevano cenato in camera completamente nudi, scoprendo che l’erotismo praticato in contesti particolari esaltava ancora di più i sensi del corpo. Era eccitante prendere il cibo dalla bocca dell’altro, o gustare fragole con panna sul ventre di Renata o di Jeanpierre. Per un istante sembrò loro di aver rievocato il clima della famosa cena in casa di Trimalcione, descritta da Petronio, nella sua opera Satyricon, tanto per dimostrare che nulla avevano da inventare i nostri amici, che già non fosse stato compiuto. Non riuscivano a spiegarsi come innocue pratiche sessuali potessero influire positivamente sul loro carattere. Ad ogni incontro scoprivano sensazioni nuove, ed erano così esaltati che avevano imparato ad utilizzare una sorta di linguaggio cifrato. “L’Elisir d’Amore”, “Cavalleria Rusticana”, “Musica sull’Acqua”, “Pastorale”, “Sinfonia Fantastica”, non erano solo i titoli di celebri opere o brani sinfonici, ma erano i nomi di alcuni dei loro giochi erotici preferiti. Quando il fine del sesso non è più la procreazione, si aprono nuove strade che i tre amici stavano percorrendo. Avevano capito che sentimento, passione, impulso, eccitazione, rappresentavano il carburante dell’esistenza. Non era l’età a rendere vecchi gli individui, ma l’incapacità di aprirsi ad esperienze nuove.
7
Giochi d’acqua
I tre amanti vollero ignorare le ombre minacciose che si addensavano sulle loro teste. Eppure sapevano che comportamenti esecrati dalla società erano destinati a naufragare. Impari erano le forze contrapposte: da un lato inermi persone alla ricerca del benessere fisico attraverso pratiche sessuali irrituali, dall’altra la folla anonima, pronta a reprimere tutto ciò che andava contro la morale corrente. I segnali di morte erano lì, sotto i loro occhi, bastava leggerli, interpretarli, ma nessuno volle notarli. Ma è bene procedere con ordine per rievocare ciò che accadde in un pomeriggio afoso d’inizio agosto in uno strano luogo dove erano capitati per caso.
Il Rossini Opera Festival si teneva a Pesaro nel mese d’agosto d’ogni anno. I tre amici, arrivarono nella cittadina marchigiana il giorno prima della rappresentazione del Tancredi, l’opera che avevano deciso di assistere, il primo capolavoro di Rossini nel genere serio, dopo i successi comici di: La cambiale di matrimonio, La scala di seta, Il signor Bruschino. La cabaletta “Di tanti palpiti”, interpretata con la giusta intensità espressiva, procurava a Jeanpierre la stessa emozione del dipinto La tempesta di Giorgione, in cui il paesaggio, sospeso nel tempo, è pervaso da una struggente atmosfera malinconica. Anche “Una furtiva lagrima” cantata dal grande tenore Tito Schipa, gli provocava le stesse emozioni del sorriso enigmatico della Gioconda di Leonardo, significando con ciò, che un’opera d’arte, in qualsiasi forma si manifesti, mantiene inalterata la capacità di commuovere.
Il viaggio per giungere a Pesaro non superava le due ore. Adalberto aveva insistito ad andare con la propria macchina. “Un percorso rilassante, per strade secondarie,” aveva detto.
Renata sosteneva che, il paesaggio agrario marchigiano, fosse uno dei più belli d’Italia, per le colline che si rincorrevano valle dopo valle sino a tuffarsi in un mare dalle acque color smeraldo, per i borghi turriti di mattoni del colore della campagna lavorata. Non c’era paese, anche il più piccolo, che non avesse il suo teatro, gioielli architettonici, completamente ristrutturati, tanto di fare delle Marche la regione con la più alta concentrazione di luoghi aperti al diletto. Alloggiavano in un albergo sul lungomare a fianco di una villa stile liberty, considerata monumento nazionale, secondo il pieghevole che Jeanpierre aveva preso nella portineria dell’albergo. Pesaro a loro piacque, forse perché era una città senza eccessi. A prima vista poteva lasciare indifferente il turista distratto. Bastava, però, passeggiare per le vie del centro, sul lungo mare, discutere con la gente per i viali alberati, ecco che la città ti penetrava nell’animo per incanto da far esclamare le persone che vi si recavano per brevi soggiorni che quello era il posto ideale per viverci. La spiaggia era gremita di gente, ma fu sufficiente spostarsi ad un chilometro in linea d’aria, verso il colle San Bartolo, ricco di macchia mediterranea, che i tre amici si ritrovarono immersi nella pace spirituale del convento delle suore di clausura, da cui si dipartiva un nastro bianco che conduceva a Villa Caprile, il luogo dove avevano deciso di andare per visitare il giardino all’italiana con i suoi giochi d’acqua. Giù verso la statale sedici, i campi di stoppie attendevano di essere arati; più in alto, distese di girasoli con le corolle accese rivolte al sole sembravano rendere ancora più infuocata l’aria. Era un paesaggio mutevole come il cielo durante un temporale estivo. Lasciarono la macchina prima dell’arco che delimitava l’ingresso del parco della villa, che ospitava l’istituto tecnico d’agraria. Il frinire assordante delle cicale, i versi garruli degli uccelli tra i rami delle querce secolari, rompeva la quiete del pomeriggio. Sembrava di essere capitati in un luogo senza tempo. Ora si sentivano bambini, per quei suoni antichi che sembravano provenire direttamente dal mondo dell’infanzia, altre volte decrepiti vecchi solo ad osservare un vetusto olmo spaccato in due da un fulmine. Tutto ciò che osservavano influiva sui loro pensieri, come se avessero assorbito una strana energia, rendendoli simili all’ambiente circostante. La biglietteria era una costruzione di mattoni, a ridosso delle mura che delimitavano il giardino. Renata aspettò sull’uscio con Jeanpierre. Adalberto non riusciva a distinguere la figura in penombra seduta dietro al tavolo in prossimità dell’ingresso, per il contrasto con la luce esterna. Avvertì un odore pungente, dolciastro, di muffa. Pensò che si trattasse di sostanze vegetali in decomposizione, per i vasi da giardino ammassati in un angolo della stanza.
Un giovane seduto dietro un tavolo osservava l’uomo che aveva violato la quiete. La gente, in un pomeriggio torrido come quello, preferiva starsene al mare o stesa su un prato all’ombra di un albero e non arrampicarsi sino ai giardini della villa.
“Abbiamo messo il tavolo della biglietteria nel vecchio magazzino. È il posto più fresco. Stare fuori si muore dal caldo,” disse il giovane come per giustificare la presenza nel luogo maleodorante.
Adalberto l’osservava incuriosito. Aveva una peluria che faceva fatica ad affermarsi nel suo volto asimmetrico. I capelli, dallo strano colore rossiccio, erano così scarmigliati, che alcuni ciuffi ribelli avevano l’aspetto di piccole corna. Sembrava il viso di un fauno, come l’iconografia classica tendeva a raffigurarlo, tanto che pensò che i piedi, sotto il tavolo, avessero la forma di zoccoli caprini.
“Quanti biglietti?” disse il giovane accarezzando i pochi peli tutti concentrati sul mento.
“Tre,” rispose Adalberto.
Preso il dovuto importo, il giovane ripose il denaro in una scatola di cartone che teneva accanto ad un libro di botanica, reclinando il capo sulla spalla, come se volesse riprendere il sonno interrotto. Adalberto sorrise uscendo. Gli venne in mente il celebre pezzo Prélude à l’après midi d’un faune, una pietra miliare nella storia della musica di fine ottocento. Immaginò che fosse lui il fauno protagonista del poema di Mallarmé, cui Claude Debussy si era ispirato per la musica, ed ora, stanco di inseguire ninfe e naiadi, se ne stava lì a sognare.
All’interno del parco, un altro ragazzo, pantaloni corti colore coloniale, sonnecchiava con la schiena nuda appoggiata ad una grossa giara per ripararsi dal sole. Alzò lo sguardo. Erano i primi visitatori della giornata. Si precipitò a ricuperare la maglietta, che teneva appesa ad un ramo d’ibisco vicino alla fontana ottagonale, al centro del giardino. Il libro di botanica, aperto sul tavolo della biglietteria, era il suo. Studiava agraria all’università di Bologna. Ma durante i mesi estivi faceva la guida con l’altro amico, occupazione che avevano iniziato da quando frequentavano gli ultimi anni delle scuole superiori. Chi andava a visitare i giardini di Villa Caprile, sapeva degli improvvisi getti d’acqua e lo studente, già dall’abbigliamento, capiva sino a dove poteva spingersi con i giochi. Alcune volte capitavano persone con giacca e cravatta, oppure donne uscite dal parrucchiere con l’abito lungo, che s’irritavano se solo qualche spruzzo cadeva sui loro vestiti. Mentre lo spirito adatto per visitare il giardino, era di lasciarsi trasportare dalle improvvise situazioni che lui creava.
“Non avete oggetti che possono danneggiarsi con l’acqua, macchine fotografiche, telecamere od altro?” chiese il giovane che se ne stava appoggiato ad una verga di metallo simile ad un bastone da passeggio.
“Abbiamo lasciato macchine e borse nell’auto,” si affrettò a dire Jeanpierre.
Solo allora Renata notò il macabro disegno sulla maglietta del giovane che si era appena infilata: un teschio, dalle cui orbite vuote due occhi di fuoco sembravano perseguitare chiunque li osservasse. Ebbe il presentimento che stesse accadendo qualcosa d’insolito. Solo occhi disattenti potevano non accorgersi che quel giardino fosse carico di simboli negativi, che rimandavano ad un’altra realtà e lei vi era capitata dentro come in un incubo notturno. Pensò che il giovane, dai lineamenti delicati, non fosse lì per caso. La sua presenza aveva un significato che si sforzava di interpretare.
“Non stai bene?” le chiese Adalberto.
Non voleva preoccupare il marito con le proprie fantasie e si limitò a scuotere il capo sorridendogli. Il giovane interpretò quegli sguardi, come un segnale d’intesa. Era certo che quei turisti volessero rivivere le stesse emozioni dell’aristocrazia pesarese del settecento, quando annoiata della vita di città, si trasferiva nella lussuosa dimora estiva a passeggiare nei viali ombrosi del parco, declamando versi della “Gerusalemme Liberata”.
“Il giro comprende la visita della sola terrazza principale: per intenderci, quella dove siamo ora,” esordì il giovane. “Il primo nucleo di Villa Caprile risale al 1640 ed è famosa non tanto per la sua struttura architettonica, quanto per i giochi d’acqua,” continuò con quel tono di voce cantilenante di chi è abituato a ripetere le stesse parole. “In questa parte più riparata,” disse indicando il muro di cinta del giardino, “dominano incontrastati aranci, piante di bergamotto, chinotto dai cui frutti si ricavano i canditi per il panettone.”
Quest’ultima informazione incuriosiva molto le giovani comitive e le signore abili in cucina, per questo la citava spesso per l’effetto di stupore che riscontrava sui loro volti.
Il giovane nel frattempo si era spostato verso una nicchia ricca di vegetazione che scendeva lungo un muro di mattoni.
Renata con le braccia abbandonate lungo i fianchi, aveva il volto corrucciato. Non riusciva a distogliere lo sguardo da quella maglia; eppure sapeva che si poteva acquistare in qualsiasi negozio d’abbigliamento ed assecondava una moda legata al successo d’alcuni film americani dell’orrore.
“Osservate la particolarità di questa pianta. Il suo nome è fiore di loto. Una sostanza cerosa riveste l’intera superficie delle foglie, da renderle impermeabile, cosicché l’acqua, anziché bagnare la superficie, si raccoglie sotto forma di palline argentate.”
Renata lo osservava raccogliere con il palmo della mano l’acqua facendola cadere sulla foglia. S’immedesimò tanto nelle tre sfere trasparenti che rotolavano all’impazzata lungo le nervature, che ebbe un sussulto quando si frantumarono nel fondo dell’incavo, dissolvendosi. Quel luogo carico d’arcane suggestioni le incuteva timore.
“Vuole provare?” le chiese.
Lei scosse la testa. Non voleva evocare il suo destino e quello degli uomini che le erano accanto.
La breve sosta era un espediente, proprio come fa un prestigiatore che con una mano distrae il pubblico e con l’altra prepara il trucco. Jeanpierre accarezzava la siepe che delimitava il vialetto che percorreva a passi lenti per aspettare Adalberto e Renata.. Indossava, come l’amico, mocassini e pantaloni di lino su una maglietta a tre bottoni, mentre Renata una camicia di seta con dei fouseaux chiari.
“Sono piante di bosso ed hanno più di novant’anni,” gridò il giovane.
Non aveva fatto in tempo a terminare la frase che, dalle strisce erbose laterali del vialetto, partirono sottili getti d’acqua da formare un tunnel, catturando Jeanpierre. Lui alzò le mani per proteggersi, precipitandosi fuori della gabbia. Solo quando ebbe superato il tratto, gli spruzzi d’acqua cessarono, improvvisamente così com’erano venuti. Adalberto scoppiò in una fragorosa risata nel vedere l’amico agitare le braccia con l’intento di scrollarsi l’acqua di dosso.
“Io torno indietro,” disse Renata spaventata.
“Non si può,” si affrettò a dire il giovane. “Una volta entrati nel giardino, il percorso deve essere terminato. Questa è la regola.”
Pronunciò l’ultima frase con tale fermezza, che la donna si sentì prigioniera della sua volontà. Era questo che voleva farle capire il giovane messaggero di sventura? Era lui il padrone. Si capiva dalla scaltrezza con cui si muoveva nel dedalo di sentieri irti di pericoli. Alle volte la sua figura, mollemente appoggiata allo strano bastone metallico, come se le forze lo abbandonassero, le appariva ancora più misteriosa.
“Dammi la mano, facciamo il tratto insieme,” suggerì Adalberto.
“Preferisco andare sola,” ribatté la donna, convinta che se fosse accaduto qualcosa, almeno uno dei due si sarebbe salvato.
Adalberto era sicuro che fosse il peso del corpo a far scattare il meccanismo che azionavano gli ugelli dell’acqua. Prese una leggera rincorsa per evitare un punto sospetto, ma appena il bel mocassino ebbe toccato terra, partì una selva di spruzzi che sollevarono l’ilarità di Jeanpierre.
“L’avevo detto: ride bene chi ride ultimo!”
“Ora tocca a te, mia cara,” ordinò il marito, bagnato come quando un acquazzone ti sorprende in strada senza ombrello.
La donna esitava.
“Forza vieni,” l’esortò Jeanpierre. “Con il caldo che fa, non avrai paura di poche gocce d’acqua!”
Osservava il giovane, sperando in un gesto di clemenza. Lui assentì con il capo. Era quello il segnale che attendeva. Camminava rasente la siepe di bosso, come se fosse sull’orlo di un baratro, per evitare i punti su cui erano passati i due uomini. Stava sorridendo per lo scampato pericolo, ma non fece in tempo a rallegrarsi ché una scarica d’acqua la lasciò senza fiato ad un passo dalla meta. Come poteva avere sperato in un gesto di comprensione da parte del giovane! Lo disprezzò. Si aggrappò al collo del marito per non cadere, con tanta voglia di piangere.
“Oh! La mia povera testa. Avrò bisogno di un parrucchiere.”
“Non pensarci, ne ho visto uno vicino all’albergo.”
Furono quelle semplici parole a riportarla alla realtà. Cominciò a ridere, prima piano, poi sempre più forte. Una risata isterica era la sua, sufficiente a spezzare il filo rosso con cui il giovane voleva soggiogarla.
“Così mi piaci,” sbottò Adalberto mentre le accarezzava i capelli bagnati.
Le dotte citazioni dello studente, come quella sui capperi che crescevano sui muri antichi, non facevano più presa su di loro. Avevano intuito che quel parlare forbito serviva a distrarli, perciò se ne stavano guardinghi, mentre lo seguivano varcare un arco che segnava l’ingresso alle grotte, così umide che dalle pareti cresceva il capelvenere. Si estendevano sotto la villa e la prima grotta era chiamata di Nettuno per le decorazioni ispirate al mare; antro del diavolo la seconda ed era quella dove il giovane li aveva condotti. Di nuovo la paura si impossessò di Renata nel vedere quel demonio con la bocca come un forno che si affacciava da una finestra dai sinistri bagliori rossastri. Aveva percorso tanti chilometri per arrivare nella casa del diavolo. Non era questo un altro segnale, che avrebbe dovuto fare riflettere?
“Porta bene toccare le corna,” esordì il giovane sfiorando il fantoccio che sporgeva dalla cintola in su.
Adalberto e Jeanpierre si avvicinarono alla nicchia che ricordava un teatrino di marionette, entrambi convinti che quel luogo nascondesse qualch’altra diavoleria. Però, non c’era traccia di fori nella volta della grotta e tanto meno sul pavimento. Gli occhi spiritati del diavolo, la gran bocca dalle labbra tumide, le mani nodose poggiate sul davanzale, gli ricordavano i pupazzi del carnevale di Viareggio. Jeanpierre accarezzò la figura nel punto indicato senza che nulla accadesse. Non è che fosse superstizioso, al contrario, lo aveva fatto solo per rispettare l’usanza, un po’ come fanno i turisti che gettano la monetina nella Fontana di Trevi a Roma. Si avvicinò anche Adalberto, ripetendo gli stessi gesti dell’amico. Era certo che nulla poteva accadergli anche perché lo studente era andato fuori ad aspettarli. E invece improvvisamente dalla bocca di Belzebù uscì una lingua d’acqua che lo colpì in pieno volto. La mano rimase sospesa a mezz’aria, il tempo di afferrare Renata e, come se avessero le molle ai piedi, si ripararono nella grotta di Nettuno, dove c’era Jeanpierre ad attenderli. I tre amici capirono a proprie spese perché fosse dedicata al dio del mare. Dalla volta e dal pavimento, cominciò a scendere acqua come in un tunnel di lavaggio automatico per auto. Grondanti d’acqua, uscirono dalle grotte, ridendo per com’erano conciati. Il giovane se ne stava appoggiato al muro, come se fosse estraneo al diluvio che s’era scatenato poc’anzi. Sembrava il dio della pioggia, con quella verga metallica in mano. Renata era convinta che fosse lui ad attivare i giochi. Doveva affrontarlo sullo stesso terreno, dimostrando indifferenza alle sorprese che lui andava preparando. Si sentì pervasa d’energia, la stessa che provava quando faceva l’amore ed era lei a dominare il rapporto.
“Le foglie d’erba cedrina lasciate in ammollo danno un sapore gradevole all’acqua,” disse con voce querula lo studente. “Ne stacchi una da quel vaso, sentirà che buon profumo.”
Renata si diresse, lentamente, verso la scalinata principale per staccare una foglia dall’arbusto coltivato in vaso. Non era l’olfatto il senso che voleva stimolare, come le aveva suggerito il giovane, bensì l’udito. Lei non si voltò, ma lo aveva sentito spostarsi di lato ed armeggiare il bastone metallico in un tombino. Aspettava il getto d’acqua, mentre faceva finta di staccare la foglia. Improvvisamente il suo desiderio si materializzò. Le gocce, attraversate dai raggi del sole, avevano creato un arcobaleno. Quel gioco di luce incantò la donna che, braccia aperte viso al cielo, girava su stessa, avvolta in una specie di cascata di diamanti, che rimbalzavano sulla pelle come minuscole stelle. Sembrava Venere sorta dalle acque per la carica erotica che emanava. Gli indumenti incollati al corpo mostravano le sue forme. Quella visione non sfuggì ai due uomini che la raggiunsero, e nella nuvola d’acqua si strinsero in un abbraccio, lasciandosi andare alle stesse effusioni dei giochi amorosi, che solevano fare in camera. L’acqua cessò, ed ebbero la sensazione che qualcuno avesse alzato il lenzuolo dell’alcova.
“Ancora pioggia!” urlò la donna desiderosa d’altra intimità.
L’asta metallica, che il giovane ostentava come un bastone da passeggio, era in realtà una particolare chiave che infilata nei fori dei tombini, disseminati lungo il percorso, azionava la fuoriuscita dell’acqua. Infilò la chiave nella toppa, che s’incastrò con l’incavo del pulsante e l’acqua ritornò a zampillare.
“Bravo! Ancora più forte!” esclamarono in coro.
Il giovane sorrise; finalmente avevano capito la magia dei giochi. Per gli aristocratici del 700 non c’era manifestazione più erotica di un corpo bagnato. Se i delfini e i putti, all’interno della grotta di Nettuno, avessero potuto parlare, lungo sarebbe stato l’elenco dei fugaci amori consumati in quell’umido luogo tra dame e cavalieri. Ora Renata voleva ritornare nell’antro del diavolo per amare i due uomini e rinverdire la tradizione, senza fuggire come scioccamente aveva fatto da quel luogo di seduzione.
Altri turisti stavano arrivando. Alcuni affollavano il terrazzo esterno. Ridevano ogni qualvolta gli spruzzi d’acqua raggiungevano i malcapitati ospiti, senza accorgersi che erano loro stessi a gettarsi sotto i fili dorati, che spuntavano dal nulla alla ricerca di un insaziabile refrigerio. Le frecce d’acqua che il giovane scagliava, come un novello Cupido, ottenevano sempre l’effetto desiderato.
Erano giunti al termine del percorso. Delle piante, potate a forma conica che delimitavano un viale erboso, avevano attirato l’attenzione di Renata, di là di un cancello opposto a quello da cui erano entrati.
“Che piante sono,” chiese la donna indicando il viale.
“Taxus baccata,” rispose prontamente la giovane guida. “Ogni parte della pianta è velenosa, per questo è conosciuta anche con il nome di albero della morte. Un tempo si credeva che fosse nocivo persino dormire sotto la sua ombra.”
“Interessante la potatura,” disse Adalberto, che una pianta come quella l’avrebbe vista ben volentieri all’ingresso del suo giardino.
“Il giardiniere per la forma si è ispirato ad alcune stampe del seicento, custodite nell’archivio della scuola,” precisò il giovane
“È possibile visitare quella parte del parco?” domandò Renata.
“Vi avrei accompagnato volentieri, ma come vedete c’è gente che attende di entrare,” continuò indicando alcune persone fuori del cancello principale.
“Ma c’è una sposa tra loro!” esclamò la donna, vedendo una ragazza che indossava un lungo abito bianco.
“È una tradizione per gli sposi della nostra città farsi fotografare vicino alla vasca delle ninfee al centro del giardino, con la facciata della villa sullo sfondo.”
“Ovviamente eviterà di bagnarle il bell’abito bianco,” aggiunse Jeanpierre, ancora zuppo fradicio.
“Un po’ d’acqua è di buon auspicio. Non conosce il detto: sposa bagnata sposa fortunata?”
“Possiamo arrivare in fondo al viale?” chiese Adalberto.
Il giovane esitava: quella parte del parco non era aperta al pubblico.
“Percorrete l’intero viale, sino al Teatro di Verzura,” disse infine. “Per uscire, seguite il muro di cinta, eviterete di attraversare di nuovo il giardino.”
“Abbiamo appreso alcune notizie su questo teatro all’aperto dagli opuscoli dell’albergo,” disse Jeanpierre, mettendogli in mano alcune banconote.
“Non è necessario.”
“Prendile le hai meritate,” insistette l’uomo.
“Le dividerò con il mio amico,” bofonchiò, indicando il giovane dei biglietti che ne stava dall’altra parte a trattenere la gente che scalpitava fuori del cancello.
Del “Teatro di Verzura” non era rimasto altro che un avvallamento nel terreno che ricordava un anfiteatro per quei gradoni in terra battuta. Solo recentemente era stata avviata un’opera di recupero e messo a dimora le piante necessarie per riportare all’antico splendore il luogo. Lo scempio lo avevano compiuto i tedeschi durante l’ultima guerra, tagliando tutte le siepi che maestri giardinieri avevano modellato e scolpito a mo’ di quinte di teatro nel corso dei secoli solo per avere la vista libera ai nidi di mitragliatrici Spandau, per contrastare l’avanzata dell’Ottava armata britannica impegnata a sfondare la linea Gotica. Avvertivano una sorta di negatività, come se in quel luogo vi fosse rimasta traccia della vita trascorsa. Il fluire del tempo attraversava le loro menti, da sentirsi nudi di fronte al mondo, incapaci di difendersi contro le forze del male. Aveva un significato il susseguirsi d’immagini colme di simboli tragici? Il viale degli alberi della morte che avevano appena attraversato era un monito al loro agire? Era questo il significato del loro continuo vagare? Domande senza risposte che accrescevano il senso d’impotenza. Poi cominciò a farsi largo la consapevolezza che fossero d’innanzi ad una sorta di visione. Ritornarono con la mente ai giochi d’acqua. Ebbero la sensazione che quella giornata racchiudeva il senso dell’intera loro esperienza. Avevano evocato le pulsioni in modo nuovo, come se il rapporto andasse evolvendosi verso forme astratte. L’atto non aveva bisogno di essere compiuto materialmente, bastava mimarlo, tanto che quel giorno non sentirono il bisogno di proporre il rito nelle forme tradizionali. Si sedettero sui gradoni, immaginando la serie d’archi scavati nelle alte siepi, i giochi prospettici dei fondali, le specie aromatiche intorno al palcoscenico per stuzzicare l’olfatto degli spettatori, che ascoltavano madrigali, tratti dal Canzoniere di Petrarca, felici di essere nel “Teatro di Verzura”, il luogo in cui si materializzavano i pensieri.
Ogni anno all’Arena di Verona si svolgeva nel periodo estivo la più famosa stagione lirica all’aperto del mondo. Avevano deciso di assistere al Nabucco, prenotando con largo anticipo tre poltrone in platea, per l’ultimo spettacolo in cartellone previsto per la fine del mese d’agosto. Alloggiavano nel migliore albergo della città, in due appartamenti comunicanti, arredati con mobili e suppellettili d’epoca.
Renata e Adalberto erano arrivati a Verona la mattina, Jeanpierre subito dopo l’ora di pranzo. Era reduce da una vacanza con Laura in Tunisia. Il deserto lo aveva sempre attratto. Al seguito di una carovana, la coppia si era spinta al sud, nell’oasi di Nefta, nello Chott-el-Jerid, indossando turbanti e lunghi caffettani di lana di capra, per proteggersi dal caldo. L’uomo, con la piccola telecamera, aveva raccolto materiale interessante del viaggio, commentando i luoghi, come se dovesse realizzare un documentario, tanto che la donna gli aveva proposto, scherzando, un posto di lavoro come giornalista nella sua emittente. Scesi all’aeroporto di Milano, lei era ritornata a casa; lui, dopo una breve visita ad un collega in un studio del centro, aveva raggiunto in treno i suoi amici che lo attendevano nella hall dell’albergo.
“Mi siete mancati,” disse Jeanpierre abbracciando i due coniugi.
“Non avere tue notizie per così lungo tempo, mi ha fatto star male,” l’apostrofò Renata. “Ero convinta che ti trovassi in difficoltà e non c’era nessuno che potesse aiutarti.”
“Nel deserto non ci sono pericoli,” l’assicurò Jeanpierre, baciando la donna sulla punta delle labbra.
“È arrivata a pensare che ti avessero rapito,” s’intromise Adalberto.
“In Tunisia i luoghi sono sicuri e la gente ospitale.”
“Preferisco pensarti nella civile Verona,” insistette la donna stringendosi a lui. “Qui sono certa che non può accaderti nulla. Finalmente - continuò rivolta al marito - questa notte non avrò bisogno di pillole per dormire.”
“Tu e Laura, non vi sentivate soli in località così sperdute?” chiese Adalberto.
“Il deserto è un luogo dell’anima dal fascino arcaico,” esordì Jeanpierre.
“Spiegati meglio,” fece Renata che certi discorsi l’intrigavano.
“Le mie sono semplici sensazioni,” precisò Jeanpierre. “Legate a circostanze particolari, squarci di vita, privi d’interesse se raccontati fuori della situazione originale.”
“Non ti fare scrupoli. Un esempio concreto potrà illuminare le nostre menti cittadine,” disse scherzando l’uomo.
“Ci proverò,” disse l’amico che con i ricordi era di nuovo in quel luogo senza tempo. “Mi trovavo fuori della tenda dell’accampamento, con un bicchiere in mano di tè alla menta. Osservavo la fatica di uno scarabeo che spingeva, con le spigolose zampette una pallina di sterco di cammello tra il pietrisco. Il silenzio era rotto solo dal rumore dei granelli di sabbia che scivolavano dalle dune circostanti. Accanto a me c’era Laura, ed entrambi abbiamo avuto la certezza che, in quel mare di pace, le parole erano superflue. Tutto era detto con gli sguardi, piccoli cenni, da rendere ridondante qualsiasi altra espressione. Per tutto il periodo trascorso nel deserto, non abbiamo mai sentito il desiderio di fare all’amore. Abbiamo cercato di capirne la ragione solo quando siamo tornati in albergo.”
“Qual è stata la spiegazione?” chiese ancora l’amico incuriosito.
“Nel deserto non ci sono interferenze. Delle persone riesci a cogliere sempre la dimensione umana. Di contro, la vita frenetica nelle città crea disorientamento e allontana gli individui. È un po’ come se la gente fosse avvolta in una coltre di nebbia, tanto che per ritrovarsi, la coppia avverte la necessità di un continuo contatto fisico.”
“Nel nostro mondo industrializzato,” puntualizzò Renata, “fare all’amore significa ristabilire il collegamento perso?”
“Senza volerne fare una regola valida per tutti, per noi è stato così,” rispose Jeanpierre. “Nell’oasi, nonostante avessimo vissuto come due eremiti, non ci siamo mai sentiti soli come in città,” proseguì l’amico. “Giunti in albergo, abbiamo fatto l’amore più volte. Solo così ci siamo ritrovati.”
“Hai parlato con Laura della nostra relazione?” domandò Adalberto.
“Il timore che potesse considerarmi un individuo amorale, in cerca di sensazioni forti, ha frenato ogni proposito.”
“Che cosa intendi fare, allora?” insistette l’uomo.
“Ho troppo rispetto dei suoi sentimenti,” disse Jeanpierre scuotendo la testa. “Alla riapertura della stagione sinfonica, sarà nel nostro palco. Solo dopo che vi avrà conosciuto, le parlerò del nostro rapporto.”
I tre amici, quando erano insieme, sembravano essere all’interno di una capsula. Non c’era verso che il mondo circostante potesse interferire sui loro comportamenti. Non avvertivano la babele di lingue che li circondava e tanto meno notavano l’andirivieni dei clienti dell’albergo che affollavano la hall, venuti per assistere lo spettacolo che richiamava ogni stagione all’Arena di Verona circa seicentomila spettatori.
“E voi: che cosa avete fatto in tutto questo tempo?” chiese Jeanpierre.
“Siamo stati in casa,” rispose Renata. “Senza la tua presenza, sembrava tutto insignificante. Il pensiero che, presto, avremmo assistito alla rappresentazione del Nabucco, appagava già ogni nostro desiderio d’evasione.”
“Abbiamo incontrato Patrizia la settimana scorsa per le vie del centro,” disse Adalberto con quel tono di voce di chi ha in mente una circostanza da riferire per rendere più interessante la conversazione.
“Dai nostri volti, si è accorta subito del cambiamento,” disse Renata. “Sembrate ringiovaniti, mi ha detto baciandomi sulle guance. È Jeanpierre l’artefice del miracolo? Ha chiesto maliziosamente. Non ho potuto nasconderle la verità. Ti dispiace?” chiese la donna.
“E perché dovrebbe dispiacermi,” rispose Jeanpierre. “Il sesso non ha mai ucciso nessuno, e con Patrizia non ci devono essere segreti,” sospirò.
“Le abbiamo raccontato che il donarsi all’altro completamente, senza distinzione di sesso, ha reso tutti migliori,” precisò meglio Adalberto, che non voleva nascondere nulla all’amico. “Ci siamo soffermati a parlare persino delle pulsioni che cerchiamo di liberare nei nostri incontri e che creano appagamento fisico ed esaltazione della mente,” continuò l’uomo che cercava di cogliere altri significati alla travolgente relazione dai risvolti terapeutici che lo aveva guarito dall’impotenza.
Jeanpierre li strinse entrambi a sé, dicendo: “Mi siete mancati. Era come se una parte di me fosse altrove. Contavo i giorni che mi separavano da voi. Finalmente siamo di nuovo insieme.”
Dopo averlo sognato tante volte, Renata gli prese la mano per constatarne la fisicità. L’odore della pelle evocò in lei sensazioni sopite che riaffioravano con veemenza e che non sfuggirono a Jeanpierre per quello sguardo trasognato e le ombre nere, che avevano agitato i sonni della donna cessarono.
“Ho bisogno di fare una doccia, per togliermi la stanchezza del viaggio,” disse l’uomo. “Salgo in camera per disfare la valigia.”
“Ne approfitto per andare dal parrucchiere,” disse prontamente Renata, riavutasi dall’attimo di abbandono.
“Lascia che ti accompagniamo,” ribatté l’amico.
“Sei troppo stanco.”
“Dopo le camminate nel deserto, sono ben allenato,” rispose Jeanpierre prendendola sottobraccio, cui si associò Adalberto.
Uscirono dall’albergo con incedere leggero, diretti al salone di bellezza un isolato più avanti. La mente, liberata dalle costrizioni quotidiane, acuiva le loro percezioni sensoriali; cosicché ogni semplice gesto si caricava di passione, liberando energia vitale. E dall’espressione dei loro volti, era palese lo stato di grazia che li pervadeva, immaginando i teneri momenti che avrebbe presto condiviso in cui sarebbero diventati una sola anima.
“Non c’è bisogno che attraversiate la strada,” disse con premura la donna, in prossimità del negozio che esponeva manifesti di modelle con acconciature alla moda.
“Per quanto tempo ne avrai?” chiese Jeanpierre.
“Un’ora circa,” rispose.
“Ti aspettiamo in albergo,” proseguì l’uomo baciandole le labbra. “Questa sera ci attende un grande evento e tu devi farti bella per noi.”
“Il vestito che indosserò sarà una sorpresa per entrambi.”
“Non puoi anticiparci la sorpresa?”
“Dovete avere un po’ di pazienza,” rispose. “Posso solo annunciarvi che la toilette è legata al mondo della lirica.”
Disse quest’ultima frase aggrottando i cigli come se un vento gelido si fosse levato in quell’istante da metterle i brividi.
“Tutto a posto?” chiese Adalberto, cui non era sfuggita la strana espressione, la stessa che aveva in albergo, prima dell’arrivo di Jeanpierre.
“Sì tutto a posto,” rispose la donna, guardando prima gli occhi del marito poi quelli dell’amico. “Vi voglio bene,” aggiunse mentre entrava nel salone di bellezza in preda a nuovi presentimenti.
I due uomini, per ritornare in albergo, fecero il giro dell’isolato, solo per godere la vista degli insigni palazzi che si affacciavano sulla via.
“Incontrarsi in città sempre diverse,” esclamò Jeanpierre pervaso da una strana euforia. “Mi fa sentire come certi viaggiatori del 700 che, stimolati dalle bellezze dei luoghi, erano sempre aperti a nuove esperienze.”
“Provo anch’io le stesse emozioni,” disse Adalberto accarezzandogli la mano.
Dal meandro del fiume arrivava una leggera brezza che riusciva appena a mitigare l’afa del pomeriggio. Si tenevano sottobraccio a dimostrazione del profondo legame che li univa. Erano innamorati della stessa donna, la quale li contraccambiava in eguale misura. Sotto la sua guida avevano spostato in avanti il vincolo affettivo ammesso tra due uomini, superando ogni tabù legato al sesso. Il loro rapporto non era complicato, legato a chissà quali morbose passioni, al contrario rappresentava il giusto approdo per persone dotate di una sensibilità particolare. La musica aveva esaltato ogni loro sentimento, confinando la relazione in un’area mistica dove tutto era ammesso, senza rendersi conto che la loro esperienza rappresentasse un’evoluzione del rapporto di coppia, la quale liberata dagli obblighi parentali, era aperta ad accogliere nel proprio seno persone desiderose di dare e ricevere affetto.
“L’aria condizionata è una grande invenzione,” proruppe Jeanpierre, appena i due amici ebbero messo piede nella portineria dell’albergo.
“Il bagaglio è stato portato in camera,” si affrettò a dire l’impiegato con fare sussiegoso, uscendo da dietro una tenda. “Queste sono le chiavi. Secondo piano!” aggiunse con voce stentorea, mentre con un occhio controllava le valigie dei clienti in partenza.
“L’ascensore è occupato,” disse Adalberto. “Conviene salire a piedi. È sempre così quando ci sono gruppi che lasciano l’albergo.”
Al secondo piano, la cameriera era intenta a passare l’aspirapolvere sulle guide di panno rosso. Non vide, in fondo al corridoio, i due uomini che si apprestavano ad entrare nei loro appartamenti.
“Lascio la chiave sulla porta,” disse Adalberto. “Così Renata può entrare senza bussare.”
“Ottima sistemazione,” ribatté l’amico osservando l’arredamento della camera, sentendosi a proprio agio, per quel cassettone in stile veneto con canestri di fiori dipinti ai lati. Nel corridoio della sua casa ne aveva uno simile, acquistato dalla moglie in una mostra d’antiquariato, dove riponeva la biancheria per il ricambio dei letti.
“La tua stanza è comunicante alla nostra,” disse Adalberto aprendo la porta sulla destra.
Sopra la consolle sormontata da una specchiera di pregevole fattura, Jeanpierre vide la sua borsa. Si guardò allo specchio mentre l’afferrava. Aveva la barba di qualche giorno.
“Nel deserto, non avevi l’assillo costante di curare la tua persona,” bofonchiò l’uomo, passandosi la mano sul volto. “Anche l’acqua per lavarsi era ridotta al minimo e ti assicuro che i nostri corpi non emanavano gli insopportabili afrori che solitamente si avvertono se la sera non ti fai la doccia.”
“Dipende dall’alimentazione,” precisò l’amico. “Ingerire troppe calorie comporta un processo digestivo laborioso e le quantità di scorie da smaltire, anche attraverso la sudorazione, sono maggiori.”
“Per questo i beduini del deserto sostengono che noi occidentali emaniamo un puzzo che sa di morte,” chiosò Jeanpierre.”
“Hanno ragione se consideri che i processi fermentativi sono molto simili in entrambi casi,” sibilò il chirurgo, tralasciando sgradevoli dettagli comparativi.
“Ora capisco perché nei nostri confronti le diffidenze sono cessate solo una settimana dopo che eravamo con loro,” disse Jeanpierre. “Nutrendoci degli stessi alimenti, bevendo gli stessi liquidi, avevamo disintossicato i nostri corpi. Le nostre menti si sono aperte agli spazi di quei luoghi, che io considero sacri, solo dopo l’avvenuta purificazione,” sospirò. “Dobbiamo ritornarci, è un’esperienza troppo esaltante per lo spirito,” continuò Jeanpierre rivolto all’amico quasi in tono di supplica.
“Sì certo lo faremo tutti insieme, magari con Laura,” disse Adalberto. “Tanto dovremo conoscerla all’apertura della prossima stagione sinfonica: non è vero?”
“Ora che me lo rammenti, debbo andare al botteghino per acquistare gli abbonamenti,” rispose Jeanpierre mentre appendeva nell’armadio lo smoking, che avrebbe indossato la sera.
“Te lo chiedo con tutta sincerità,” l’apostrofò Adalberto. “E mi devi rispondere con franchezza, credi che la presenza di Laura potrà essere da ostacolo alla nostra relazione?”
Jeanpierre rimase con le mani appoggiate allo sportello che stava chiudendo, come se stesse cercando le parole adatte, convincenti non solo per l’amico, ma anche per se stesso. E, alla fine, calibrando il tono di voce, provò ad esporre il suo pensiero.
“Dividiamo i due momenti,” esordì enfaticamente, nemmeno avesse di fronte un cliente dello studio. “Un conto è la nostra relazione, che continuerà a muoversi nel tracciato già segnato, altra cosa è la vostra amicizia con Laura.”
“Che cosa intendi dire,” s’affrettò a replicare l’amico.
“Dico semplicemente che i nostri comportamenti dovranno adeguarsi all’evolversi della situazione, senza forzare i tempi. Per quel che mi riguarda, potere condividere, con la donna che amo, la passione che noi abbiamo per la musica, appaga ogni mio desiderio. Non sei d’accordo?”
“Sì, credo che tu abbia ragione,” rispose l’amico con fare dubbioso.
“Ma dimmi: che cosa pensa Renata della nostra esperienza?” chiese Jeanpierre, per sviare la conversazione. “È sempre così affettuosa e disponibile nei miei confronti,” aggiunse.
“Non puoi immaginare come la tua presenza abbia giovato non solo alla sua serenità ma anche alla mia. Lo stare insieme, per noi è una fonte continua d’emozioni. Siamo convinti di vivere una seconda giovinezza.”
“Anch’io sono dello stesso avviso,” rispose l’uomo, sedendosi sullo spazioso letto laccato d’azzurro, con sulla testiera gli stessi motivi floreali del cassettone, per togliersi le scarpe. “Tutto è nato grazie alla passione che abbiamo per la musica.”
“Un linguaggio universale compreso da tutti,” rispose come un’eco l’amico, pensando agli stranieri dell’albergo venuti persino dal Giappone e dall’Australia per assistere al Nabucco. “Ti dà fastidio se ti osservo mentre ti spogli?” continuò Adalberto.
“No, affatto,” rispose Jeanpierre che trovava naturale condividere anche quei momenti d’intimità.
“Nulla è cambiato allora tra noi?” insistette.
“Perché mi poni questa domanda? In me hai forse notato qualcosa di diverso?” ribatté Jeanpierre.
“Ti chiedo scusa,” l’interruppe Adalberto. “Conosco i tuoi sentimenti, ma dopo venti giorni trascorsi con la donna che ami, potresti avere avuto qualche ripensamento.”
Jeanpierre era completamente nudo. L’abbronzatura del corpo esaltava le sue forme fisiche da renderlo ancora più attraente. Si avvicinò all’amico per dimostrargli che il suo affetto era immutato. Lo baciò sulla punta delle labbra per tranquillizzarlo, come aveva fatto con Renata quando si erano salutati nella hall dell’albergo. Adalberto lo afferrò in vita e rimasero abbracciati, come due persone che dopo essersi perse finalmente si ritrovavano. “Vuoi che facciamo la doccia insieme?” sussurrò Jeanpierre.
L’uomo annuì il capo con espressione di gratitudine.
Dal bagno proveniva lo scrosciare dell’acqua che cambiava intensità, a causa del flusso che Jeanpierre cercava di regolare.
“Come ti piace l’acqua?” gridò.
“Appena tiepida,” esclamò Adalberto dalla sua stanza, mentre piegava i vestiti in fondo al letto.
“Attento a non scivolare,” disse Jeanpierre con voce premurosa, appena l’amico ebbe poggiato i piedi sul piatto della doccia che poteva ospitare comodamente due persone.
I glutei sodi, le gambe diritte e snelle, lo stomaco appena accennato, conferivano al maturo uomo un aspetto che non sfigurava affatto accanto all’amico più giovane. Cominciarono a fischiettare l’ouverture de La Gazza Ladra di Rossini. Risero di gusto: con la mente erano ritornati entrambi ai giochi d’acqua di Villa Caprile. Erano l’uno di fronte all’altro con l’acqua che rimbalzava sui loro corpi.
Avvolti in una nuvola di vapore, gli impulsi arcaici incominciavano ad affiorare, e più si manifestavano, più i due uomini regredivano ad uno stato fetale. Non erano nella doccia ma dentro la sacca amniotica. Cominciò Adalberto ad officiare il rito. Incollò le labbra su quelle di Jeanpierre, scivolando lungo il petto, sul ventre, sino a fermarsi sul pube, che convogliava sul pene l’acqua che scendeva a rivoli, similmente a quando orinava. Aprì la bocca riempiendola del molle sesso, che sollecitato dal movimento delle labbra acquistava forma, tanto che Adalberto non riusciva a contenere la massa enorme del pene. Jeanpierre aveva divaricato le gambe e teso le braccia, mentre l’acqua purificatrice scrosciava sul suo volto. Sembrava l’uomo di Vitruvio nel disegno di Leonardo, la cui effige figurava sulle monete di un euro coniate per l’Italia. Quel gesto ieratico era la maniera di donarsi completamente all’amico, per consentirgli ogni manipolazione. Sentiva le dita insinuarsi nella cavità anale, la lingua solleticare la base del glande, il punto dove confluivano i centri nervosi. Se ci fossero state altre parti del corpo che potevano accendere identiche reazioni, quelle sarebbero state oggetto di altrettanta venerazione. Faust aveva venduto l’anima al diavolo per godere i beni della terra. Loro si erano limitati a ricercare percezioni nuove attraverso la biochimica del corpo, senza ricorrere a particolari sostanze se non quelle prodotte dal loro organismo, a differenza di tanti giovani che, per caricarsi, consumavano droghe ed alcol dai nefasti effetti sulla salute.
Sotto l’incalzare dei movimenti delle labbra, delle dita, che a forma d’anello si muovevano sull’asta del pene, Jeanpierre eiaculò. Adalberto deglutì la sostanza gelatinosa, proprio come certe tribù antropofaghe del Borneo le quali, per impossessarsi delle virtù dei guerrieri uccisi, mangiavano le loro carni. Ancora una volta, istinti atavici affioravano nei gesti dei due rappresentanti dell’evoluzione della specie. Condannarli avrebbe significato puntare il dito contro lo stesso uomo, nella cui natura erano racchiusi certi comportamenti.
Toccava a Jeanpierre dedicarsi all’amico, affinché potesse scaricare l’energia accumulata, ben evidente nel pene che svettava nell’aria come una torcia. Accarezzò con le labbra il lucido glande, su cui picchiettava l’acqua. Continuò a salire lungo il corpo sino a raggiungere la bocca, dove insinuò la lingua, per cercare tracce del proprio seme per portare a compimento la simbiosi.
“Lascia che ora possa prendermi cura di te,” disse Jeanpierre spingendo con un piede la porta della doccia che si aprì con uno scatto metallico. “L’acme, tra due uomini, non si ottiene nel medesimo istante,” continuò interrompendo il getto dell’acqua.
“È bello anche vedere gioire la persona che si ama,” rispose Adalberto.
Jeanpierre asciugava con l’accappatoio la schiena dell’amico. I suoi gesti delicati esprimevano una sottomissione totale, tanto da suscitare nel maturo uomo le pulsioni necessarie per compiere l’atto, sempre violento all’inizio. Jeanpierre gli baciò il collo, sdraiandosi sul letto con le braccia tese per accogliere l’amico desideroso di penetrarlo.
Che cosa passasse nella mente dei due uomini, ora che si trovarono ognuno tra le braccia dell’altro è presto detto. Sembrava che la teoria enunciata da Jeanpierre secondo la quale attraverso il rapporto sessuale si ristabilissero i contatti continuamente spezzati per l’intromissione di segnali di disturbo provenienti dal mondo circostante, rispondeva appieno al desiderio di tenerezza di entrambi. Adalberto avrebbe voluto congelare nella sua mente l’istante in cui Jeanpierre inarcava il bacino. Non gli interessava raggiungere l’orgasmo, quanto prolungare il senso di pace che lo pervadeva. Perché quell’atto che racchiudeva sentimenti nobili quali amicizia, amore, affetto, stima, attaccamento, solidarietà, era considerato blasfemo? Perché scomodare una categoria di giudizio così sprezzante, quando l’eros, l’istinto più potente dell’uomo, prende strade diverse? Perché non considerarlo semplicemente un atto capace di appagare desideri individuali, astenendosi dal proferire giudizi morali? Erano questi i pensieri che agitavano le menti dei due uomini in quella camera d’albergo in un giorno di fine agosto.
Il rito stava per arrivare a conclusione. Adalberto, in preda ad un’eccitazione incontenibile, muoveva freneticamente il bacino come se volesse far passare nel piccolo orifizio l’intero suo corpo. Emise un urlo di piacere, tanto da spaventare Jeanpierre che cercava di assecondare i movimenti dell’uomo per dimostrargli tutta la passione, anche se non riusciva ad interpretare l’espressione quasi di terrore stampata sul volto del maturo amante.
Renata aveva terminato di farsi bella. Non solo aveva voluto un’acconciatura particolare, con i capelli raccolti dietro la nuca per mettere in risalto l’ovale del viso, ma si era sottoposta alle cure dell’estetista con un trucco sobrio che si addiceva alla sua personalità di donna pratica, sul cui volto gli anni erano passati con leggerezza. Doveva affrettarsi; aveva impiegato più tempo del previsto. Cambiarsi, cenare, rimaneva poco tempo per essere pronta per lo spettacolo della sera. Non sapeva distinguere se l’amore che provava per i due uomini fosse identico. Si accorgeva di alcune sottili differenze quando lasciava vagare la mente mentre se ne stava nella sua stanza preferita, osservando, attraverso la grande vetrata, che dava sul giardino, le chiome degli alberi mossi dal vento. Certo, per Adalberto, con cui aveva condiviso molti anni della sua vita, nutriva un attaccamento particolare, solo perché ai suoi occhi appariva più fragile, ma quando li sentiva accanto per le vie della città o seduti su una poltrona di teatro trasportati dalla musica, allora il suo cuore traboccava d’amore per entrambi, senza alcuna distinzione, dimenticando persino che Adalberto fosse il padre del loro unico figlio. Alcune volte si chiedeva come avrebbe reagito quest’ultimo se avesse saputo della relazione a tre. I figli sono convinti che i genitori con il sesso abbiano chiuso superata una certa età. Solo ai padri attribuiscono qualche residua velleità, destinata presto ad esaurirsi, nemmeno si trattasse di una malattia contagiosa, per approdare inesorabilmente ad un’esistenza priva di qualsiasi stimolo sessuale per il resto degli anni. Renata, al contrario, dopo gli anni di forzata castità, aveva riscoperto la potenza dell’eros, intesa come capacità di suscitare pulsioni, che avevano l’effetto di migliorare il suo benessere fisico. Non le era mai capitato di vivere con tanta intensità la propria vita, anche se alcune attività le aveva sempre svolte, come frequentare teatri soggiornando nei migliori alberghi. Ora, però, vi scorgeva un fine. L’idea d’incontrarsi in luoghi sempre diversi, abbandonandosi a riti dal sapore orgiastico, ricchi di suggestioni pagane, con due uomini diventati la proiezione delle proprie fantasie, la caricava a tal punto che sarebbe stata disposta, all’istante, prendere un aereo per assistere al Metropolitan di New York a qualsiasi rappresentazione in cartellone, solo per finire la serata nella stanza di un albergo di Manhattan nel Lincoln Center per dare sfogo ai suoi desideri. Il loro sodalizio li aveva portati a formare un nucleo, all’interno del quale tutto era ammesso. Per tale ragione non rappresentava una novità per la donna che Jeanpierre e Adalberto, alcune volte, si amassero in sua assenza. Accadeva raramente ed erano sempre i due uomini a riferirlo alla donna. Lei provava tenerezza ad ascoltarli, forse perché ai suoi occhi gli apparivano la stessa persona e di certo non poteva essere preoccupata se l’altra parte della coppia diventava un’entità unica. Anzi lei voleva che i due uomini avessero un proprio spazio, che rafforzasse il loro legame, più bisogno d’attenzioni, considerando che il rapporto tra uomini, a differenza di quello tra donne, è il più detestato nelle società evolute, proprio perché mette in discussione il mito della virilità su cui poggia il potere maschile.
Davanti all’albergo sostavano alcuni taxi da cui scendevano clienti con delle capienti borse a tracolla. La donna attraversò la porta girevole dirigendosi verso il salottino dove, con il marito, aveva atteso Jeanpierre, convinta d’incontrare i due uomini. Non c’era traccia di loro, ma solo alcune coppie, dall’accento straniero, che sorseggiavano un aperitivo, e alcuni ragazzi che, incollati davanti allo schermo di un televisore, ridevano alle battute di un comico. Adalberto era salito di sopra, pensò subito, vedendo in portineria l’alloggiamento delle chiavi della loro stanza vuoto. E senza interpellare l’uomo della ricezione, occupato al telefono, si diresse verso la scala, evitando l’ascensore già affollato di persone che attendevano di salire con i bagagli. I corridoi dell’albergo erano tutti uguali e Renata, superata la prima rampa, chiese alla cameriera ai piani dove si trovasse l’alloggio.
“É al piano di sopra, in fondo al corridoio,” rispose gentilmente la donna. “Questo è il primo,” continuò, spingendo il pulsante dell’aspirapolvere, che riprese a rullare rumorosamente sul tappeto.
Sulle pareti del lungo corridoio antiche stampe di vedute della città s’alternavano a specchi dalla cornice dorata. Sorrise nel vedere la chiave infilata nella toppa della serratura, un gesto di cortesia rivolto a lei, che confermava che i due uomini erano nelle rispettive stanze. Non voleva tradire le loro attese dopo l’imperativo ordine di Jeanpierre di farsi bella e, prima d’entrare, con delicati gesti delle mani, si aggiustò la messa in piega di fronte ad uno degli specchi del corridoio.
“Adalberto, sono io!” esclamò varcando la soglia, “Sono tornata,” continuò affacciandosi nel bagno, convinta che stesse radendosi. Un silenzio irreale regnava nella stanza; persino dalla camera di Jeanpierre non proveniva alcun rumore. “Sono al bar dell’albergo,” pensò, anche se non capiva perché Adalberto avesse lasciato la chiave sulla porta. Il ronzio del condizionatore d’aria, simile all’eco di un temporale lontano, le procurava un senso di fastidio che cercò d’allontanare con leggeri movimenti circolari delle dita sulle tempie. Si sedette sul letto, mentre cercava di riordinare le idee. Non aveva tempo di preoccuparsi dove fosse Adalberto, doveva prepararsi per la serata ed era già in ritardo. Aprì l’armadio per riporre i vestiti lasciati sul letto dal marito, ma rimase perplessa nel vedere appeso alla gruccia lo smoking, la cui presenza contraddiceva le sue supposizioni. I due uomini non potevano aspettarla al bar se Adalberto doveva ancora cambiarsi. Ma allora dov’erano?
“Adalberto, Jeanpierre, siete di là?” sbottò la donna dirigendosi verso la porta chiusa che comunicava con l’altra stanza. “Posso entrare,” continuò con voce più sostenuta per timore di non essere stata udita.
Attese ancora un istante e, non ricevendo risposta, in preda ad una forte agitazione, spinse la porta.
Ah! se non avesse fatto quel gesto, le sarebbe stata risparmiata la scena più straziante cui essere umano potesse immaginare, tanto violenta, assurda e inaspettata era apparsa. Vedere le persone più care distese sul pavimento, completamente nude, in una pozza di sangue, per la donna fu come precipitare in un baratro, dalle cui pareti sporgevano lame affilate, che le scarnificavano il corpo sino a ridurlo ad uno scheletro. Il conato di vomito riuscì a fermarlo portandosi la mano alla bocca e allo stomaco, ma non riuscì a trattenere una sorta di rantolo, cupo, profondo, come se la voce stentasse ad uscire per la disperazione. A fiotti le lacrime cominciarono a sgorgare, accompagnate da un lamento simile ad una nenia, mentre si chinava sul corpo del marito privo di vita. Un rivolo di sangue fuoriusciva da un foro sopra l’orecchio, tingendo di rosso i capelli bianchi. Jeanpierre gli era accanto, colpito al petto e alla spalla, con un’espressione serena, rivolta all’amico come se avesse voluto tranquillizzarlo nel momento più solenne della vita, quando la morte appare improvvisa. Le ombre minacciose, che avevano perseguitato la donna, si erano materializzate tutte nella stanza. Come la massa d’acqua che fuoriesce dall’alveo del fiume e sommerge il paesaggio in un immenso pantano alimentato dalle acque che ribollono sotto la torbida superficie, tale era il suo dolore che non appariva sul volto, ma che scavava in profondità da farle perdere il significato dell’immane tragedia cui era vittima. Sarebbe dovuta rimanere con loro; morire insieme, portando sino in fondo il senso della loro unione. E lei al grande appuntamento non si era fatta trovare per seguire la vanità femminile. Non era riuscita ad opporsi con tutte le forze a ciò che i suoi presentimenti le avevano indicato: sua era la colpa dell’accaduto.
Sopra il piccolo tavolo del salottino c’erano i pantaloni di Jeanpierre; sul pavimento il portafogli aperto senza alcuna banconota. Capì che qualcuno si era introdotto nella stanza. Si trattava di un furto tramutatosi in tragedia o una simulazione per sviare i sospetti? Di certo, l’individuo aveva sorpreso i due uomini stesi sul letto fare l’amore, i quali avevano reagito, firmando così la loro condanna. Il primo impulso fu di chiamare la polizia, ma poi posò la cornetta del telefono. Non avrebbe sopportato le domande degli inquirenti, curiosi di conoscere ogni dettaglio della storia. Quali spiegazioni avrebbe fornito di fronte a quei corpi nudi che giacevano per terra? Li avrebbero trattati da persone immorali, da meritarsi l’orribile fine che avevano fatto. No, nessuno poteva violare quella stanza, diventata agli occhi della donna un luogo sacro, una sorta di tempio, da difendere con tutte le forze dalla stupidità umana.
Di nuovo il dolore prese il sopravvento e lo strazio di fronte ai corpi senza vita si fece più acuto. Certo, loro avevano voluto percorrere strade nuove. Si erano spinti dove altri non avevano osato e sarebbero andati oltre se qualcuno non li avesse fermati. All’uomo non è dato di assecondare le proprie inclinazioni senza pagarne le conseguenze.
S’inginocchiò per baciare le fredde labbra, come se quell’amorevole gesto potesse riportare in vita i due uomini. Accarezzava i loro peni, piccoli come quelli di un bambino, e tali sembravano se non fosse stato per la peluria che copriva i loro pubi: rada in Adalberto, fitta in Jeanpierre. Vi passava le dita com’era abituata a fare, quando cercava di stimolare un’erezione. Uno strano oggetto metallico dai sinistri bagliori era finito sotto il comò. La mano della donna si piantò piatta sul pavimento, seguendo la linea dei mattoni, prima titubante, poi aggressiva, per le dita che poggiavano come artigli. Dovette chiudere la porta, che metteva in comunicazione le due camere, per riuscire ad afferrarlo. Sì, era proprio l’arma del delitto. L’assassino doveva avere urtato la poltrona, ora in posizione girata rispetto all’altra. La pistola doveva essergli sfuggita di mano. Per la fretta di lasciare la stanza non l’aveva cercata e lì era rimasta. L’impugnò come aveva visto fare tante volte al cinema. Non poteva immaginare che un oggetto tanto insignificante avesse spezzato la vita delle persone che più amava. La lasciò cadere sul divano come se le bruciasse la mano. Tutto quel disordine l’infastidiva. Raccolse il portafogli di Jeanpierre che rimise nella tasca dei pantaloni. Erano gesti spontanei che l’aiutavano a non pensare, altrimenti qual era la ragione per cui stesse rassettando l’intera stanza, compreso il bagno, come se nulla di tragico fosse accaduto. Anzi doveva affrettarsi, la rappresentazione del Nabucco sarebbe iniziata tra due ore e lei doveva cambiarsi. Ritornò nella sua stanza, cantando a mezza voce i celebri versi del coro degli Ebrei schiavi:
“Va, pensiero sull’ali dorate;
va, ti posa sui clivi, sui colli,
ove olezzano tepide e molli
l’aure dolci del suolo natal!”
La melodia, appena sussurrata, ebbe l’effetto taumaturgico di farle dimenticare l’orrenda verità che si celava dietro la porta. Le giungevano dalla strada i rumori ovattati del traffico. Dal comò prese la scatola della sartoria contenente un vestito lungo di raso bianco damascato, e uno scialle blu cobalto da mettere sulle spalle. La Callas indossava un modello simile in una delle ultime tournée, la cui registrazione la Radio televisione italiana aveva trasmesso in occasione dell’anniversario della sua morte, che i tre amici avevano visto in casa di Adalberto. Era questa la sorpresa che voleva fare ai due uomini ed era certa che l’avrebbero gradita. Amavano la cantante, considerata la voce lirica più bella del secolo. Assistere ad uno spettacolo, sul cui palcoscenico la celebre soprano si era esibita nel ruolo di Aida, la schiava etiope, aumentava la carica emotiva.
Lei era pronta. Perché Adalberto non aveva ancora indossato lo smoking? Era di là con Jeanpierre. Avevano appena fatto la doccia. Dall’armadio prese l’abito del marito, una sorta di divisa che contraddistingueva l’appassionato melomane dallo spettatore occasionale, in virtù del quale l’uomo riusciva in qualsiasi teatro a fare gruppo, proprio come avviene allo stadio quando s’indossano i colori della squadra del cuore.
“Adalberto, dobbiamo affrettarci,” disse aprendo la porta.
Per un istante aveva rimosso tutto. L’incubo era di nuovo davanti ai propri occhi. Abbandonò il vestito a terra. Le gambe cominciarono a vacillare. Riuscì a sedersi sulla poltroncina, afferrando lo schienale per non cadere.
“Perché non sono morta anch’io?” urlò la donna in preda ad un pianto disperato. “Mi avete lasciato sola,” inveì ancora.
Sul divano vide l’arma. L’afferrò, stringendola al petto come un oggetto amato. Portò la canna alla bocca. Non aveva la forza di premere il grilletto e il braccio cadde pesantemente sul grembo. Aveva bisogno di caricarsi d’energia, come le accadeva quando faceva all’amore, allora sì che avrebbe avuto il vigore di condurre a conclusione il proposito, ma gli uomini erano lì ai suoi piedi, che non si prendevano cura di lei. La musica, certo la musica. Le ritornavano in mente le parole di Adalberto sulla terapia con la musica: “Le onde sonore, superati i filtri della razionalità, entrano in contatto con la parte profonda della coscienza, producendo effetti da alleviare stati ansiosi ed altre situazioni patologiche.” Ma dove prendeva la musica. Chiuse gli occhi per vincere il senso di vertigini, mimando a mezza voce la melodia Verdiana, con la mente rivolta ai corpi distesi sul pavimento. In preda a quella sorta di dormiveglia, ebbe l’impressione che Jeanpierre si fosse mosso. Sì, aveva ritratto il braccio e facendo forza sulla mano, si era sollevato dal pavimento: bello nella sua nudità. Sembrava che i fori delle pallottole non gli avessero tolto le forze. I rivoli di sangue che scendevano lungo il ventre fino a sparire dietro l’anca, assomigliavano al percorso di un fiume, con i meandri e persino gli affluenti. L’uomo la osservava con quello sguardo carico di seduzione, annuendo con il capo per compiacersi dell’elegante vestito che indossava, simile a quello della Callas. Lei rispose con un sorriso, meravigliandosi che fosse così facile comunicare con il pensiero. L’uomo, obbedendo al suo invito, s’inginocchiò e, con gesti rapidi, le sfilò le mutandine di pizzo nero, divaricando appena le gambe, lo spazio sufficiente per poterci infilare la mano. La donna agitava il bacino per esortarlo a carezze più profonde, le sole che riuscissero ad eccitarla. Ora si era fatto avanti anche Adalberto. Con gesti rapidi slacciò il reggipetto per meglio toccarle i seni, mentre la baciava. La donna sapeva che i suoi uomini non l’avrebbero lasciata sola. Sotto l’incalzare delle loro carezze, sentiva l’energia attraversarle il corpo. Tutte le forze le stavano tornando. Il braccio che teneva in grembo aveva perso la pesantezza. Portò alla tempia la pistola che stringeva in pugno. Jeanpierre suggerì l’inclinazione del braccio, mimando come una ninna nanna la melodia del Nabucco. Un’ondata di calore attraversò il corpo della donna. Emise alcuni gemiti di piacere. Adalberto attendeva quel segnale per aumentare la pressione sul dito della sua diletta fermo sul grilletto. Lampi di vita attraversavano la mente di Renata, avvolti in una luce abbagliante. Si rivide bambina in braccio alla madre e con il figlioletto che succhiava il latte dal suo seno. Poi apparvero Adalberto e Jeanpierre nei giardini di Villa Caprile. La chiamavano tra gli spruzzi d’acqua che rimbalzavano sui loro volti come minuscole stelle. I due uomini la stavano aspettando mentre lei se ne stava in una camera d’albergo tutta sola. Doveva raggiungerli. Uno sparo echeggiò nella stanza e fu subito buio.
8
Sulle tracce dell’assassino
Ilaria si trovava a Verona da tre giorni. Voleva ricostruire i movimenti che i tre amici avevano compiuto in quella maledetta giornata, per trovare qualche altro indizio utile per la soluzione dell’enigma circa l’identità dell’assassino. Non riusciva a togliersi dalla mente il corpo della donna riverso sulla poltrona privo di vita. I giornali avevano riportato ogni macabro dettaglio della scena: il capo reclinato all’indietro; il foro sulla tempia destra circondato dall’alone della bruciatura; il grumo di sangue tra i capelli nel punto in cui la pallottola era fuoriuscita conficcandosi nel soffitto. Si era talmente immedesimata in lei, che aveva compreso le profonde motivazioni che stavano dietro l’estremo gesto. Aveva preferito togliersi la vita, piuttosto che condurre un’esistenza senza le persone amate. Sentiva un affetto struggente crescerle dentro, tanto che desiderava fare la conoscenza del figlio americano, per condividere con lui il ricordo delle persone care, ora che non aveva più nessuno.
La ragazza alloggiava in un albergo diverso da quello dove era avvenuto il delitto, per timore che il personale potesse collegare il suo nome a quello del padre. Era uscita sul far della sera, indossando un tailleur dai colori sgargianti, tacchi a spillo, occhiali scuri e un cappello rosso a tese larghe. Tra i diversi mimetismi presi in considerazione, aveva anteposto al camaleonte il pavone, le cui piume, dall’aspetto di un tailleur modello Versace, rispondevano agli scopi del suo piano. L’entrata nell’albergo non passò inosservata. Aveva spinto con tale forza la porta girevole, da farla ruotare su se stessa come una giostra per bambini, tanto da far preoccupare il portiere per lo stridulo rumore che disturbava i clienti che leggevano il giornale, seduti sulle poltrone di velluto rosso nell’attesa della cena.
“Sto aspettando una persona che alloggia in questo albergo,” apostrofò con voce ferma l’uomo che, timidamente, le aveva chiesto se avesse bisogno di qualcosa.
All’uomo, la giovane ragazza ricordava certi personaggi dello spettacolo presenti in albergo durante la stagione operistica dell’Arena, per questo non dubitò un istante della sua affermazione, anzi cercava di capire chi potesse essere il fortunato pretendente tra i facoltosi clienti presenti. Ma poi si pentì di avere violato, sebbene con il pensiero, l’intimità sacra dei suoi ospiti. Lui era lì ad assecondare i loro desideri, non certo porsi domande, altrimenti la riservatezza, l’elemento che contraddistingueva lo stile dell’albergo, sarebbe venuta meno. Cercò di dissimulare il proprio disagio facendo finta di compilare il registro degli ospiti, ma il suo sguardo imbarazzato, quasi furtivo, non era sfuggito alla ragazza, la quale con aria spavalda si aggirava per le sale del lussuoso albergo come una cliente di riguardo, curiosando ovunque. Il giorno seguente si presentò di nuovo. Voleva introdursi nelle stanze, che sapeva essere libere, ma questa volta decise di farsi camaleonte. Con uno zainetto sulle spalle e una guida della città in mano, sembrava una turista aggregata ad un gruppo d’inglesi che alloggiavano nell’albergo. Imboccò la scala che conduceva ai piani superiori, con il cellulare all’orecchio per simulare una conversazione, lasciandosi alle spalle la vociante comitiva ferma in portineria. Dal ripostiglio della biancheria, situato al primo piano, prelevò la chiave universale del personale di servizio, particolare che aveva scoperto la sera precedente. Il corridoio era deserto. Lo percorse immaginando di avere Renata al suo fianco di ritorno dal parrucchiere, intenta ad aggiustarsi l’acconciatura in uno dei tanti specchi del corridoio. Infilò la chiave nella serratura. Dall’emozione la mano le tremava, non tanto per l’atto illecito che stava compiendo, quanto perché era la prima volta che visitava il luogo dove il padre era stato ucciso. Con la schiena appoggiata alla porta osservava alcuni tratti sul pavimento, impercettibili ad un occhio disattento. Capì che quella sottile linea, non era altro che il segno lasciato dalla striscia di carta gommata applicata dalla polizia intorno ai corpi delle vittime per delimitarne la posizione. La cameriera non era riuscita ad eliminare quelle ombre, nonostante vi avesse ripetutamente passato la cera. Cercò di immaginare i movimenti dell’assassino. Lo vedeva aggirarsi con circospezione nella stanza. Ilaria scosse la testa. C’era qualcosa che non quadrava nel comportamento dell’uomo. Ammesso che fosse entrato, approfittando della chiave sulla porta, doveva essersi accorto che nell’altra stanza c’era qualcuno. Egli, anziché limitarsi di frugare nei cassetti e dileguarsi in tutta fretta per non rivelare la presenza, aveva estratto l’arma puntandola contro due inermi persone: una condotta fuori d’ogni logica, cui non riusciva dare una spiegazione convincente. Le ritornarono in mente le parole dell’avvocato Soldini.
“I topi d’albergo non vanno in giro armati. Sanno che il possesso di un’arma da fuoco, in caso di flagranza di reato, aggraverebbe la loro posizione. È la destrezza che contraddistingue questi ladruncoli, non certo la violenza.”
Ilaria osservava il punto in cui i corpi dovevano essersi accasciati, evitando di calpestare quella porzione di pavimento, diventata sacra ai suoi occhi. Spostò lo sguardo altrove. Rivide i due uomini abbracciati, ignari che, nella stanza accanto, un assassino assisteva ai loro giochi amorosi, chiedendosi: l’uomo era capitato lì per caso, oppure aveva seguito Jeanpierre e Adalberto? Ed ancora: quali motivazioni potevano stare dietro il folle gesto, simile per efferatezza ad un regolamento di conti? I due amici, si accorgono della presenza dell’estraneo nella stanza. Reagiscono. Solo in quel momento l’assassino preme il grilletto. Questo esclude che fosse entrato con la deliberata intenzione di uccidere, altrimenti i due uomini non avrebbero avuto il tempo di mettere i piedi fuori del letto. Era più probabile che l’uomo volesse spaventarli, sottovalutando la loro decisa opposizione nei confronti di chi aveva violato la loro intimità. Un colpo raggiunge mortalmente Adalberto, gli altri due Jeanpierre. Cadono uno accanto all’altro. Nessuno avverte gli spari, coperti dal frastuono dell’aspirapolvere manovrato dalla cameriera ai piani. L’assassino è terrorizzato per l’inaspettato e drammatico epilogo. Urta una poltrona. La pistola gli cade di mano. Fugge senza riuscire a recuperarla e l’arma rimane lì, sino a quando Renata non la rinviene mezz’ora dopo.
Quella di Ilaria, appariva una ricostruzione plausibile, anche se non aveva alcuna prova per sostenerla. Era convinta che l’assassino avesse seguito i due amici, circostanza inquietante, perché significava che conosceva le vittime. Dove poteva averle incontrate? Il padre era in città da poche ore. Adalberto, arrivato il giorno precedente, non aveva lasciato l’albergo per un istante. Lo aveva fatto solamente con Jeanpierre quando, insieme, avevano accompagnato Renata dal parrucchiere. Anche gli ospiti dell’albergo, in prevalenza stranieri, molto riservati nell’imbastire rapporti occasionali con una coppia dall’aria assente, secondo la descrizione che n’aveva fatto il personale dell’albergo, erano da escludere. La ragazza aveva preso in considerazione anche l’ipotesi che l’assassino potesse avere seguito Jeanpierre dall’aeroporto, senza riuscire a raccogliere alcuna prova in merito. Per non lasciar nulla d’intentato, aveva verificato persino l’alibi dell’esperto finanziario che il genitore aveva incontrato nella capitale lombarda. Ma l’uomo, nelle ore in cui era avvenuto il duplice omicidio, si trovava nel suo studio di Milano con alcuni collaboratori. Erano queste le circostanze che avevano, di fatto, portato la polizia a ritenere Renata l’unica indiziata. D’altronde le prove contro la donna erano così schiaccianti che seguire piste alternative significava lavorare di fantasia, mentre è acclarato che, in un’indagine giudiziaria, le ipotesi investigative sono accolte solo se suffragate da riscontri oggettivi, per usare l’espressione burocratica del codice penale. Nonostante ciò, il giudice non aveva ancora chiuso il caso. Indagava sull’arma del delitto, una pistola dalla matricola abrasa di provenienza incerta. Voleva scoprire come la donna ne fosse venuta in possesso e capire perché, prima di puntare l’arma contro se stessa, avesse sentito la necessità di togliersi alcuni indumenti intimi, comportamento bizzarro in un momento così tragico, che nemmeno l’esperto criminologo, cui il giudice aveva chiesto un parere, aveva saputo fornire convincenti spiegazioni.
Ilaria, ogni sera, trasferiva nel computer portatile, da cui non si separava mai, le sue impressioni, vergate in minuta calligrafia sul taccuino degli appunti e certe volte, per non perdere tempo, persino sul retro delle ricevute fiscali rilasciate nei ristoranti dove consumava frettolosi pasti. Il suo archivio, per ricchezza d’informazioni, tutte catalogate in ordine cronologico, davano il senso della passione che la ragazza nutriva per il mestiere di giornalista. In certi momenti dimenticava persino che il caso su cui lavorava riguardasse il padre, presa com’era a ricomporre le tessere del mosaico, con gli stessi metodi, per scrupolo e meticolosità, adottati da certi professionisti della carta stampata con anni d’esperienza sulle spalle. Attraverso prove e testimonianze, era riuscita a formulare un’ipotesi investigativa in grado di rispondere agli interrogativi che lo stesso giudice delle indagini preliminari non era riuscito ancora a sbrogliare.
“Stia tranquilla signorina,” le aveva detto il magistrato nel colloquio tenuto in procura una settimana dopo l’orrendo delitto. “Dobbiamo solo chiarire i rapporti tra lei e suo padre. Semplice routine, in ossequio alla procedura da rispettare,” aveva continuato l’uomo con modi affabili, convinto che la giovane fosse all’oscuro della torbida relazione del genitore.
Erano trascorsi diversi mesi dall’incontro, ed Ilaria aveva raccolto le prove con le quali dimostrare che la gelosia non poteva avere armato la mano di Renata.
“In un procedimento di natura indiziaria, un omicidio senza movente pone degli interrogativi anche alla presenza di schiaccianti prove,” aveva sentenziato l’avvocato Soldini il giorno in cui avevano ricostruito il delitto. “Sta a noi decidere se dobbiamo riferire al giudice circostanze e fatti di cui siamo a conoscenza, nel qual caso la storia d’amore di Renata diventerebbe immediatamente di dominio pubblico.”
Ilaria era partita per Verona il giorno seguente. Condivideva la riservatezza che l’avvocato Soldini e la moglie Patrizia avevano avuto nei confronti di Renata. Quest’ultima aveva preferito togliersi la vita pur di evitare di fornire spiegazioni agli inquirenti per una storia d’amore che nessuno avrebbe compreso. Se questa era stata la sua volontà, agli amici non rimaneva altro che rispettarla. L’impotenza di Adalberto era il gran segreto e rappresentava la chiave per comprendere il coinvolgimento del padre in una relazione omosessuale, voluta con ostinazione dalla donna per vincere la malattia del marito. I due uomini l’avevano assecondata, consapevoli che la loro virilità non era posta in discussione proprio per la presenza di Renata, la quale catalizzava ogni loro comportamento. Contrariamente ad ogni supposizione, il rapporto omosessuale si riverberava positivamente su quello eterosessuale, tanto che essi si erano spinti oltre ogni limite, per evocare pulsioni primordiali, le sole capaci di liberare l’energia che li riempiva di gioia di vivere. Non c’era niente di scandaloso nella loro condotta, se il donarsi senza alcuna costrizione accresceva persino l’amore nei confronti delle persone non coinvolte nel triangolo amoroso. Laura aveva confessato che negli ultimi mesi il rapporto con Jeanpierre si era fatto più intenso, carico di passione e ricco di stimoli.
“Ecco perché non ho mai creduto che tuo padre fosse omosessuale,” aveva detto Laura, dopo la ricostruzione dei fatti, con gli occhi umidi di pianto, rivolta ad Ilaria.
La ragazza era seduta sulla stessa poltrona dove Renata si era tolta la vita. Avvertiva un senso di pace: quella stanza, gli oggetti in essa contenuti, muti testimoni della tragedia, le avevano stimolato riflessioni intense, tanto che il tempo era volato via. Dal corridoio provenivano i rumori dei passi degli ospiti che rientravano dalle loro escursioni per il pranzo. Rimise a posto la poltrona, osservando ancora per un istante quel luogo per fissarlo bene nella mente: mai come in quel momento si era sentita così vicina al padre. Non voleva farsi vedere dai clienti dell’albergo e in maniera furtiva scese le scale, con un comportamento non dissimile a quello che l’assassino doveva avere tenuto, sino al punto che odio ed ira presero il sopravvento al sentimento di pietà che aveva colmato il suo cuore sino ad un istante prima, questo per significare come i luoghi potessero influire sullo stato d’animo di una persona. Solo quando fu in strada riuscì a scrollarsi di dosso il senso di soffocamento che la pervadeva.
Ilaria era convinta che l’assassino avesse incontrato le sue vittime del tutto casualmente, nel tratto di strada intercorrente tra l’albergo e il salone di bellezza. Percorreva la via, sperando che qualche particolare catturasse la sua attenzione e capire cosa poteva avere innescato la spirale di violenza che aveva coinvolto i due uomini. Si fermò ad una vetrina di calzature per osservare gli ultimi arrivi della stagione, dei modelli dai colori tenui come il colore della sabbia. Alzò lo sguardo e solo allora notò l’immagine riflessa di un uomo dall’altra parte della strada, il quale la osservava attraverso un paio d’occhiali scuri con insistenza. Cercò di rimanere calma, anche la sera precedente aveva avuto la sensazione di essere stata pedinata. Non vi aveva dato peso, convinta che fosse stata l’emozione di trovarsi in un luogo carico di significati ad avere acceso la sua fantasia. Si voltò decisa, un gesto quasi di sfida per vincere la paura, ma l’uomo non c’era più. Con lo sguardo, lo cercò tra la gente che in quell’ora della giornata stava uscendo dagli uffici per la pausa del pranzo, ma inutilmente. Doveva allontanarsi: era certa che l’inquietante figura si trovasse ancora nei paraggi. A passi veloci fendeva la folla come la prua di una barca che taglia l’onda lunga. Un addetto alle poste stava caricando su un furgone in sosta i sacchi della corrispondenza. Ilaria da dietro lo sportello si era fermata a prendere fiato. Non c’era traccia del suo inseguitore. Si tolse dalle spalle lo zainetto che le impediva di muoversi liberamente. Cercava un ristorante per mangiare e nascondersi. Ce n’era proprio uno all’angolo della via, che esponeva un menu turistico dall’aspetto invitante. Prima di entrare nel locale, si voltò di nuovo. Con aria indifferente, l’uomo era riapparso dal nulla. Osservava una vetrina di merletti e stoffe di broccato. Non ebbe alcun dubbio che l’individuo stesse inseguendo lei, per il semplice fatto che quel genere di mercanzia non si addiceva ad una persona, il cui aspetto fisico era più da negozio di ferramenta. Lasciò la maniglia della porta del ristorante come se scottasse e riprese la sua corsa per distanziare l’individuo. Ogni volta che si voltava, vedeva la sua testa che sopravanzava quella dei passanti, oppure se lei rallentava, se ne stava impalato ad osservare la tabella degli orari della fermata degli autobus. L’uomo dall’apparente età di quarant’anni, leggermente stempiato, portava intorno al collo una sciarpa dai disegni scozzesi, le cui estremità teneva infilate sotto il giaccone grigio come il cielo di quella giornata. Chi poteva essere? All’infuori di suoi amici, nessuno sapeva che lei si trovava in visita presso quella città. Doveva far perdere le sue tracce. Una scolaresca in gita di piacere, poco più avanti, era ferma ad osservare la facciata di una chiesa dallo stile gotico. L’abbigliamento di Ilaria, per lo zainetto che portava in spalla, era molto simile a quello delle studentesse all’ultimo anno di liceo. Per raggiungerle si mise a correre, convinta che unirsi al gruppo fosse la sua ancora di salvezza. Ormai l’uomo non dissimulava l’inseguimento, si era tolto gli occhiali, accelerando il passo da ridurre la distanza che lo separava dalla ragazza. Protetta dalle schiene delle alunne che ascoltavano la loro insegnante erudirle sui rilievi dell’architrave del superbo portale, Ilaria si chinò, facendo finta di allacciarsi una scarpa, solo per sgattaiolare all’interno della chiesa a quell’ora del giorno completamente vuota.
A passi veloci camminava rasente le colonne che dividevano la navata principale. Si nascose dietro il primo altare laterale dedicato ad un santo, la cui statua lignea con il braccio benedicente campeggiava sopra il tabernacolo, ma poi si rese conto che bastava superarlo per essere scoperta. Sentì la porta della chiesa sbattere; capì che qualcuno era entrato e fece appena in tempo ad infilarsi nell’ultimo confessionale, vicino alla porta della sacrestia. Si rannicchiò sul fondo, convinta che se qualcuno avesse spostato la tenda non l’avrebbe scorta. Nella chiesa regnava il silenzio, per questo udì distintamente i rumori dei passi che immaginò subito che fossero del suo inseguitore, prima lenti, poi veloci che andavano avanti indietro per la navata. Sì l’uomo stava cercando proprio lei. Aveva scavalcato la balaustra e girava intorno all’altare principale per poi tornare indietro e scostare la tenda del confessionale vicino al transetto. Ora stava avvicinandosi a dove lei era nascosta. Si fece ancora più piccola, trattenendo il respiro.
“Chiudiamo la chiesa per la pausa del pranzo,” sentì udire la ragazza.
Doveva essere il sacerdote, il quale uscito dalla sagrestia si era avvicinato alla persona che aveva visto andare verso il confessionale.
“Se deve confessarsi, occorre che ritorni nel pomeriggio.”
“No padre,” rispose una voce maschile arrochita dal fumo per le troppe sigarette. “Sto cercando una ragazza, con uno zainetto sulle spalle, dovrebbe essere entrata in chiesa. ”
“Non ho visto nessuno,” rispose il sacerdote.”
“Sono un insegnante. Siamo in visita alla città con una scolaresca,” continuò l’uomo con un accento ibrido che escludeva che fosse del posto. “All’appello manca un’allieva. Conosce i giovani come sono fatti, preferiscono andare in giro da soli, anziché rimanere in gruppo. Mi dica padre non può essere entrata in sacrestia, senza che lei l’abbia notata?”
“Impossibile: la sacrestia è il luogo dove recito i salmi, sotto il dipinto della Vergine,” disse indicando la sacra immagine. “Vi sono rimasto per più di un’ora; se così fosse l’avrei vista..”
“Non ci sono altri luoghi dove una ragazza possa nascondersi.”
Ilaria stava ascoltando la conversazione, convinta che la persona fosse veramente un insegnante. Era certa che in chiesa, oltre a lei, non fosse entrata nessun’altra. Scostò leggermente la tenda, senza riuscire a scorgere il volto dell’uomo, ma rimase impietrita nel vedere il calcio di una pistola che sporgeva da sotto il giaccone. Un insegnante non va in giro armato. Egli era il suo inseguitore. E dimostrava un notevole sangue freddo, se aveva colto al volo la presenza delle studentesse per spacciarsi da insegnante, con l’intento di non insospettire il religioso di fronte alle sue insistenti domande. Ilaria ritrasse il capo come fa la lucertola quando dalle pietre sconnesse dei muri avverte un pericolo. E rimase nella sua tana sino a quando, qualche ora dopo, un giovane occhialuto, uscito dalla sagrestia, con passettini veloci, andò a togliere il chiavistello alla porta della chiesa, dove già numerosi turisti aspettavano d’entrare.
In quel momento della giornata il passeggio s’era fatto più intenso. Camminare in mezzo alla folla le dava sicurezza. Non voleva ritornare in albergo. Il suo misterioso inseguitore poteva avere preso le mosse da lì, anche se non riusciva a comprenderne la regione. Non aveva ancora mangiato e i ristoranti dovevano aver chiuso ormai le cucine da un pezzo. Delle signore, all’interno di un bar, sorseggiavano sedute ad un tavolo del tè, gustando dei pasticcini. Quell’immagine fu come un raggio di sole. Si ricordò d’antiche abitudini della madre. Non ci pensò due volte ad entrare, attratta da quella fugace visione che era riuscita ad infonderle anche se per un breve istante la serenità di cui aveva un disperato bisogno. Si sedette al tavolo accanto alle signore, le quali parlavano tra loro con toni affabili, ignare che la loro presenza potesse d’essere di conforto alla ragazza. Lei cercava di dare un significato alla brutta avventura di cui era stata vittima: capire ciò che le stava accadendo intorno. Ritornò con la mente al misterioso uomo. Non credeva alle coincidenze. Era convinta che l’inseguitore avesse a che fare con l’omicidio del padre. Una cameriera si avvicinò al suo tavolo proprio di rimpetto alla vetrina colma di dolciumi, di cui avvertiva il buon profumo. Da quel punto riusciva a controllare l’intera via, pronta a nascondersi se la sagoma dello sconosciuto fosse riapparsa.
“Che cosa desidera,” disse la ragazza con indosso un grembiulino rosa, con ricamato sul petto il nome di una nota marca di pandoro.
“Non ho avuto il tempo di mangiare,” rispose Ilaria.
“Succede quando si va in giro per turismo,” ribatté la ragazza vedendo la guida della città aperta sul tavolo. “Le porto una fetta di torta. Le abbiamo di tutti i gusti,” continuò con tono sicuro, conoscendo ormai i desideri dei clienti che si affacciavano a quell’ora pomeridiana nella pasticceria.
“Un fetta di torta con le mele,” rispose Ilaria, indicando la vetrinetta che esponeva la produzione della giornata. “E un cappuccino con poco caffè,” disse prendendo dalla borsa il suo taccuino degli appunti. “Senza zucchero,” aggiunse mentre la ragazza si allontanava.
Scrivere era anche una maniera per estraniarsi, riacquistare lucidità mentale, focalizzare gli aspetti più rilevanti della giornata. Sollevava il capo per osservare un punto imprecisato della via, come se dovesse ricevere la giusta ispirazione alle sue analisi. La via era un brulicare di turisti. Tra loro notò anche un gruppo di giovani dalla testa rasata e giubbotto di pelle nera, i quali, con aria spavalda, camminavano sul marciapiede, costringendo i passanti che incrociavano a spostarsi nella strada dove il traffico cominciava a farsi più insistente. Nel loro comportamento c’era qualcosa d’arrogante, che infastidiva la ragazza. Sembrava che fossero loro i padroni della strada.
“Chi sono?” chiese Ilaria alla cameriera.
“Meglio evitarli: sono degli attaccabrighe,” rispose la ragazza, mentre appoggiava sul tavolo la tazza del cappuccino ed il piattino con la crostata. “Amano tatuarsi le braccia con strani disegni e radersi la testa a zero.”
“Li conosce?”
“Di vista, perché tutti i giorni, alla stessa ora, si danno appuntamento seduti su quella scalinata,” continuò la ragazza indicando un punto in cui la via si apriva ad un porticato. “Danno fastidio persino ai passanti e gli abitanti del quartiere si sono lamentati per questo comportamento, ma non c’è stato verso di farli sloggiare.”
“Ieri ci sono passata ma non ho visto nessuno,” ribatté Ilaria.
“La loro squadra del cuore doveva giocare in trasferta,” disse la ragazza. “Sono così tifosi del calcio che delle volte penso che si conciano la testa in quella maniera per farla assomigliare ad un pallone. Conviene ignorarli,” aggiunse mentre si allontanava per andare verso un tavolo dove alcuni clienti chiedevano il conto.
Ilaria spezzò con la forchetta un pezzo di torta che portò alla bocca con gesti lenti, non riuscendo a distogliere lo sguardo da quel gruppetto formato da tre ragazzi e due ragazze.
L’avvocato Soldini, il giorno in cui avevano ricostruito i fatti, aveva avanzato diverse ipotesi, tra cui quella che i due uomini fossero stati seguiti.
“Mi sembra un’ipotesi molto azzardata,” era saltata su Laura.
“Sì, potrebbe apparire tale, ma non lo è,” aveva risposto l’avvocato Soldini, con il suo tono pacato. “Tutto deve essere accaduto nel momento in cui i due uomini hanno accompagnato Renata dal parrucchiere. Al ritorno deve essere accaduto un episodio, un fatto apparentemente insignificante, legato al comportamento dei due uomini, che ha suscitato però le reazioni dell’assassino, sino al punto che quest’ultimo deve aver seguito ed ucciso i due amici.”
“Qualcuno che odiava gli omosessuali,” aveva aggiunto Ilaria.
“È quello che penso. Questo giustificherebbe l’efferatezza del gesto, una sorta di punizione.”
Ilaria era convinta dell’ipotesi dell’avvocato. Osservava quei giovani. Stavano inveendo contro un uomo di colore, il quale andava in giro con una valigetta colma di cianfrusaglie. Cercavano di strappargliela di mano. Il giovane li supplicava, ma quei giovinastri non sentivano ragioni per farsi belli agli occhi delle ragazze, le quali esplosero in una fragorosa risata quando la valigetta s’aprì spargendo il contenuto a terra.
Ilaria era agitata. La mano con cui sorreggeva il cappuccino cominciò a tremare. Posò la tazza sul tavolo per non versare il contenuto. Si domandava come potessero persone così giovani essere capaci di tanta aggressività. I volti erano carichi d’espressioni d’odio solo perché consideravano quell’innocua persona diversa da loro, la quale non reagiva agli insulti. Era verosimile ipotizzare che tra quei giovani potesse nascondersi l’assassino che cercava. Ma se l’assassino proveniva da quel gruppo di balordi, chi era il misterioso inseguitore che si era messo sulle sue tracce? Ilaria non riusciva a collegare i due episodi e si abbandonò sulla sedia in preda allo sconforto, toccando inavvertitamente il braccio di una delle signore sedute al tavolo vicino
“Mi scusi?” s’affrettò a dire la ragazza.
Una signora dagli occhi chiari abbozzò un sorriso accompagnato da un cenno del capo. Le amiche che le erano accanto si erano azzittite, osservavano Ilaria come se attendessero una parola anche loro, solo per rendere più viva la conversazione ormai giunta agli sgoccioli. La ragazza aveva altro per la testa e preferì ritornare ai suoi pensieri, anche se si era seduta a quel tavolo per non sentirsi sola.
Ma poi era sicura che lo sconosciuto avesse a che fare con l’assassinio del padre? Non poteva darsi che fosse veramente un insegnante alla ricerca di un’alunna allontanatasi dal gruppo? D’altronde l’abbigliamento d’Ilaria non si discostava molto da quello delle ragazze ferme davanti alla chiesa. Quindi l’uomo poteva benissimo averla scambiata per una studentessa e questo giustificava la circostanza che cercasse di raggiungerla, come pure era plausibile che i due si fossero trovati a compiere lo stesso percorso, dando l’impressione che l’uomo, il quale se n’andava per i fatti suoi, seguisse la ragazza.
In chiesa Ilaria aveva visto l’impugnatura di una pistola, oppure qualcosa che poteva assomigliarle come un cellulare, un’agenda elettronica? In preda a mille dubbi, la ragazza scuoteva la testa. È proprio vero che la realtà non è mai percepita nella sua concreta oggettività. Sotto qualsiasi forma essa si manifesta è sempre un’interpretazione soggettiva. È la nostra mente che da significato alle cose, che mutano secondo gli stati d’animo solo per placare le proprie paure. Ilaria, convinta d’avere individuato il presumibile assassino, in uno di quei giovinastri dalla testa rasata, doveva cancellare la figura dell’inseguitore che sino a qualche istante prima aveva occupato tutti i suoi pensieri. Con il suo ragionamento razionale, era riuscita a dare altri significati al comportamento dell’uomo, sino al punto di convincersi che si trattasse di un insegnante di materie classiche, il quale aveva portato la scolaresca a visitare le bellezze monumentali della città.
Il gruppo dei giovani che osservava con insistenza stava andandosene, forse perché nei paraggi non c’era più nessuno da molestare. Si alzò dalla sedia attenta a non urtare le signore, le quali avevano ripreso a discutere animatamente.
“Signorina devo pagare il conto,” disse la ragazza con un occhio rivolto alla strada. “Mi sono ricordata di un appuntamento,” continuò mentre ricacciava nello zainetto il blocco degli appunti aperto sul tavolo con la penna stilografica, una “Omas” di radica, regalo della madre al padre, su cui spiccavano sul cappuccio le iniziali del genitore. “Sono in ritardo,” proseguì per giustificare la fretta di andare via.
La cameriera si avvicinò porgendole lo scontrino con l’importo della consumazione.
“Se ne vanno,” disse Ilaria indicando il gruppo dei giovani.
“Domani li ritroverà seduti allo stesso posto.”
“È sicura di quello che afferma,” ribatté Ilaria mentre depositava sul piattino alcune monete.
“Lavoro in questo locale da più di un anno e conosco le abitudini della gente che frequenta il quartiere.”
La vita offre sempre grandi sorprese. La mattina Ilaria fuggiva da un presunto inseguitore, mentre ora la situazione si era completamente capovolta. C’è differenza tra essere preda e cacciatore. Nel primo caso i tratti che contraddistinguono lo stato d’animo sono paura e timore, nel secondo, astuzia e aggressività ed era ciò che provava la ragazza mentre seguiva i giovani. Se in mezzo al gruppo si celava l’assassino, doveva procedere con cautela. Per adesso il suo unico obiettivo era prendere dimestichezza con le abitudini del branco, capire gli spazi dove agivano, senza esporsi. Per questo lei si teneva distante. Una delle ragazze dalla capigliatura leonina, turchina come certe iris che abbellivano le aiuole della città, dal naso irregolare che ostentava come se dovesse annusare il pericolo, come certi animali che si sentono braccati, l’aveva osservata, ma non poteva certo immaginare che una solitaria fanciulla che percorreva la stessa strada, avesse la sfrontatezza di seguirli, loro che di quel territorio erano gli incontrastati padroni. Più indietro, in posizione defilata, anche il giovane negro, cui avevano sottratto la merce, li seguiva con l’intenzione di recuperarla.
Il gruppo svoltò in un vicolo dove c’erano altri giovani davanti ad una birreria, loro punto di ritrovo abituale. Uno di questi porse la bottiglia di birra che stava sorseggiando ai nuovi arrivati in segno di saluto. Il giovane l’afferrò, tracannando di gusto il liquido, la cui schiuma gli fuoriusciva a piccoli rivoli dai lati della bocca. L’altro che gli stava accanto cominciò a parlare. Dai gesti che faceva, si capiva che stava raccontando l’episodio che lo aveva visto protagonista con l’uomo di colore. Esibiva come trofei due teste di mogano alte un palmo, braccialetti, collanine intrecciate di pelle con appese piccole conchiglie ovali, che distribuiva agli amici. Qualcuno se le era infilate al collo. E, per imitare certe danze tribali, cominciò a saltellare emettendo una serie d’ululati con la mano alla bocca, sollevando l’ilarità del gruppo. Forse il giovane aveva visto troppi film western sugli indiani d’America, perché quei goffi movimenti non avevano niente a che fare con le danze dei nativi africani.
“Sono delle riproduzioni di antichi re e regine: i nostri antenati,” disse il giovane negro, indicando le teste scolpite in uno stile e bellezza sorprendenti, avvicinatosi ad Ilaria, che l’aveva notata seguire il gruppo. “Per noi sono simboli sacri, un po’ come le vostre statue lignee raffiguranti santi e madonne: le vado a riprendere!” aggiunse.
“Si vuol fare ammazzare!” esclamò la ragazza che aveva riconosciuto il giovane.
“Non ho paura.”
“È troppo pericoloso,” continuò Ilaria. “Diventano ancora più violenti quando sono in branco. È meglio che non si faccia vedere.”
Il giovane sovrastava Ilaria dalla spalla in su. Proveniva dalla Nigeria. E, ad osservarlo bene, per certi lineamenti del viso, poteva essere un diretto discendente dei guerrieri Yoruba. Ife la capitale del loro antico regno, risalente all’undicesimo secolo d.C., cinta da mura possenti, ospitava palazzi decorati con piastre d’ottone e bronzo raffiguranti aspetti di vita sociale, significando quanto fosse sviluppata la loro civiltà. Furono le popolazioni Yoruba, dell’impero Oyo, discendenti della cultura Nok, ad aprire le prime vie commerciali per trasportare oro, sale e rame, attraverso la foresta, sino giungere a Timbuctu, nel Sahel, la terra di confine tra il Sahara e il Sudan. Da lì lunghe carovane condotte da tuareg e berberi, le popolazioni nomadi del deserto, trasportavano per la via dei carri le merci ai popoli che circondavano le terre temperate del Mediterraneo, contribuendo allo sviluppo di quelle civiltà.
Le sorrise mostrandole la chiostra di denti bianchissima, mentre si allontanava con aria dinoccolata, fiero della sua negritudine. Mai rifiutare i contatti tra culture diverse. Essi sono come i rivi che solcano il monte. Alimentano il gran fiume che rende fertili le pianure che attraversa..
L’ambiente fuori della birreria stava riscaldandosi. Quei giovani si eccitavano per niente. Ora che conosceva i luoghi dove s’incontravano, conveniva non rischiare. Il suo abbigliamento, così normale, dava troppo nell’occhio, e preferì allontanarsi nell’istante in cui stavano sopraggiungendo altri pittoreschi giovani.
L’esperienza della mattina l’aveva sconvolta anche se si era trattato di un equivoco, almeno credeva. La sensazione di sentirsi pedinata, era riaffiorata nel momento in cui da inseguitrice era ritornata ad essere una semplice turista, la categoria dove abbondano le prede, solo perché stava rientrando in albergo. Non abbassare la guardia, considerare ogni persona un potenziale nemico, era la strategia migliore in un ambiente ostile, queste erano le regole cui doveva attenersi, ecco perché studiava attentamente i comportamenti dei passanti. Chiese al portiere dell’albergo che le fosse servita la cena in camera. Avrebbe trascorso la serata a lavorare. Lei era fatta così; non perdeva tempo, proprio come suo padre. Anzi ora che era morto, faceva di tutto per assomigliargli. Certo quando si è rimasti soli, rimangono i ricordi delle persone amate. Lei, per sentirsi più vicino ai genitori, aveva preso il vezzo di imitarli, arrivando persino a correggere la propria gestualità. Era difficile non ammettere che quel modo che aveva di stringere la mano, di sorridere, di togliersi il golfino, di indossare la vestaglia per stare comoda o di sedersi alla scrivania per accendere il computer portatile e muovere lo sguardo sul monitor, non ci fosse lo stesso modo di fare dei genitori. Lei rappresentava la sintesi dei comportamenti di entrambi.
Entrata in camera, allacciò il cavo del computer alla presa telefonica. Alla scuola di giornalismo sovente, quando avevano bisogno di raccogliere informazioni per preparare i servizi, si collegavano con i siti di testate di quotidiani. L’idea di Ilaria era molto semplice, voleva cercare articoli di stampa dei giornali più diffusi nella regione che avessero come argomento “bande giovanili”. Furono queste le parole che utilizzò per la ricerca nel web, circoscritta agli ultimi due anni. Sullo schermo apparve la prima pagina che riportava i titoli dei primi pezzi. Le sarebbero occorse diverse ore per visionare tutto il materiale contenuto in ben tredici pagine. La difficoltà di utilizzare internet, stava proprio nella ridondanza delle informazioni. La distrazione era un nemico sempre in agguato, perciò Ilaria fu felice quanto sentì bussare alla porta la cameriera che veniva a servirle la cena. Aveva proprio bisogno di una pausa, prima di leggere tutti gli articoli. Erano le due quando spense il computer. Aveva riempito quattro pagine del suo inseparabile blocco, su cui aveva evidenziato le informazioni necessarie all’indagine. Ora aveva le idee più chiare sulla personalità delle persone che aveva di fronte, ed era importante perché così avrebbe potuto intuire le loro mosse. Per loro, per esempio, era esaltante finire sulle pagine dei giornali, specialmente quando erano gli stessi giornalisti a trovare etichette con nomi stranieri del tipo skinheads. Questo non faceva altro che rafforzare la loro identità. E per mantenere alta la reputazione, rissa dopo rissa, diventavano sempre più violenti, soprattutto contro gli stranieri che, secondo la loro opinione, erano quelli che si dedicavano allo spaccio di droga, allo sfruttamento della prostituzione o peggio ancora toglievano lavoro alla gente onesta del posto. La lealtà verso i compagni, le continue prove di coraggio fisico cui erano soggetti gli appartenenti al gruppo, erano altri elementi che Ilaria aveva evidenziato. Non era disonorevole prendere sberle e calci in un combattimento tra bande rivali o opposte tifoserie, l’importante di fronte a più nemici di non darsela a gambe. Non c’era onta peggiore di essere tacciati da vigliacchi. Il linguaggio scurrile, l’eccedere nel consumo d’alcol, il fumare in continuazione, erano comportamenti che esaltavano la virilità dell’individuo, da qui l’odio nei confronti degli omosessuali, i quali rappresentavano la negazione dei valori in cui credevano. Un articolo aveva colpito Ilaria, un pezzo di colore su una festa organizzata in aperta campagna, di quelle che durano sino all’alba all’insegna dello sballo e che aveva richiamato giovani dalle province limitrofe. Il cascinale abbandonato dove s’era svolto l’evento, era anche la dimora, occupata abusivamente, degli appartenenti al gruppo cui stava dando la caccia, tra cui era convinta si nascondesse l’assassino. Ed era il luogo che aveva deciso di visitare la mattina successiva, giusto per avere altri elementi utili per mettere in pratica il suo piano.
Ilaria non aveva chiuso occhio tutta la notte. L’idea di andare nel covo di quei giovani violenti le aveva agitato il sonno. Se doveva infilarsi nella tana del lupo, era più prudente farlo alle prime ore della mattina, quando gli occupanti del cascinale ancora dormivano. Il suo, d’altronde, era un semplice sopralluogo. Con questo pensiero si era alzata, vestendosi in tutta fretta, come se fosse in ritardo ad un appuntamento. Salì in macchina, partendo a tutta velocità. In lontananza, erano ben visibili intorno al lago i cordoni morenici, sorta di terrazzamenti che declinano verso la pianura cui stava dirigendosi. Imboccare il punto giusto non era affatto semplice, la rete delle strade rurali, che intersecavano la campagna, ricalcavano la divisone delle antiche centurie coloniche d’epoca romana e sembravano tutte uguali ai suoi occhi. Si fermò ad un bar a prendere un caffè e per consultare la cartina stradale della zona. Doveva cercare un canale irriguo che tagliava in due la campagna, l’unico elemento di diversità in un paesaggio uniforme, parallelo al quale c’era la strada che conduceva al cascinale. Sentì un lieve sciabordio. Lasciò la strada principale per inseguire quel suono che si faceva sempre più intenso. L’uomo ha deviato, regolato, arginato corsi d’acqua, creato una rete di canali d’irrigazioni e quello che Ilaria stava costeggiando aveva gli argini in cemento e l’acqua vi scorreva veloce tra le lisce superfici, con un rumore simile al soffio del vento, che nei tratti di maggior pendenza diventava più cupo. La bruma, come una coltre, copriva i campi circostanti. Nei tratti in cui si diradava aveva l’aspetto di fiocchi di cotone sfilacciato, come quelli che si posano sul ramo d’abete a natale per imitare la neve. Di fronte a lei, le cime d’alcuni pioppi, sembravano sospese nell’aria, un riferimento visivo, indicante che in quel punto doveva esserci un’abitazione, ancor prima di riuscire a scorgerla. Era giunta alla sua meta e per non dare nell’occhio, lasciò la sua piccola utilitaria all’imbocco di un tratturo. Si mise a tracolla la macchina fotografica che teneva sempre nella sua auto e s’incamminò lungo il canale, osservando il paesaggio attraverso il mirino della macchina, come se fosse una semplice turista a caccia d’immagini. I tronchi contorti di due gelsi, dalla corteccia ruvida, erano posti a sentinella della proprietà, dimostrando che in quel cascinale una volta era fiorente l’allevamento del baco da seta. Erano circa le dieci ma in giro non si vedeva anima viva. Che il luogo fosse abitato non c’era alcun dubbio per via di alcuni indumenti stesi in prossimità di un lavatoio e per alcune automobili dal colore indefinito per il fango che copriva gran parte della carrozzeria e le moto di grossa cilindrata ferme sotto il porticato che percorreva un lato della casa colonica. La costruzione, per la sua imponenza, doveva avere ospitato numerose famiglie, fattore questo che se un tempo aveva rappresentato la sua ricchezza, con lo spopolamento delle campagne, era diventata anche la sua rovina. La parte dell’abitazione non più abitata, per la mancata manutenzione, era decaduta, ed il degrado non si era più arrestato con l’esodo degli uomini attratti dai guadagni più facili della nascente industria. Morti gli ultimi vecchi, la gran casa era rimasta vuota, sino a quando era assurta a nuova gloria, diventando il rifugio di giovani in cerca di nuove esperienze. Questi avevano lavorato settimane per togliere l’edera che aveva avvolto la casa come in un sudario. I rovi che avevano ostruito ogni porta d’accesso sembravano cavalli di Frisia. Piante di olmo e di acacia erano riuscite a mettere radici tra il pavimento sconnesso della rimessa dal soffitto crollato. Il falò che avevano acceso, per bruciare rami e sterpaglie, aveva illuminato la campagna circostante, richiamando altri giovani in cerca di avventure. Alcuni avevano deciso di stabilirsi in quella sorte di castello, solo per dimostrare che la vita rude si addiceva al loro spirito guerriero.
Ilaria non sapeva cosa fosse venuta a cercare di preciso in quel luogo. Forse si era illusa di trovare qualche indizio che la portasse ad identificare l’assassino del padre. Ebbe timore d’imbattersi in uno degli ospiti della casa, gente sospettosa nei confronti degli estranei. Certo se si fosse presentata zaino in spalla, sporca e lacera, per chiedere ospitalità, l’avrebbero senz’altro accolta. Ma così vestita, sarebbe stata considerata persona da guardare con sospetto, specialmente con quella macchina fotografica appesa al collo. Rimase a riflettere, appoggiata al tronco di un vecchio salice, i cui rami si allungavano sopra una vasca per la raccolta dell’acqua ormai completamente invasa dalle erbacce. Sentì una porta sbattere. Riconobbe la ragazza dalla capigliatura leonina azzurra che con aria assonnata andava a ritirare i panni stesi. Finalmente aveva la conferma che il gruppo dimorasse nel cascinale. Vedendo la ragazza, capì che era proprio quello che voleva accertare. Era più prudente andare via, per non mettere in allarme l’assassino, ignaro che qualcuno fosse sulle sue tracce. Ora doveva trovare il modo di farlo uscire allo scoperto, la parte più rischiosa del piano.
Salita in macchina, guardò l’orologio sul cruscotto. Doveva incontrarsi con una testimone, la cameriera ai piani dell’albergo dove era avvenuto il duplice omicidio, anche se la donna la mattina al telefono aveva insistito che non aveva altro da aggiungere a quanto dichiarato agli inquirenti. Quest’ultimi più volte l’avevano ascoltata, solo perché era stata l’ultima ad avere parlato con Renata, l’unica indiziata. La donna da molto tempo non rilasciava dichiarazioni, dopo che i giornalisti le avevano messo in bocca, per dare colore agli articoli, frasi mai pronunciate, creandole problemi con il direttore dove lavorava, secondo il quale aveva infranto la riservatezza dell’albergo con le sue affermazioni, tanto che l’aveva licenziata. La donna abitava in una frazione appena fuori della città, ed aveva accettato d’incontrare Ilaria, solo perché si trattava della figlia di una delle vittime. Aveva trovato lavoro in un albergo poco distante dal casello d’uscita dell’autostrada, che raggiungeva con l’autobus, la cui fermata era proprio sotto la sua abitazione. E nel cambio di lavoro ci aveva proprio guadagnato, come dire non tutto il male viene per nuocere. Alla donna quella brutta vicenda suscitava sempre forti apprensioni, com’era accaduto appena ricevuta la telefonata della ragazza. E invece, periodicamente, o il giudice delle indagini preliminari, o qualche giornalista, erano ancora a chiederle particolari sull’episodio. Sembrava quasi che lei volesse nascondere qualcosa o proteggere qualcuno. Non avevano capito che lei, quando era sul lavoro, non aveva tempo da perdere per osservare i clienti che uscivano o entravano dalle loro camere. Lei non alzava mai la testa, salvo che qualcuno non le rivolgesse la parola, come aveva fatto la signora, la quale le aveva chiesto semplicemente il piano dove si trovasse. Lei non aveva visto nemmeno rientrare gli altri due clienti, quelli ammazzati, eppure era sullo stesso piano, dall’altra parte del corridoio a far rullare il battitappeto sulle guide, che raccolgono sempre molta polvere. La sua opinione non contava niente, anche se al giudice l’aveva espressa.
“Una signora gentile, dai modi distinti, elegante, di un’età in cui la passione non arriva mai a certi livelli d’esasperazione, è impossibile che abbia compiuto un gesto tanto violento.”
Ilaria arrivò puntuale. La casa era così in ordine che sembrava quasi che l’esperienza nel campo delle pulizie fosse tutta concentrata in quel lindo appartamento, dove anche i pomelli d’ottone delle porte luccicavano.
“Si accomodi,” disse la donna che stava preparando la cena. “Tra poco rientrano dal lavoro mio marito e mio figlio. Durante il giorno mangiano in mensa. La sera è l’unico momento che abbiamo per stare insieme.”
“Mi dispiace che l’abbia disturbata,” s’affretto a dire Ilaria. “Se vuole posso venire un altro giorno.”
“La mattina non c’è nessuno in casa,” precisò la donna. “Ritorniamo dal lavoro la sera, io qualche ora prima di loro, ma ogni giorno è così.”
Ilaria non sapeva come cominciare la conversazione. Voleva andare subito al punto che a lei interessava.
“Lei comprende,” esordì la ragazza “per una figlia cui hanno ucciso il padre anche la più piccola notizia può essere importante, specialmente se raccontata da un diretto testimone. Non voglio lasciare nulla d’intentato. Sento di avere degli obblighi morali nei confronti di mio padre.”
La donna osservava il viso d’Ilaria quasi supplicante. Pensò al proprio figlio, un giovanottone che doveva avere all’incirca la stessa età della ragazza e con fare quasi materno, stringendole la mano per dimostrarle solidarietà, disse:
“Sarei io la prima ad essere felice, cara ragazza, se le mie parole potessero esserti d’aiuto. Quel poco che ho visto, l’ho raccontato tante di quelle volte che non so proprio cosa potrei aggiungere di nuovo.”
Ilaria si sedette sulla poltrona e dalla borsa prese il suo taccuino dove si era segnata alcuni punti.
“Vede signora, a me interessa sapere ciò che è accaduto prima che lei incontrasse la signora Renata,” disse con tono professionale. “Le notizie apparse sulla stampa hanno fatto riferimento allo scambio di battute tra lei e la signora, ininfluenti ai fini della mia ricerca.”
Volutamente la ragazza aveva utilizzato il termine “ricerca” al posto di “indagine”, per non fare assomigliare quella conversazione ad un interrogatorio anche se la piega che stava prendendo gli assomigliava molto.
“Non riesco a comprendere,” l’interruppe la donna. “Lei mi faccia delle domande ed io cercherò di essere più precisa.”
La donna non si era accorta che dal tu, che le aveva dato un istante prima, era passata al lei, intimorita dal modo deciso della ragazza, che le ricordava quello del giudice delle indagini preliminari.
“Quel pomeriggio a che ora aveva iniziato a lavorare?”
“Ho mangiato insieme al personale,” cominciò la donna. “Sono uscita dalla cucina che erano circa le quindici. In estate gli ospiti dell’albergo amano fare escursioni e i coperti serviti erano pochi quel giorno, ecco perché ero in anticipo sulle pulizie.”
“E subito dopo che cosa ha fatto?”
“Sono salita al primo piano e dal ripostiglio dove teniamo il materiale per le pulizie, ho preso il battitappeto elettrico con l’occorrente per spolverare. Ho caricato tutto nell’ascensore e sono andata all’ultimo piano.”
“Ha incontrato qualcuno in quel tratto di scale che ha fatto a piedi per giungere al primo piano?”
“Quel pomeriggio era un continuo via vai,” sospirò la donna. “Ma tutto rientrava nella normalità, come accade durante la stagione lirica dell’Arena. Gli ospiti sono in prevalenza stranieri ed io, non conoscendo le lingue, sono sempre intimidita se qualcuno mi pone qualche domanda, per questo vado sempre di fretta.”
“Lei inizia a passare l’aspirapolvere…”
“No il battitappeto,” corresse la donna.
“Sì d’accordo, il battitappeto, quanto tempo impiega per pulire un piano?”
“Tenga conto che oltre alle guide, ci sono da pulire gli specchi, i quadri, lucidare le maniglie. Al secondo piano inoltre ci sono due salottini, utilizzati come fumoir. Diciamo, a darci sotto, un’ora per piano.”
“Quindi, quel pomeriggio, dovrebbe avere impiegato circa tre ore per fare le pulizie, considerato che i piani sono tre.”
“All’incirca.”
“Non ha udito rumori particolari che potevano assomigliare a colpi d’arma da fuoco.”
“Come ho già detto al giudice, l’ascensore era in continuo movimento e il battitappeto faceva molto rumore, cosicché io non ho udito nulla. Ho sempre detto al titolare che occorreva cambiare quel vecchio elettrodomestico.”
“Lei ha detto che c’era un via vai continuo di clienti,” continuò la ragazza scorrendo il suo blocco per gli appunti.
“Più che altro nella hall,” precisò la donna. “C’erano alcuni arrivi e qualche ospite in camera che ho visto scendere.”
“Questo sempre prima che incontrasse la signora Renata?”
“Sì, certo.”
“Bene, soffermiamoci per un istante su queste persone,” disse Ilaria, cambiando tono di voce che s’era fatto più confidenziale. “Ritorniamo a quel pomeriggio. Immagini di vedere questi ospiti. Cerchi di descrivere il loro abbigliamento. Tenga conto che siamo alla fine di agosto,” suggerì la ragazza.
“Un cliente dell’ultimo piano era in maniche di camicia,” cominciò a dire la donna, che quel modo di porre le domande assomigliava ad un gioco. “Una coppia, uscita dall’ascensore, indossava delle magliette colorate. La donna aveva un pacchetto che teneva sotto il braccio, mentre l’uomo si faceva vento con un giornale.”
Era strano come certi ricordi, che credeva dimenticati, potessero di nuovo affiorare alla mente, semplicemente perché li collegava non al fatto criminoso ma a quel torrido pomeriggio di fine estate.
“Continui, non si fermi,” l’incalzò la ragazza.
“Un signore americano dai modi gentili indossava un completo celeste con un gran papillon,” continuò la donna sorridendo. “Faceva un buon profumo, di chi si è rasato di fresco,” aggiunse muovendo il capo come se avvertisse di nuovo la fragranza.
“Vada avanti,” incalzò Ilaria, consapevole che soffermarsi su particolari superflui avrebbe distratto la donna.
“Al primo piano un giovane…”, bisbigliò la donna, interrompendosi, come se il ricordo apparisse confuso.
“Il giovane com’era vestito?” chiese la ragazza per andare subito al sodo.
“Mi lasci pensare,” rispose appoggiando la fronte sul pugno chiuso della mano per meglio concentrarsi. “Mi sembra che indossasse un gilet…, sì, di pelle nera!” esclamò soddisfatta come se avesse risposto ad una difficile domanda.
“Un gilet di pelle nera?”
“Sì, aveva le braccia nude,” annuì la donna.
“Le vengono in mente altri particolari?”
“Non sono riuscito a vederlo bene in volto: attraversava il mezzanino in fondo al corridoio. Però, proprio qui,” continuò toccandosi il bicipite del braccio sinistro, “aveva un disegno.”
“Un tatuaggio?” chiese la donna
“Un grande uccello con gli artigli.”
“Un’aquila,” suggerì la ragazza.
“Sì proprio un’aquila dalle ali spiegate,” esclamò soddisfatta. “Pronta a ghermire.”
“I capelli come li aveva,” incalzò Ilaria.
“Tagliati a zero.”
“È sicura di quest’affermazione.”
“Il cranio lucido e le braccia nude, spiccavano sul gilet nero.”
Ilaria finalmente aveva individuato il presunto assassino. Cercava di dissimulare la soddisfazione, perché non voleva che la sua interlocutrice potesse intuire che quel giovane fosse al centro della sua attenzione.
“Prima parlava di un signore americano, come fa a sostenerlo?” chiese la ragazza, giusto per sviare l’attenzione.
“È un assiduo cliente dell’albergo. Tutti gli anni è in Italia per la stagione lirica all’Arena,” rispose la donna.
La ragazza consultava il suo blocco degli appunti, come se la domanda, che stava per porre, fosse di poco conto, mentre a lei stava particolarmente a cuore.
“Sì, ecco…vediamo,” bofonchiò per rendere più credibile la casualità della domanda. “Quanto tempo è intercorso dal momento in cui ha notato il giovane con il gilet e l’apparizione della signora Renata?”
“Mi faccia pensare: il giovane l’ho notato che ero vicino all’ascensore, mentre la donna alla fine del corridoio. In genere per pulire quel tratto impiego circa quindici minuti. Sì credo che questo fosse il tempo trascorso,” precisò la donna. “La signora era molto elegante. Indossava un vestito d’organzino a mezze maniche di colore verde pallido,” aggiunse quasi subito, convinta che la ragazza volesse conoscere la descrizione dell’abbigliamento di Renata. “Borsa e scarpe della stessa tonalità: un vero tocco di classe,” sospirò, pensando alla brutta fine che aveva fatto. “Si notava subito dall’acconciatura che era stata dal parrucchiere,” continuò riprendendo il giusto tono.
Ilaria la lasciò dire senza mai interromperla, annuendo con il capo come se fosse interessata all’argomento. La ragazza era convinta che Renata avesse incrociato l’assassino, nel tratto che separava l’albergo dal salone di bellezza. Certo non l’avrebbe mai saputo con certezza, ma era credibile supporlo.
Ora che aveva raccolto tutti gli elementi, doveva preparare un piano per fare uscire l’assassino allo scoperto. Lei avrebbe fatto da esca. Si ritirò nella casa dei genitori. Quel luogo cominciava a sentirlo suo, sino al punto che desiderava rinverdire le abitudini che avevano regnato nella Casa degli elci. Ascoltava brani celebri del repertorio operistico italiano, che metteva a tutto volume, affinché le melodie la raggiungessero in qualsiasi punto si trovasse e persino nel giardino. La moglie del contadino appena aveva sentito la musica, l’aveva raggiunta per esternarle tutto il suo affetto.
“Come sei magra e pallida,” le aveva detto stringendola. “Farò in modo che questo visino torni colorito.”
La ragazza si era lasciata coccolare dall’anziana donna, che le preparava ogni giorno ottimi piatti, ma nonostante che le prodigasse mille attenzioni non riusciva a toglierle dal viso quell’aria pensierosa. La vedeva la mattina passeggiare per la campagna circostante la tenuta, e subito dopo mangiato, nello studio del padre con lo sguardo fisso sullo schermo a consultare i suoi documenti. L’anziana donna era preoccupata. Aveva cercato di porle alcune domande, ma Ilaria le aveva baciato le scarne gote per tranquillizzarla, d’altronde che cosa poteva dirle. Era così presa a mettere in atto il suo piano, che non aveva lo spirito adatto per conversazioni d’altra natura. Tre erano i luoghi frequentati dal gruppo di giovani: il cascinale, le gradinate di una via della città e il locale dove trascorrevano la sera bevendo birra. Quei posti Ilaria li rimuginava nella mente come un comandante in battaglia che cerca di individuare il punto debole per sferrare l’attacco. Una mattina sul volto della ragazza era ritornato il sorriso. La donna se n’era subito accorta appena aveva visto la ragazza scendere per la colazione.
“Questa mattina esco per fare acquisti,” proruppe sorseggiando la tazzina di caffè. “Non mi aspettare per l’ora di pranzo.”
“Sono proprio contenta, che finalmente di distrai un po’,” aveva risposto la donna. “Vederti lavorare tutto il giorno, mi dava preoccupazione.”
La ragazza ritornò che era pomeriggio inoltrato, con in mano grosse buste con su il nome dei negozi visitati. La casa era deserta, ma dalla finestra della sua camera, dove era andata per spogliarsi, desiderosa di una doccia ristoratrice, aveva visto il contadino intento a potare alcuni alberi da frutto, con la moglie che sorreggeva la scala su cui era salito. Le marmellate di albicocche e di prugne che la mattina spalmava sulle fette biscottate provenivano da quegli alberi ed era sempre l’anziana donna a confezionarle, per questo Ilaria tra gli acquisti, ben impachettato c’era un regalo anche per lei, una giacca di cachemire, modello inglese, per sdebitarsi di tutte le attenzioni che le prodigava. Ogni stagione aveva le sue immagini ricorrenti, prima erano i genitori a contemplarle, ora lo faceva lei con rinnovato interesse, perché voleva dedicarsi al giardinaggio. E già aveva chiesto al contadino che le insegnasse la potatura delle rose e di alcune piante da giardino.
Per sé, la ragazza aveva acquistato un completo di pelle nera: giubbotto, pantaloni e gilet, ispirandosi alla moda giovanile di certi gruppi punk, dopo avere passato in rassegna le fotografie sul computer, realizzate da Gabriele per la loro inchiesta “Giovani e tempo libero”. Con una frangetta blu elettrico, ciocche di capelli verde acido sopra l’orecchio e una spruzzatina di giallo sul retro della nuca, il travestimento sarebbe stato perfetto.
“Sono prodotti naturali, innocui, che i giovani utilizzano il sabato sera per andare in discoteca,” l’aveva assicurata la commessa dell’erboristeria. “È sufficiente lavarli perché il colore vada via e i capelli ritornano brillanti come prima.”
La ragazza, sempre su suggerimento della solerte commessa, aveva aggiunto un rossetto scuro per le labbra ed uno smalto per le unghie dello stesso colore. Al mercatino rionale non si era lasciata sfuggire un paio di scarponi di foggia militare, chincaglieria da mettere al collo e diversi anelli da infilare alle dita. Dopo il travestimento di donna fatale, ora si cimentava nel ruolo della dark lady, forzando quella che era la sua indole naturale di ragazza dolce e sensibile. In alcuni momenti lo sconforto l’assaliva per l’arduo compito che si era prefisso, ma era sufficiente riandare con la mente alla tragedia consumata nella camera d’albergo, perché il suo viso cambiasse espressione. Dallo sguardo determinato si capiva che qualcuno doveva pagare per l’ignobile gesto. Aveva trascorso giusto una settimana nella casa di campagna. Era giunto il momento di porre in atto il piano, per la cui attuazione non aveva voluto coinvolgere né gli amici del padre né tanto meno Gabriele, il compagno del corso di giornalismo.
Aveva prenotato una stanza presso un albergo vicino al casello autostradale, diverso da quello in cui lavorava la signora che le aveva fornito informazioni sul giovane con il tatuaggio; un ambiente anonimo, come lo sono di solito gli alberghi a ridosso delle grandi arterie di comunicazione, frequentati esclusivamente da persone che si muovono per motivi di lavoro. Giunse a destinazione prima dell’ora di pranzo. Parcheggiò la macchina nel garage con l’intenzione di non utilizzarla per tutta la permanenza. Era più prudente impiegare un’auto presa a noleggio per gli spostamenti in città. La sua piccola utilitaria rossa avrebbe dato troppo nell’occhio, senza escludere che durante la visita al cascinale qualcuno poteva averla notata. Da ora in avanti anche il più piccolo errore poteva esserle fatale. Consumò un veloce pasto, confondendosi con i clienti dell’albergo, in prevalenza convegnisti a giudicare dalle borse porta documenti, tutte uguali, che avevano con sé. Si era vestita in maniera sobria, come le tante segretarie che inseguivano i loro capi presi a disquisire nei saloncini dell’albergo i temi del seminario. Il taxista, che l’aveva accompagnata al più vicino autonoleggio, presentandola al proprietario suo conoscente, non esitò un istante a credere che la ragazza fosse una degli organizzatori del convegno, molto reclamizzato sui giornali locali.
“Allora, lei vorrebbe una macchina per qualche giorno,” esordì l’uomo mentre salutava il conducente di taxi.
“Mi occorre per muovermi in città, per motivi di lavoro,”rispose la ragazza
“Una piccola cilindrata le andrebbe bene?”
“Sì, così non ho difficoltà per parcheggiare.”
“Abbiamo molti clienti che chiedono questo tipo di macchine,” disse l’uomo. “Proprio ieri sera ne hanno riconsegnato una,” continuò osservando un punto in fondo alla rimessa.”
“Si riferisce all’auto bianca?” domandò la ragazza avvicinandosi alla vettura.
“Sì proprio quella.”
“Vedo che ha avuto un incidente,” proseguì indicando il parafango anteriore che aveva la carrozzeria leggermente schiacciata.
“Succede quando si guida nelle strade del centro,” sospirò l’uomo. “Ho già chiamato il carrozziere per la riparazione,” aggiunse. “Purtroppo è l’unica piccola cilindrata che abbiamo.”
“Non si preoccupi, per me va bene,” si affrettò a dire Ilaria, dissimulando una certa soddisfazione per quel modello che più anonimo di così non poteva sperare. “Le macchine nuove m’intimoriscono.”
Ilaria firmò il modulo di consegna, infilando la copia nella tasca della portiera e senza esitazione partì con la stessa disinvoltura di chi ha sempre guidato quel modello d’auto. Percorse la strada, che dal casello autostradale conduceva al centro, a velocità sostenuta, come se dovesse far tardi ad un appuntamento. Voleva verificare che non ci fossero stati cambiamenti nelle abitudini del gruppo. Arrivò che i giovani erano ancora stravaccati al solito posto. Sembrava che aspettassero lei. Se i loro atteggiamenti erano trasgressivi, non lo erano certo le loro abitudini uguali e prevedibili, un vero tallone d’Achille per chi si considera un guerriero di strada. A vederli ridere e scherzare, si poteva attribuire loro l’iniziativa di qualche bravata, come quella rivolta al giovane di colore, non certo la capacità di programmare a mente fredda un’esecuzione. Cercava d’immaginare chi dei quattro ragazzi, sotto il giubbotto di pelle, nascondesse l’aquila tatuata. Ormai quel disegno l’ossessionava; era diventato un simbolo di morte il cui solo pensiero la caricava d’odio. Non doveva lasciarsi trasportare dalle emozioni, aveva l’obbligo di rimanere calma, come il cacciatore che sente ormai la preda vicina. Con la sua auto, seguiva un furgone di riparazioni radio tv, che cercava un parcheggio per la consegna da eseguire. L’andatura moderata del mezzo, le aveva permesso di fissare bene le zone ove il branco si muoveva. La mattina del giorno successivo, quando ancora i giovanastri dormivano dopo i bagordi della sera, volle verificare le strade adiacenti da utilizzare come eventuali vie di fuga. Provò persino il tragitto dalla birreria al cascinale, cronometrando i tempi, sino al punto di riuscire a spostarsi in auto per le vie del centro con la stessa familiarità di un abitante del posto.
Ora che aveva preso dimestichezza con l’ambiente, doveva avvicinarsi alle prede per studiarne i comportamenti, solo superata questa fase avrebbe messo in atto il piano. Quel giorno, confondendosi con i turisti, era passata più volte davanti a loro. Li osservava attentamente imparandone le mosse, il gesticolare, per calarsi meglio nel personaggio. L’abbigliamento delle ragazze non si discostava dal suo. Il giubbetto di pelle era simile, mentre solo una ragazza, indossava pantaloni di pelle; le altre portavano jeans sdruciti all’altezza delle ginocchia e delle cosce. Tutte le ragazze tenevano gli anfibi slacciati, tanto che i fermagli dei gambali, camminando, producevano un lieve rumore di sonagli: un particolare che doveva tenere a mente. Ilaria, per non farsi notare, era entrata in una paninoteca per il sopraggiungere d’alcuni amici del gruppo, i quali avevano infilato le bottiglie vuote di birra che avevano in mano nelle fioriere che abbellivano la via. Si trattava di un gesto insolito per quei giovani che solitamente amavano spaccarle in terra o contro i muri bugnati di qualche insigne palazzo. Seduta su uno sgabello, con un panino tra le mani che le nascondeva il viso, osservava com’erano acconciate le loro teste: rigorosamente pelate quelle degli uomini, più di fantasia quelle delle donne. Una testa multicolore aveva attirato la sua attenzione. Se voleva fare da esca, aveva bisogno di un travestimento appariscente. Decise di ispirarsi a quest’ultima acconciatura per la gran messinscena finale.
Trascorse il pomeriggio a tingersi i capelli. Le ciocche intrise di gel, avevano l’aspetto di una variopinta coda di gallo. Il rossetto scuro sulle labbra esaltava il pallore del viso, che si addiceva al personaggio un misto di femminilità e aggressività, aspetto quest’ultimo reso ancor più evidente dal completo di pelle che le avvolgeva il corpo come una guaina. I numerosi anelli infilati alle dita facevano assomigliare le delicate mani a pugni di ferro e i giri di catene intorno al collo, con appese croci e medaglie sembravano altrettante decorazioni. Il portiere dell’albergo non l’aveva riconosciuta per l’incidere marziale dovuto ai pesanti scarponi che calzava, e lei non si era degnata di rispondere al suo sguardo dubbioso. Doveva comportarsi ed agire come il travestimento imponeva, una sorta di guerriero della notte, anzi d’amazzone per non rinunciare al suo temperamento di donna.
Ilaria s’era seduta ad un tavolo della birreria che le permetteva di controllare l’ingresso degli avventori, i quali alla spicciolata stavano entrando nel locale. Osservava la sua immagine riflessa in uno specchio che reclamizzava una nota marca di birra americana. Dentro quella sorta di corazza si sentiva al sicuro. Sembrava che non fosse lei, ma un’altra persona. Era bene che fosse così, perché tutto ciò che avrebbe fatto e detto quella sera era da attribuire al personaggio che interpretava.
“Vuoi mangiare qualcosa?” chiese il proprietario, avvicinandosi per dare il benvenuto a quella graziosa ragazza che vedeva per la prima volta.
“Non ancora, sto aspettando il mio compagno,” rispose, simulando un tono infastidito per il ritardo di quest’ultimo. “Puoi portarmi un birra,” aggiunse guardando l’orologio.
“Una ragazza forestiera suscita molti ammiratori,” disse l’uomo con lo sguardo rivolto alla porta d’ingresso. “Fammi un cenno, se hai bisogno di aiuto,” continuò, osservando alcuni giovani appena entrati, le cui intemperanze l’uomo ben conosceva.
“So difendermi,” ribatté Ilaria, la quale con un’occhiata fugace si era subito accorta che non si trattava dei ragazzi per i quali si trovava a fare da esca e, per darsi un contegno, si mise a giocarellare con gli anelli che abbellivano le sue dita.
Vedere una ragazza sola, per quei giovani, che del mito della virilità n’avevano fatto una filosofia, era un richiamo troppo allettante. Un giovanotto dalle spalle larghe e le basette a punta, preso dall’aria indifesa che la ragazza suscitava, andò con passo deciso verso di lei. Non aveva avuto il tempo di aprire bocca, che Ilaria l’apostrofò con tono seccato, lasciando di stucco il giovane per l’inaspettata reazione.
“Non cerco compagnia,” sbottò con impeto la ragazza. “Sto aspettando il mio uomo, il quale non sopporta che i pappagalli molestino la sua ragazza,” poi, per timore di essere stata troppo scortese, con accento quasi di scusa, aggiunse: “Non te la prendere, questa sera ho la luna un po’ storta.”
Ilaria si era comportata in quel modo per stroncare sul nascere tentativi di confidenza. Lei sola avrebbe scelto la persona da far sedere al tavolo, d’altronde era lì per questo, anche se quella sera le prede che attendeva sembravano aver preso altre strade.
“Conosco il tuo ragazzo,” cercò di giustificarsi il giovane.
“Credo proprio di no: veniamo da Milano.”
Il proprietario ritornò con in mano un bicchiere di birra.
“Vuoi che ti preparo un piatto di patate fritte, mentre aspetti il tuo compagno?”
“Grazie: è sufficiente la birra,” rispose accompagnando la frase con un sorriso.
La voce sussurrata, che la ragazza aspettasse qualcuno, aveva fatto il giro dei tavoli e nessuno tra i presenti provò ad avvicinarla. Ilaria assaporava quella breve tregua. Si domandava come certe regole cavalleresche attecchissero in ambienti simili, dove la volgarità era di casa per le battute pesanti che sentiva pronunciare ai tavoli vicini. Forse era il suo abbigliamento, il modo in cui si atteggiava, ma in molti avevano notato un tocco di classe particolare che le altre ragazze non avevano, ed era questa diversità che destava attenzione.
Improvvisamente, provenire dalla strada, riconobbe la risata di una delle ragazze, che aveva seguito il pomeriggio del giorno precedente. La porta si aprì e fece il suo ingresso il gruppo che attendeva, formato da due coppie prese a sbaciucchiarsi e un loro amico: cinque persone in tutto. Ilaria afferrò il bicchiere di birra, portandolo alle labbra per dissimulare la forte emozione. Accavallava in continuazione le gambe, senza trovare alcun giovamento. Doveva rimanere calma, altrimenti correva il rischio di insospettire il gruppo. Respirò profondamente, senza ottenere l’effetto desiderato. Il cuore continuava a battere forte da obnubilarle la mente. Chiuse gli occhi e con il pensiero ritornò alla camera d’albergo. Vide il padre steso in una pozza di sangue. Un’ondata d’odio le pervase il corpo da restituirle la lucidità necessaria. Si sentì di nuovo cacciatrice. Studiava l’espressione dei loro volti, cercando di intuire chi poteva essere l’assassino. Riconobbe il ragazzo, che aveva infastidito l’uomo di colore, il quale stava salutando insieme alla sua donna, dai capelli turchini, un cameriere loro amico. Per la violenza dimostrata poteva essere benissimo lui, ma lei sapeva che un’aquila tatuata sul braccio era l’unica prova certa e scoprirlo non sarebbe stato facile. Il gruppo si era seduto ad un tavolo non distante dal suo. Ilaria, con aria assente, sorseggiava la sua birra, consapevole d’essere oggetto d’attenzione da parte dei nuovi arrivati. Gli ammiccamenti insistenti avevano indispettito le due ragazze, le quali, quasi per gioco, spinsero l’amico (senza compagna) verso Ilaria, tanto per far coppia. Egli era il più giovane, quello che gli amici più grandi mettevano costantemente alla prova. Gli occhi chiari, le labbra carnose, le fossette sulle guance che ogni volta che apriva bocca sembrava spargere sorrisi, gli conferivano un’aria dolce, che stonava con lo stile di vita che si era imposto. Persino la testa rasata aveva un che di fanciullesco, da far venire voglia di accarezzarla, per quella peluria bionda che si perdeva sul collo e, nonostante indossasse un giubbotto con il bavero alzato pieno di borchie metalliche, non aveva nulla del duro.
“Sei sola?” l’apostrofò il giovane.
Ilaria avrebbe preferito avere di fronte l’amico più grande, non voleva certo quel ragazzino che sembrava essere succube degli amici, i quali lo osservavano divertiti. Non poteva nemmeno mandarlo via, come aveva fatto con l’altro giovane, sotto quell’aspetto innocuo poteva celarsi la persona cui dava la caccia.
“Spero ancora per poco,” rispose Ilaria con aria annoiata. “Sto aspettando una persona,” disse guardando l’orologio infastidita. “Stare qui mi crea solo imbarazzo,” continuò guardandosi intorno. “Sembra che i giovani che frequentano questo locale non abbiano mai visto una donna sola.”
Il giovane non voleva fare brutta figura nei confronti degli amici e, vincendo la sua timidezza, si sedette di fronte ad Ilaria, la cui espressione non era di quelle che aiutano a rompere il ghiaccio.
“Ti faccio compagnia,” ribatté il giovane. “Sono con i miei amici, ma loro come vedi non si annoiano,” proseguì salutandoli con gesto della mano. “Se vuoi ci uniamo allo stesso tavolo.”
“Non sono in vena di fare conoscenze.”
“Bevo una birra con te. Non mi piace lasciare una ragazza sola.”
“Sei gentile,” rispose per non scoraggiare i suoi tentativi.
“Non ti ho mai visto da questi parti.”
“Sono di passaggio. Vengo da Milano.”
“Che cosa fai?”
“Faccio la commessa in un magazzino d’abbigliamento.”
“Ora capisco perché sei così elegante.”
“Fa caldo qui dentro,” disse Ilaria, slacciando il giubbetto di pelle con l’intenzione che il giovane la imitasse.
“Hai ragione,” rispose togliendosi il suo.
Il giovane indossava una camicia di foggia militare abbottonata ai polsi. Sperava che si rimboccasse le maniche, invece si affrettò a fare un gesto al cameriere per sollecitare la birra ordinata.
“Vengo,” disse il cameriere che sorreggeva con una sola mano un vassoio all’altezza della spalla colmo di boccali di birra alla spina.
Ilaria notò, mentre depositava il boccale sul tavolo che, sull’avambraccio, aveva tatuato un gladio con un serpente attorcigliato alla lama.
“Bello!” esclamò la ragazza, trattenendogli il polso.
“Non sei la sola cui il mio tatuaggio piace,” rispose il cameriere. “Mi dispiace che oggi sia il mio turno di lavoro, altrimenti ti avrei fatto volentieri compagnia io, anziché questo moccioso,” disse sorridendo.
“Lo conosci?” chiese la ragazza quando il cameriere si fu allontanato.
“È del nostro gruppo, per questo si è permesso di scherzare,” rispose. “Il tatuaggio al braccio è l’elemento che ci distingue dalle altre bande.”
“Intendi dire che portate lo stesso tatuaggio?”
“Ognuno ne ha uno diverso.”
“Spiegati meglio.”
“Per far parte della banda, occorre farsi tatuare sul braccio un simbolo tra quelli approvati dal gruppo,” precisò. “Di modo che il disegno scelto diventi anche il nome di battaglia d’ognuno.”
Ilaria cercava d’interpretare l’ideogramma inciso sul braccio del cameriere.
“Lasciami pensare,” continuò la ragazza. “Significa che il nome del barista potrebbe essere: Spada? Gladio? Serpente?” domandò incuriosita.
“Hai conosciuto Gladio.”
“Anche tu quindi hai un tatuaggio?”
“Certo: proprio qui,” disse battendosi con la mano il bicipite del braccio sinistro.”
Ilaria doveva controllarsi. Non poteva farsi vedere troppo interessata, anche perché gli amici dell’altro tavolo stavano osservando il ragazzo, insospettiti per il suo continuo parlare e gesticolare. Sorseggiò un po’ di birra, per inserire una lunga pausa all’interessante conversazione.
“Gli uomini con i tatuaggi mi sono sempre piaciuti,” sospirò infine. “Prediligo quelli che s’ispirano agli animali: uno in particolare mi attrae.”
“Qual è l’animale che più ti attrae?” chiese il giovane “Potrebbe essere quello che ho sotto la camicia.”
“E se non fosse?” ribatté la ragazza. “Non voglio deluderti, meglio rimanere nel mistero.”
“Sei strana!” esclamò il giovane. “Le ragazze del nostro gruppo non usano tante finezze. Sicuro che fai la commessa?” chiese dubbioso.
“I tuoi amici ti reclamano,” rispose Ilaria per evitare di rispondere all’insidiosa domanda. “Stanno facendo cenno di raggiungerli.”
Il giovane s’avvicinò al tavolo dove erano seduti con il boccale di birra in mano. Parlavano animatamente con gli sguardi rivolti verso Ilaria. Era evidente che la ragazza rappresentava l’oggetto della loro discussione e questo l’imbarazzava anche se faceva finta di guardare altrove.
“Devo andare via,” disse il giovane ritornando al tavolo.
“Parlavano di me i tuoi amici?”
“Sì. Hai fatto colpo anche su di loro e questo ha infastidito le ragazze. Mi dispiace che il tuo uomo non sia arrivato. Devo lasciarti,” disse facendo scivolare la manica della camicia sino a scoprire un tatuaggio dalla forma di un animale dalla cui bocca usciva una lingua di fuoco. “Sono Drago e tu come ti chiami?”
Le labbra della ragazza, quasi inconsapevolmente, pronunciarono con un sussurro di voce il nome che l’aveva tormentata per tutta la sera.
“Aquila. Sono le aquile i tatuaggi che mi piacciono sulla pelle degli uomini.”
Drago la osservava mentre indietreggiava per raggiungere gli amici fermi sulla porta del locale. Voleva chiederle se poteva rivederla, ma non fece in tempo, si sentì afferrare per un braccio dal compagno che lo trascinò in strada.
Ilaria fu di nuovo sola. Che cosa aveva da condividere con la gente seduta ai tavoli, anche se cercava d’imitarne l’abbigliamento? Proprio nulla. La conoscenza di Drago, poi, l’aveva disorientata. Si domandava come persone dall’aspetto fragile, fossero in grado di coltivare tanta violenza sino a macchiarsi le mani di sangue. Solo adesso si rendeva conto quanto fosse arduo il compito che si era imposto. I piani sulla carta sono cosa ben diversa rispetto alla realtà. La serata era stata in ogni caso fruttuosa. Non aveva chiesto a Drago il nome degli amici, per non correre il rischio di incrinare la simpatia che il giovane nutriva per lei. Doveva essere prudente, rimanere lucida senza lasciarsi guidare dalla fretta, altrimenti sarebbe stata lei a soccombere. Finì di bere la birra. Era inutile rimanere nel locale. Ormai sapeva come muoversi, l’indomani sarebbe andata a cercare Drago, sicuro di trovarlo seduto sui gradini dell’angolo della strada insieme ai componenti della banda. Avrebbe così conosciuto Aquila, l’assassino. Solo l’idea le provocò una scarica d’adrenalina da spazzare via l’attimo di debolezza provata, un momento prima, per il giovane. Si avviò alla cassa per pagare, mettendosi in fila per aspettare il suo turno, senza notare il trambusto di gente che entrava e usciva dal locale. Era stata una serata estenuante e non vedeva il momento di infilarsi sotto le coperte.
“Ti va di bere un’altra birra?” si sentì chiedere la ragazza.
Ilaria girò lentamente il capo e, prima ancora di capire chi fosse l’uomo il quale le aveva rivolto l’invito, notò, tatuata sul suo braccio, un’aquila dalle ali spiegate. I colori erano così sgargianti da sembrare in bassorilievo. Ecco perché la donna delle pulizie dell’albergo l’aveva notata a distanza, pensò immediatamente. Non avrebbe esitato un istante nel sostenere che, nel suo genere, si trattava di uno splendido tatuaggio, di quelli che solo mani esperte riescono a realizzare. Quel divagare con la mente, non era altro un espediente per guadagnare tempo e vincere l’attimo di smarrimento per l’inattesa sorpresa. Si sentiva come l’Aranea Diademata, il ragno dei giardini. Quante volte si era soffermata nella casa di campagna osservarlo filare la tela tesa tra i rami di un cespuglio. Sapeva distinguere i fili marginali che sorreggevano la complessa architettura, i fili radiali simili ai raggi di una bicicletta, ed infine il filo spirale su cui la preda veniva catturata, pronta per essere succhiata. Aveva l’assassino di fronte e lui come uno schifoso insetto stava mettendo le zampe sulla ragnatela da lei tessuta. Lo guardò diritto negli occhi senza far trapelare il suo odio. Non era uno dei giovani seduti al tavolo. Lo aveva notato la prima volta in mezzo al gruppo per la sua espressione che aveva qualcosa di zingaresco, forse per quegli zigomi sporgenti messi ancora più in evidenza dalla testa rasata. Il gilet di pelle nera, le maniche rimboccate della camicia anch’essa scura, le ricordavano Yul Brinner nel film Il mondo dei robot, anche se l’accostamento poteva apparire blasfemo per il grande attore scomparso. Ma egli, ormai, era diventato un’icona. E la sua immagine campeggiava nella mente d’ogni appassionato di cinema.
“Solo se pago io rispose,” la ragazza. “Non mi va che un uomo possa pensare di comprarmi con una birra.”
“Nulla da obiettare,” rispose l’uomo. “So che ti piacciono i tatuaggi,” continuò.
“Una confidenza fatta ad uno stronzetto, mai visto prima di questa sera, è già di dominio pubblico!” esclamò la ragazza con aria indignata. “Va bene, se vuoi saperlo mi piacciono i tatuaggi di uccelli rapaci: c’è qualcosa di male,” disse afferrandogli il braccio. “Ma anche gli uomini che li espongono, se sono forti,” continuò conficcandogli le unghie nella pelle. Quel gesto le venne spontaneo, tanta era la voglia di procurargli dolore fisico, ma si riprese subito perché continuò dicendo: “Solo allora abbiamo qualcosa da condividere, altrimenti ognuno per la sua strada.”
“Devo essere sincero,” rispose, senza battere ciglio per la prova di dolore cui la ragazza lo stava sottoponendo. “Mi aspettavo di trovare una smorfiosa un po’ sulle sue, con la fissa per i tatuaggi. Solo la curiosità mi ha spinto sin qui, non credevo certo di imbattermi in un tipino del tuo calibro,” continuò scostando la mano dal suo braccio che sanguinava per ristabilire la gerarchia del comando.
“Sediamoci laggiù,” disse il giovane. “Nessuno ci disturberà,” poi rivoltò al cameriere aggiunse: “Gladio servici due boccali di birra.”
Il cameriere si allontanò dal tavolo dove stava prendendo un’ordinazione, per rispondere all’invito di Aquila. Prelevò dal vassoio di un collega, che gli passava accanto, due boccali di birra, che depositò sul tavolo ancora prima che la coppia lo raggiungesse.
“Servizio celere,” disse sorridendo.
I clienti non protestarono per quel trattamento di riguardo, anzi dalle loro espressioni traspariva una sorta d’ammirazione per quell’aitante giovane, il quale, giacca di pelle a penzoloni sulle spalle, maniche rimboccate per mettere in risalto la muscolatura delle braccia, era riuscito a mettere le mani su quel bocconcino di ragazza. Si sedettero ad un tavolo appartato, ma tanto era il fumo di sigaretta che ristagnava nel locale, che le loro figure sembravano avvolte nella nebbia da rendere intimo ogni loro gesto.
“Il tuo uomo ti ha lasciato sola,” l’apostrofò il giovane che sembrava essere ben informato.
“Gliela farò pagare a quel figlio di puttana.”
“Sono qui per questo,” ribatté, stringendola a sé.
“Ehi! Ehi! Non ti sembra di correre un po’ troppo,” protestò la ragazza. “Credi che io vada con il primo venuto,” continuò allontanandosi da lui. “Anche se devo ammettere che non sei per niente male.”
“Allora dov’è il problema.”
“Solo gli uomini che disprezzano il pericolo mi eccitano.”
“Hai trovato l’uomo giusto,” rispose portandosi alle labbra il boccale di birra.
“Ne sei proprio convinto?” ribatté la ragazza arrestando il gesto, per guardarlo negli occhi.
“Che cosa mi manca?” continuò appoggiando con impeto il boccale sul tavolo, tanto da far fuoriuscire la schiuma.
“Il mio ragazzo gira sempre armato,” gli sussurrò avvicinando il viso al suo, da sentire l’odore della pelle. “Tu la possiedi una pistola?” continuò in tono di sfida.
“Per farne cosa?” ribatté infastidito, come se fosse stato punto nel vivo.
“Saprei io che cosa farci.”
“Ti ascolto. Sono proprio curioso di sapere che cosa ci faresti con un’arma.”
“La punterei diritta contro negri, ebrei e froci, per ricacciarli nella fogna da dove sono venuti,” continuò con voce di disgusto. “Non ti accorgi che in qualsiasi luogo vai è pieno d’invertiti. Li odio! Per non incontrarli occorre venire in locali come questi. Solo qui trovo gente sana, persone come te, le sole in grado di coltivare sani principi.”
Aquila la osservava con un’espressione mista tra l’incredulità e l’ammirazione. Era la prima volta che s’imbatteva in una ragazza il cui pensiero collimava con il suo. Le ragazze che andavano con lui lo facevano solo per farsi sbattere. Consideravano le loro imprese un eccitante gioco, una sorta di riscatto alla vita grigia che conducevano in quei palazzoni di periferia, tanto da delegare agli uomini qualsiasi iniziativa. Imbastire una conversazione dai contenuti diversi era pressoché impossibile.
“Non dici nulla?” chiese la ragazza scuotendo il ragazzo che sembrava essere assorto nei suoi pensieri.
“Smarrita,” disse l’uomo.
“Non ti capisco.”
“La pistola.”
“Ebbene?”
“L’ho perduta.”
“Come hai fatto a perdere un’arma.”
“Ero in missione,” confidò. “Ti assicuro che prima di perderla ha fatto il suo dovere,” aggiunse con un’espressione di odio. “Tutti e tre i colpi hanno raggiunto il bersaglio.”
“Raccontami,” l’esortò la ragazza avvicinandosi. “Questa volta sì che mi piaci.”
L’Aranea Diademata, il ragno dei giardini, era all’opera. Cercava di invischiare nei fili dal sapore dolciastro della tela l’insetto, il quale ogni volta che allungava la zampa la ritraeva, come se fosse consapevole della trappola.
“Certe storie non si raccontano,” tagliò corto lui. “Non conosco nemmeno il tuo nome,” sbottò.
Ilaria avvicinò le labbra all’orecchio dell’uomo.
“Mi chiamo Eva,” sussurrò. “Lo stesso nome della donna del Fuhrer,” disse morsicandogli il lobo. “Le storie violente mi eccitano: non lo hai capito. Stupido!”
Il giovane non reagì al morso. Sentire la lingua della ragazza su quella parte sensibile dell’orecchio, superava ogni dolore.
“Qual è il tuo nome?” chiese, facendo finta di ignorarlo.
“Mi chiamano Aquila, non hai visto il tatuaggio che ho sul braccio.”
“I rapaci sono gli animali che prediligo,” continuò lei. “E… il tuo nido, dimmi, dov’è?”
“In campagna, a qualche chilometro da qui. È un luogo tranquillo. Possiamo trascorrervi la notte insieme. Nessuno ci disturberà,” insistette. “Ho la mia moto qui fuori. Continueremo lì la conversazione.”
“Pensi che io sia venuta in tram,” disse lei. “Sono in macchina.”
“Mi segui in auto,” ribatté lui. “Oppure, ti riaccompagno domani mattina a riprenderla.”
La ragazza scuoteva la testa.
“Che cosa c’è che non va?”
“Se devo tradire il mio uomo, lo voglio fare con persone dello stesso calibro,” disse. “Devo capire se sei veramente un duro oppure un bluff e per capirlo devo saper di che cosa sei capace.
Aquila, quella storia, l’aveva raccontata a pochissimi intimi della banda, guadagnandosi il loro rispetto. Ora si trovava di fronte ad una ragazza, la quale voleva metterlo alla prova.
“Non posso,” sbottò. “Certe storie non si raccontano agli estranei.”
“Estranei!” esclamò la ragazza, avvicinandosi, come quando tra due innamorati uno dei partner cerca di ristabilire il contatto perso. Fece scivolare la mano sotto la camicia, sino a sentire i peli del pube che cominciò a solleticare con la punta delle dita. “Una donna che ti accarezza così, puoi considerarla un’estranea?” domandò con voce suadente.
Tutti i mezzi erano giustificati, se voleva scoprire ciò che era avvenuto in quella maledetta camera d’albergo e per farlo doveva abbattere le resistenze del giovane. Sembrava che una forza arcana guidasse i suoi gesti. Si ritrovava a rivestire il ruolo di donna seduttrice, quando lei, con gli amici con cui usciva, non solo si era sempre astenuta dal prendere qualsiasi iniziativa, ma non permetteva loro di andare oltre la prassi consentita dal galateo. Per questo diceva a se stessa che era Eva ad accarezzare il corpo di Aquila, non certo lei. E lo faceva con una tale convinzione, che studiava i comportamenti dell’altra, il doppio di se stessa, per vedere sino a dove si sarebbe spinta. Ma poi tutto si confuse, tanto che Eva ed Ilaria divennero un’unica entità. E accadde qualcosa d’inquietante. Il gioco perverso prese altre strade, da modificare il comportamento della ragazza. Lui, in maniera del tutto inconsapevole, stava diventando vittima, mentre in lei erano evidenti i modi aggressivi del carnefice, che eliminato il rispetto della persona, considera quest’ultima un semplice oggetto su cui sfogare le pulsioni che animano la parte selvaggia dell’individuo. Per lei, Aquila, era diventato una sorta di diario su cui scrivere desideri inconfessati, con la certezza che una volta distrutto il foglio non rimane traccia di quanto compiuto. Ilaria sentiva palpitare, sotto le sue dita, il ventre del ragazzo, il quale ignorava che quelle carezze equivalevano all’ultima sigaretta che si dà al condannato a morte. Lui aspirava con voluttà le boccate di fumo da rimanerne stordito. Non aveva ancora capito che il sentiero, in cui la ragazza lo stava conducendo, aveva come meta finale il dolore supremo. Ma era così soggiogato dalle sue carezze che era pronto ad aprirsi alle sue richieste. Di contro, Ilaria stava provando la stessa ebbrezza di Aquila, quando di fronte alle sue vittime si sentiva pervaso dalla sensazione di dominio, istinti primigeni oltrepassati i quali l’uomo ritorna animale, generando solo barbarie.
Fu Aquila a scuoterla dal torpore. Avvicinò le labbra alle sue come se volesse rendere ancora più intima la confessione e sussurrò:
“Ascolta quello che accade un pomeriggio sul finire dell’estate scorsa, potrai da sola giudicare chi sono veramente.”
Aquila
Un gruppetto di giovani dalla testa rasata, con indosso gilet di pelle e grandi catene al collo, bevevano birre per vincere la calura, seduti sugli scalini delle logge, con lo sguardo annebbiato per il troppo alcol, incuranti che fossero da ostacolo ai passanti. Uno di questi, dall’aria da duro, con un’aquila tatuata sul braccio, gambe distese sul marciapiede, alzò lo scarpone nel vedere sopraggiungere due uomini dall’aria trasognata che si tenevano per mano, tanto che il più anziano stava per perdere l’equilibrio se il più giovane non lo avesse prontamente sorretto. Erano Adalberto e Jeanpierre che stavano rientrando in albergo.
“Guarda dove metti i piedi,” inveì Aquila con tono provocatorio.
“Lascia perdere, non vedi che è ubriaco,” tagliò corto Jeanpierre stringendo a sé l’amico come per proteggerlo. “Non vale la pena discutere con soggetti simili.”
Quel semplice gesto, forse perché rivolto ad un uomo maturo dai modi garbati, provocò un’espressione di disgusto nel giovane, che in segno di sfida portò la mano sulla patta dei jeans stringendo i testicoli.
“Lo volete assaggiare, signorine?” ringhiò, sollevando l’ilarità del gruppo.
Questa volta fu Adalberto a trattenere l’amico cui voleva mollare un calcio a quello spregevole individuo, ma il gesto rimase a mezz’aria.
Il ragazzo dalla testa rasata scuoteva il capo mentre i due uomini si allontanavano tenendosi per mano, confondendosi ai turisti che ammiravano i monumenti della città con le guide aperte sotto il naso come un libro di preghiere. Dall’aspetto non sembravano froci, però non riusciva a capire quale vincolo potesse legarli, per ostentare simili atteggiamenti, a meno che non fossero padre e figlio intenti a scambiarsi coccole. Scartò l’idea, il più giovane sembrava troppo cresciuto per rivestire tale ruolo; se doveva esserci qualche grado di parentela, più probabile che fossero zio e nipote. I suoi erano pensieri oziosi, senza capo né coda. Lo faceva tanto per ingannare il tempo in quel pomeriggio afoso di fine agosto. Tracannava una birra nera dall’odore greve, che gli gonfiava lo stomaco, con l’emissione di certe flatulenze da far voltare l’amico che gli era accanto. Era infastidito da quel via vai di gente; anzi ad essere sincero non sopportava i turisti che affollavano la sua città per vedere spettacoli lirici all’Arena. Lui ci avrebbe messo tutti gli extracomunitari che sottraevano lavoro alla gente del posto, per darli in pasto ai leoni, come una volta facevano gli antichi romani. Quelli sì, che erano uomini con i coglioni quadrati, no le persone che gli passavano davanti, tutte mossettine e voci da castrato. Hitler aveva cominciato a fare un repulisti di certa gente. Lo avevano voluto fermare? Le conseguenze erano sotto gli occhi di tutti: gente smidollata senza palle, che annacquava la vera razza, cui lui si sentiva orgoglioso di appartenere. Per questo aveva alzato lo scarpone vedendo i due tipi che si sorridevano come signorine, mentre parlavano dell’opera Nabucco che avrebbero visto la sera. Lui riconosceva subito gli uomini veri da quelli fasulli, e chi andava vedere, in quel brulicante catino contenente quindicimila spettatori, le solite cazzate operistiche, pagando cifre ingenti, appartenevano a quest’ultima categoria. Muoveva il capo per non perderli di vista.
“Ma allora quei due hanno bisogno di una lezione,” disse fra sé vedendo l’uomo anziano baciare la mano del più giovane. “Qui non c’è più religione,” biascicò alzandosi.
Gli avevano dato dell’ubriaco e lui c’era passato sopra, ma ora non poteva ignorare quelle moine da finocchio.
“Che cosa hai detto?” l’interruppe Gladio l’amico che gli stava accanto, credendo che quei suoni incomprensibili fossero rivolti a lui.
“Ho bisogno di sgranchirmi le gambe. Faccio un giro qui intorno. Con voi ci si addormenta e io sono stufo di grattarmi i coglioni,” continuò rivolto agli altri del gruppo che assomigliavano a certi cani randagi che, muso tra le zampe, attendono da parte di qualcuno un osso da cacciare tra i denti.
“Ma dove vai con questo caldo: aspetta che rinfreschi un po’ l’aria,” s’intromise Drago, il più giovane del gruppo, con voce annoiata.
Aquila non rispose. Aveva visto sopraggiungere un mezzo della nettezza urbana, dalle grandi spazzole a forma di rullo, che stava asportando i resti dei rifiuti del mercato della mattina, lasciando una scia d’acqua lievemente profumata. Attese che il lento autoveicolo si avvicinasse e, riparato dall’ingombrante sagoma, si mise sulle tracce dei due tizi, come un soldato dietro un carro armato in azione di guerra. Non sapeva perché si comportasse in quella maniera. Doveva obbedire ad un impulso che lo caricava d’energia, facendolo sentire forte e non il fallito, incapace di mantenere un lavoro per più di qualche settimana, come sosteneva la madre, cui ricorreva quando aveva bisogno di denaro. La donna, rimasta vedova, aveva allevato i due unici figli maschi nella stessa maniera: il più grande si era fatto una posizione lavorando in fabbrica, il più giovane aveva preso una strada che le procurava solo dispiaceri. Viveva da cinque mesi in una cascina abbandonata con un gruppo di balordi, gli stessi di quel pomeriggio. Utilizzavano per l’elettricità un piccolo generatore, sottratto in una di quelle feste all’aria aperta, con musica a tutto volume sino all’alba. L’acqua, attinta dal pozzo del cortile, serviva solo per lavarsi e fare il bucato, a causa dei nitrati presenti nella falda per i fertilizzanti impiegati nelle colture cerealicole della zona. In comune avevano le birre, con cui iniziavano la giornata, mentre per il mangiare si limitavano ad un frugale pasto, consumato in una birreria dalle parti di Lungadige Cangrande gestita da un ex amico di strada disposto a far credito in ricordo dei vecchi tempi.
La macchina spazzatrice aveva fatto inversione per pulire l’altro lato della via. Aquila si fermò per aumentare il distacco tra i due uomini. Osservava la sua immagine riflessa sulla vetrina di un negozio. Certo l’abbigliamento dava un po’ nell’occhio. Il succinto gilet di pelle sul torso nudo, la testa completamente rasata che luccicava sotto il sole, le catene al collo con appese piastrine con simboli runici, l’orecchino d’ottone a forma d’anello, l’aquila dalle ali spiegate tatuata sul bicipite del braccio sinistro, erano elementi che lo facevano assomigliare ad un pirata, di quelli che assalivano i galeoni spagnoli che percorrevano l’Atlantico, trasportando nella madre patria le ricchezze del nuovo continente. A ben guardare, Aquila non solo aveva l’aspetto del filibustiere. Nell’espressione tesa del volto vi si scorgeva un odio cieco, pronto a tramutarsi, alla prima occasione, in bruta violenza, la stessa dei “Fratelli della costa” quando salpavano dall’isola Tortuga per compiere le loro efferate imprese. Quel pomeriggio sembrava l’Olonose, il feroce pirata, deciso a soggiogare Maracaibo sulla costa venezuelana.
Fortunati i fratelli maggiori di Aquila, quando un’ora il giorno di televisione era dedicata ai ragazzi, cosicché avevano tutto il tempo di nutrire la fantasia con i libri di Salgari, Motta, Sabatini, Stevenson, la letteratura prediletta dell’infanzia. Allora lui avrebbe saputo tutto sui corsari, sui pirati, sul loro abbigliamento, sui flyboat, sui tesori nascosti, e non avrebbe sentito la necessità di imitarne i comportamenti in età adulta. Lui era cresciuto inseguendo, tra i tanti canali televisivi, i programmi più violenti, completando l’apprendimento nelle sale di video giochi, sino al punto di considerare normale l’uso della forza per redimere ogni controversia. Aquila era in guerra continua contro tutti, per attribuirsi il diritto di fare quello che giudicava conveniente per il soddisfacimento dei propri bisogni. Lui ignorava l’esistenza del Contratto Sociale, le regole in cui gli individui di una comunità si riconoscono. Sembrava quasi che vivesse in uno stato di natura dove, secondo Hobbes, l’uomo per l’altro uomo è un lupo.
Passò la mano sul rigonfiamento della tasca dei jeans, che solo gli amici fidati del gruppo sapevano cosa fosse. E riprese il pedinamento. Superò alcuni distratti turisti usciti da una chiesa in stile gotico più per godere il fresco che ammirare il maestoso interno a tre navate. L’incedere dei due uomini si era fatto più sostenuto e Aquila dovette affrettare il passo per stargli dietro. Batté con stizza il pugno sul palmo della mano. La caccia era terminata. Non poteva inseguirli all’interno dell’albergo più prestigioso della città, dove erano appena entrati, sarebbe stato troppo rischioso. Riuscì a scorgerli attraverso i vetri della porta girevole che salivano le scale. Stava per ritornare sui suoi passi, quando una comitiva chiassosa, che si esprimeva in una lingua per lui incomprensibile, lo catapultò all’interno dell’albergo tra i clienti che affollavano la hall, restituendogli quel riso beffardo, che sfoggiava quando tutto procedeva secondo le sue aspettative. Con la capacità di adeguare la propria strategia alle mutate condizioni, si diresse verso la rampa delle scale, con la stessa sicumera di un cliente dell’albergo. Con pochi balzi fu di nuovo sulle tracce dei due uomini che sentiva conversare qualche gradino più avanti. La cameriera ai piani stava passando l’aspirapolvere all’estremità opposta del corridoio, senza avere notato i due clienti che erano entrati nella loro stanza. Aquila s’era acquattato sull’ultimo gradino della scala. Sapeva di camminare sul ciglio di un burrone, cui poteva precipitare in ogni istante. Ma il pericolo incombente rendeva esaltante lo strano gioco, in cui metteva a repentaglio la propria vita. Rinunciare all’impresa, significava privarsi del piacere di raccontare agli amici l’avventura da cui avrebbe ricavato prestigio; ed era quello che più contava per lui. Con la mente lui era già nella stanza, pregustando il momento. Sapeva come reagivano le sue vittime in circostanze simili. L’effetto sorpresa li avrebbe paralizzati e sarebbe stato un gioco da bambini malmenare e derubare i due pederasti. La cameriera stava caricando il materiale per le pulizie nell’ascensore. Aquila non si mosse, sino a quando la donna, inserita la presa della corrente, non mise in funzione l’aspirapolvere, il cui rumore sentiva provenire dal piano sottostante. Quei due stupidi avevano lasciato persino la chiave sulla porta. Non aveva bisogno nemmeno di forzarla. La sospinse sino ad ottenere una sottile fessura, attraverso la quale controllò l’interno. I due uomini dovevano essere nell’altra stanza, che intravedeva attraverso la specchiera della consolle. Aquila chiuse la porta dietro di sé. Tastò con le mani i pantaloni piegati sul letto per accertarsi se le tasche contenessero denaro, ma senza alcun risultato. Stava per rovistare negli armadi, quando avvertì un ansimare lieve. Si appiattì dietro la porta. I gemiti di piacere, accompagnati da parole affettuose erano indizi inequivocabili che di là stavano scopando. Sporse la testa dal basso dello stipite della porta. L’uomo più giovane era disteso sul letto con le gambe leggermente alzate che stringeva tra le braccia quel brutto vecchio che glielo aveva ficcato nel culo. Si muoveva come un ossesso, baciandolo sulla bocca, dimostrando una vigoria fisica inaspettata per l’età che aveva. Non sapeva che tra uomini si potesse fare l’amore con la stessa postura di come si fa con le donne. Era convinto che i froci porgessero il culo, subendo passivamente il rapporto. Quei due sul letto erano attivi entrambi. Ognuno rispondeva alle carezze dell’altro. Se non fosse stato per i peli sulle gambe, avrebbe detto che il vecchio stava scopando una donna, perché l’uomo giovane assecondava ogni movimento muovendo il bacino. Gli accarezzava la schiena, baciandolo con passione. Per un istante gli parve di scorgere semplicemente due che si amavano, altrimenti perché il pene, stretto nello slip, stava destandosi dallo stato di quiete in cui si trovava dalla mattina da quando aveva pisciato? Certo, la sua, poteva essere una reazione dovuta all’emozione di essersi introdotto furtivamente in una camera d’albergo, ma lui sapeva, anche se non lo voleva ammettere, che stava eccitandosi. Si ritrasse per riacquistare la lucidità che non l’aveva mai abbandonato da quando si era messo sulle tracce dei due. Cercò di vincere l’impulso negativo che lo sconvolgeva, altrimenti da cacciatore sarebbe diventato preda e questo non era nella sua natura, tutta tesa ad esaltare valori virili. No, quei due uomini erano schifosi; e vomitevole era ciò che stavano compiendo. Dalla tasca tirò fuori la Beretta calibro 7,65. Con l’arma tra le mani, i suoi istinti ritornavano aggressivi come si conveniva al guerriero metropolitano che lui incarnava. Doveva dargli una lezione a quei due da ricordarsela per sempre. La pistola gli serviva per spaventarli. Per due froci erano sufficienti i pugni, che diventavano colpi di maglio quando gli sarebbero arrivati in faccia. In segno di sfida si appoggiò allo stipite della porta, con stampata in viso l’espressione di disgusto per quel vecchio nudo come un verme, il quale sculettava come un indemoniato. Al sopraggiungere dell’orgasmo, il vecchio sollevò il capo e fu solo allora che vide la figura terrificante del giovane che aveva incontrato in strada. I muscoli si contrassero e il gemito di piacere si tramutò in urlo. Jeanpierre avvertì subito la presenza di un estraneo nella stanza. Si voltò verso la porta, certo di trovare la risposta alla strana sensazione.
“Che cosa fa nella nostra stanza?” urlò, scostando Adalberto. “Esca immediatamente o chiamo la polizia!
“Non vi muovete o vi ammazzo,” rispose con voce carica di odio, alzando il braccio con la pistola in pugno.
“Che cosa vuoi fare?” continuò Jeanpierre. “Metti via quell’arma. Può partire un colpo. É pericoloso.”
“Fate schifo. Siete degli essere spregevoli, che non meritate di stare al mondo,” disse Aquila osservando i due uomini che cercavano di coprire le loro nudità con le mani.
“Vuoi del denaro?” s’intromise Adalberto, per cercare di calmarlo. “Ti diamo tutto quello che abbiamo.”
“Avevo capito subito che eravate froci. Chi di voi mi spara un bocchino?” continuò con la furia di un invasato, portando la mano sulla patta dei pantaloni. “Ho tanto cazzo da soddisfare un intero reggimento.”
Voleva umiliarli, calpestare la loro dignità, solo perché non sopportava l’immagine di quei corpi nudi che qualche istante prima si erano amati e che contrastava con il mito del maschio che la vita di strada gli imponeva.
“Non compiere gesti di cui potresti pentirti. Se te ne vai, cercheremo di dimenticare l’accaduto.”
“Non ricevo ordini da chi lo prende nel culo. Se ti muovi ancora ti caccio una pallottola in fronte, così ci sarà una checca in meno sulla terra.”
“Là ci sono i pantaloni con il denaro e le carte di credito. Prendi tutto.”
“Mi vuoi fregare?”
“No,” disse Jeanpierre facendo il gesto di avvicinarsi. “Basta che stai calmo.”
“Non muoverti, ho detto!”
Convinto che volesse aggredirlo, Aquila premette il grilletto due volte.
Jeanpierre osservò il giovane, come se volesse rivolgergli la domanda del perché dell’assurdo gesto. L’espressione d’incredulità gli rimase stampata in viso. Roteò gli occhi e, girando su se stesso, stramazzò al suolo con un rumore sordo che spaventò l’amico ancor più dei colpi che lo avevano raggiunto al capo e al petto.
“Cosa hai fatto maledetto?” urlò Adalberto gettandosi sul corpo dell’amico che esalava l’ultimo respiro. “Era una persona mite, generosa. E tu lo hai ucciso! Assassino!”
“Stai fermo o ti sparo!”
“Vattene maledetto, vattene!” gridò l’uomo. “Sei un essere immondo.”
Lo insultava, inveiva contro di lui parole d’odio, dominando la scena per provocare il giovane, affinché rivolgesse l’arma contro di lui. La vita senza l’amico amato non aveva più senso. L’uomo, nel breve spazio di qualche minuto, aveva attraversato tutta la gamma delle emozioni umane: dall’esaltazione della vita, espressa negli intensi momenti d’amore, al desiderio di morte per vincere il dolore che lo stava soggiogando.
“Prima voglio i soldi.”
“Vuoi i soldi, maledetto,” disse, cercando di strappargli l’arma che aveva in mano. “Valgono una vita umana dei pezzi di carta?”
Il suo corpo nudo sembrava quello di un lottatore nello sforzo di atterrare l’avversario. Aquila non riusciva a contenere l’ira dell’uomo, il quale lo aveva afferrato per il collo, incurante di essere sotto tiro, come se fosse rivestito di una corazza. Il colpo sparato a bruciapelo interruppe l’azione, similmente al suono della campana in un incontro di pugilato. Il corpo, prima di accasciarsi, vacillò avanti e indietro, come se in quel deambulare fosse in atto un altro scontro tra la vita e la morte.
Aquila guardò con disprezzo i corpi esamini che giacevano sul pavimento nella loro schifosa nudità, mentre prelevava dal portafoglio le banconote. Nella fretta di allontanarsi urtò la poltrona e cadde di schiena, battendo violentemente il capo. La pistola era finita sotto il comò. La cercava sotto il divano e persino sotto il letto, massaggiandosi la testa dolorante. Non poteva rimanere in quel luogo, perdere tempo prezioso a cercare l’arma. Uscì dalla stanza precipitandosi verso le scale. Sul pianerottolo del primo piano si fermò per non farsi notare dalla cameriera. Attraversò il mezzanino, non più largo di tre metri, ma furono sufficienti perché la donna notasse il suo tatuaggio. Aquila arrivò in fondo alle scale nel preciso istante in cui le porte dell’ascensore si erano aperte, guadagnando l’uscita con i clienti dell’albergo.
9
Centauromachia
Aquila in sella alla sua moto faceva strada. Guidava con abilità, nonostante le numerose birre bevute. Portava in spalla uno zainetto che aveva riempito di lattine di birra, una bottiglia di latte fresco, uno strudel e delle arance da spremere. Quando trascorreva la notte in compagnia di una donna si svegliava la mattina con l’appetito di un bisonte. Avrebbe lui preparato la colazione, come si conviene ad un perfetto amante che invita una donna per la prima volta nella sua stanza. Non riusciva a capire cosa l’attraesse di più in Eva, se la sua bellezza ferina, la determinazione con cui sapeva ottenere le cose, il modo che aveva di parlare, la circostanza che la pensasse allo stesso modo su froci e negri o se c’era dell’altro che a lui sfuggiva. Di certo era diversa dalle ragazze che aveva conosciuto. Sentiva ancora le sue mani sul ventre; un gesto che se compiuto da una delle solite sbarbine con cui usciva, avrebbe solo confermato l’idea che le donne sono tutte puttane. Lei aveva preso ciò che in quel momento desiderava, senza alcun imbarazzo o finta pudicizia foriera solo desideri repressi. Era proprio la donna che un capo avrebbe voluto avere al suo fianco. Il fatto, poi, che possedeva la stessa grinta di un uomo, era forse l’aspetto che più l’intrigava. La ragazza sosteneva di essere fidanzata, ma un uomo che non si presenta ad un appuntamento meritava tutto il suo disprezzo. Avrebbe fatto di tutto per sottrargliela, specialmente ora che conosceva il fatto di sangue che lo aveva visto protagonista. Ascoltare quella storia significava che le loro strade si erano incrociate. E mai avrebbe permesso che la ragazza potesse in qualche modo ricattarlo. L’unica maniera per neutralizzarla era di coinvolgerla in un’impresa in cui la banda rischiava la galera e già aveva in mente una visitina ad un circolo gay per il battesimo di fuoco.
Aquila, per dimostrarle la sua abilità di centauro, con la moto, le zigzagava davanti, accelerando in prossimità degli incroci, senza preoccuparsi dei semafori che segnavano rosso. Per evitare lo schianto con le auto che procedevano in senso inverso, sterzava all’ultimo momento. Rischiare la vita gli procurava una scarica d’adrenalina da rendere esaltanti certe esibizioni di coraggio. Ilaria doveva sorpassarlo, se voleva mettere in atto il suo piano, ma ogni volta che provava a farlo, Aquila accelerava per manifestare la sua supremazia. Alla fine, il rischio di provocare incidenti era così forte che la ragazza si accodò ad un’auto che viaggiava a velocità moderata. Vide Aquila sparire in fondo alla via, ma non se ne preoccupò, convinta che presto lo avrebbe trovato fermo ad un incrocio ad attenderla. Alla guida dell’utilitaria che aveva davanti c’era un signore distinto. La donna che gli era accanto, forse la moglie, parlava accarezzandogli la testa canuta per tenerlo sveglio. Dall’abbigliamento s’intuiva che erano reduci di una cena per festeggiare chissà quale ricorrenza. Invidiava quella coppia che serenamente se ne ritornava a casa mentre lei era a rincorrere l’assassino del padre. La macchina imboccò una via secondaria. Ilaria l’osservò per l’ultima volta con la sensazione che il filo che l’aveva tenuta legata al mondo reale stava spezzandosi, perché si sentì trascinata in un tunnel in cui non intravedeva il fondo. Una voce le diceva di tornare indietro, di fuggire, ma sapeva che sarebbe stato impossibile. Aquila non l’avrebbe lasciata andare dopo averle rivelato il suo segreto. Attraverso il numero di targa dell’auto presa a noleggio sarebbe risalito a lei, per questo i conti andavano regolati quella sera stessa.
Le luci stavano diradandosi, segno che la campagna era vicina. Aquila rallentò l’andatura, per aspettare la macchina della ragazza. Scese dalla moto, fissando il casco al bauletto, per accendersi una sigaretta. Da quel punto partivano le numerose strade secondarie che intersecavano i campi lavorati. Solo chi conosceva il luogo sarebbe stato in grado di trovare il sentiero giusto che conduceva al cascinale. Pensava ai suoi compagni ospiti in una lussuosa villa dalle parti del lago. Il figlio del proprietario all’insaputa dei genitori aveva organizzato una festa. Gli invitati dovevano portare solo da bere. Una quantità incredibile di birre, vino e bibite erano sempre raccolte in circostanze simili. Bastava presentarsi al bar, allestito nella stanza più grande, e ordinare ciò che desiderava senza nulla pagare. I giovani, che avevano con sé il sacco a pelo, potevano persino trascorrervi la notte ed era ciò che avevano deciso di fare quelli della banda. Aquila aveva rinunciato alla festa, solo perché riteneva la compagnia di Eva più interessante.
Il tempo non passava mai, forse perché guardava in continuazione l’orologio, da fargli sembrare le lancette immobili. Con stizza aveva scagliato il mozzicone della sigaretta contro il lampione che illuminava il bivio. Non voleva pensare che la ragazza gli avesse tirato un tiro mancino. Tutto sarebbe stato sopportabile in una delle solite serate, ma non quella sera in cui aveva rinunciato ad una festa ricca d’opportunità per stare con lei. I dubbi continuavano però a tormentarlo. Quella strana ragazza, gli aveva fatto credere che avrebbero trascorso la notte insieme ed invece all’ultimo momento si era eclissata. Non avrebbe dovuto perderla di vista; se la prendeva anche con se stesso per avere guidato a velocità sostenuta. Stava risalendo sulla moto per andare a cercarla, quando vide sopraggiungere un’auto.
Ilaria vide Aquila in mezzo alla strada che faceva cenno di rallentare. Bastava che avesse accelerato, puntando diritto su quella figura che agitava le braccia e giustizia sarebbe stata fatta. Troppo rischioso, stavano sopraggiungendo altre macchine, meglio attenersi al piano e la folle idea lasciò il posto all’espressione che assumeva quando voleva rendere inaccessibili i suoi pensieri: un misto di curiosità e dolcezza. Aquila sorrise vedendola. Si era preoccupato inutilmente, ma la vita di strada gli aveva insegnato a prendere in considerazione solo gli aspetti negativi delle situazioni. E se era riuscito a superare situazioni rischiose, lo doveva al fatto che i suoi sensi erano sempre vigili. Quella sera non aveva fatto i conti con la forte attrazione per la ragazza, una sorta d’istinto primigenio, lo stesso che spinge gli animali ad accoppiarsi, che lo aveva portato a trascurare le solite precauzioni. Ma se aveva abbassato la guardia, era solo perché la ragazza era diversa dalle altre. Solo il pensiero di andare a letto con lei lo eccitava e contro la biochimica del corpo era inutile opporre resistenza. Affrettò il passo per raggiungerla, ma lei anziché fermarsi accelerò, imboccando il sentiero con la stessa velocità con la quale solitamente i compagni della banda ritornavano da qualche scorreria, sollevando una nube di polvere. Rimase di stucco per quel comportamento inatteso.
“Dove vai? Aspettami non conosci la strada,” le urlò dietro.
Non indossò nemmeno il casco, tanto era la fretta di raggiungerla. Partì con un’impennata, accelerando su una ruota per un tratto di strada, nello stile che faceva impazzire le ragazze. Ma quella sera non lo aveva fatto per esibizionismo, ma solo perché Eva si stava prendendo beffe di lui. Era così incazzato che per imboccare la stretta curva aveva fatto roteare la moto di novanta gradi con un tocco ai freni ed una possente accelerata, facendo perno su una gamba. In certe giornate d’estate vederlo correre in sella alla sua moto, per sentieri impervi, assomigliava, con quella sciarpa di seta al collo, ad uno stallone che, criniera al vento, galoppa per il piacere di sentirsi libero. Sulla moto era una sorta di semidio che riscuoteva ammirazione per la sua abilità. Guidava eretto sulle gambe per riuscire a scorgere le luci dell’auto, ma inutilmente. Si chiedeva quale direzione avesse preso. Continuò per la strada che conduceva al cascinale. Intuiva che si trovava da qualche parte, magari nascosta dietro le tante siepi che costeggiavano i tratturi a fari spenti, per giocare a rimpiattino come fanno gli innamorati. Aveva raggiunto il canale irriguo che costeggiava la strada. Da quel punto dominava ancora meglio la campagna. Si fermò spegnendo il motore. Il cielo era stellato e la luna illuminava così bene la campagna che distingueva le sagome degli alberi. Questa visione lo tranquillizzò. La ragazza poteva benissimo avere percorso un tratto di strada a luci spente per godersi la magnifica notte. Il modo di fare si addiceva al suo temperamento imprevedibile. D’altronde lui era rimasto affascinato proprio perché era diversa dalle altre. Avvertiva il brusio dell’acqua scorrere veloce nel canale sottostante che in quel periodo aveva la massima portata. Decise di fare un giro intorno al cascinale, insolitamente silenzioso quella sera per l’assenza dell’intera banda. Non gli capitava di avere la casa a completa disposizione e questo rendeva ancora più desiderabile l’avventura. Con la moto aveva fatto pochi metri, quando improvvisamente un cono di luce illuminò la strada. Sì era proprio lei. Lo sentiva che sarebbe riapparsa. Rallentò l’andatura per permettere all’auto di affiancarsi alla moto. Viaggiavano quasi appaiati. La ragazza gli sorrise attraverso il finestrino. Sembrava quasi che volesse invitarlo ad una corsa sul breve rettilineo, invece diminuì la pressione sul pedale dell’acceleratore ed Aquila si trovò in posizione avanzata. Chino sul volante con lo zainetto dietro le spalle, marciava sul lato sinistro della strada che costeggiava il canale. Le fece cenno di avvicinarsi, per ricercare di nuovo la sua compagnia. Avvertì il motore dell’auto, dietro di lui, aumentare di giri. Avere la macchina accanto era come andare a passeggio tenendosi per mano, per questo si accostò ancor più al ciglio della strada per farle posto. I suoi pensieri erano tutti rivolti alla ragazza. Non aveva mai creduto ai colpi di fulmini, lui che considerava le donne accessori degli uomini. Per quel dolce visino era disposto persino a rivedere le opinioni sul gentil sesso. Tutto era nato nello svolgere del breve spazio di una serata. Erano stati momenti così intensi, che l’esperienza vissuta aveva lo stesso sapore di una relazione che andava avanti da lungo tempo. Presagiva la notte che avrebbero trascorso insieme per suggellare la loro amicizia. Eva ormai gli apparteneva. Era disposto ad uccidere se qualcuno avesse ostacolato la nascente relazione. Sentiva ancora le sue mani che le accarezzavano il ventre. Nessuna donna gli aveva suscitato tanto desiderio. Era così eccitato che trovava seducente lo stesso rumore dell’auto. Il leggero urto che avvertì nella parte posteriore della ruota della moto, sembrò la risposta ai suoi desideri. Aveva bisogno di un contatto fisico. Anche se erano parti metalliche che si toccavano, fu come sentire il corpo di Eva stringersi a lui. Egli era un abile guidatore e riuscì a mantenere l’equilibrio. Il secondo violento urto, però, mandò in frantumi tutti i suoi sogni. Sembrava quasi che la ragazza con il primo movimento avesse voluto prendere la mira e con il secondo centrare il bersaglio. La ruota batté violentemente contro il cordolo di cemento che separava la strada dal canale, sbalzandolo di sella.
Ilaria aveva le mani aggrappate al volante. Aveva visto il corpo di Aquila volteggiare in aria come certi saltimbanchi che si vedono al circo. Guardava come inebetita la moto con la ruota anteriore piegata e il faro che illuminava il punto in cui era precipitato. Premere il dito sul grilletto di una pistola o spingere fuori strada un motociclista non c’era alcuna differenza: in entrambi i casi si trattava d’assassinio, di là delle giustificazioni che avevano portato a compiere il gesto. Quel pensiero la terrorizzò. Sperava quasi che il giovane riapparisse per annullare quell’ultimo tremendo momento della sua vita. Scese dalla macchina. L’aria della notte la riportò alla realtà. Non poteva avere ripensamenti. Aveva pianificato così bene ogni mossa, che tutto stava procedendo come previsto. Doveva accettare l’idea di avere ucciso un uomo per vendicare la morte del padre. “Occhio per occhio dente per dente,” non diceva così anche la bibbia? Si affacciò. Udiva distintamente il sibilo delle lattine di birra schiacciate dal peso del corpo. Appena gli occhi si abituarono al buio, riuscì a distinguere la figura del giovane. Se ne stava immobile a testa in giù con le braccia aperte. Il giubbetto si era impigliato in un’asperità della viscida parete di cemento, impedendogli di sprofondare nelle acque scure del canale, che scorrevano un palmo sotto la sua testa. La posizione del busto aveva qualcosa d’innaturale. Non era allineato con il resto del corpo. Lo zainetto dietro le spalle aveva sì attutito il colpo, ma aveva fatto anche da leva, spezzandogli la spina dorsale.
“Non riesco a muovermi,” sussurrò con un filo di voce verso la ragazza ferma sul ciglio del canale. “Non sento né gambe né braccia. Aiutami, sto scivolando!” supplicò ancora con voce colma di terrore.
La ragazza sembrava sorda ai suoi richiami. Il volto teso aveva l’espressione di Nemesi, la dea della vendetta, che osservava il feroce Centauro, l’essere mostruoso, metà uomo e metà cavallo, immobile sotto di lei. La parte equina era tutta nera, ma candidi il colore degli stinchi, così come pure la coda, i cui crini erano mossi dall’austro che si era appena levato. Il Centauro si era macchiato di un orrendo crimine.
In terra veneta erano in corso i ludi in onore di Dioniso e Demetra e nella grande Arena continue rappresentazioni drammatiche avevano richiamato schiere di pubblico da ogni contrada. Mancavano due notti perché la falce lunare si chiudesse in un cerchio perfetto, quando dall’Etruria erano giunti marito e moglie con un loro amico più giovane per assistere allo spettacolo che tanti cuori aveva fatto palpitare. Quel giorno, la donna era andata al tempio ad offrire alla dea primizie e serti di spighe per propiziarsi il raccolto, mentre i due amici rientravano alla locanda, discutendo lo spettacolo che avrebbero visto la sera, il cui argomento riguardava la glorificazione di un popolo, una sorta di rappresentazione del mito in forma poetica, in cui il coro appariva come il vero protagonista del dramma. Erano così presi a parlare che non avevano notato un gruppo di Centauri, che scalpitavano sotto una tenda vicina. Si erano accorti di loro solo quando avevano urtato il Centauro più feroce, un gesto intollerabile per l’essere biforme che si considerava superiore agli uomini. Il Centauro li aveva seguiti nella locanda in cui essi alloggiavano. E mentre erano intenti a celebrare un cerimoniale in onore di Priapo figlio del dio Dioniso, il mostro li aveva uccisi scagliando contro di loro dardi infuocati. La moglie al rientro nella locanda li trovò stesi sul pavimento, privi di vita, completamente nudi e per il dolore preferì uccidersi con un dardo infuocato caduto dalla faretra del Centauro, per raggiungerli nelle valli nebbiose dell’Averno.
Melpemone e la sorella Euturpe, muse del canto e della musica, appreso che le persone scomparse dalla terra dei vivi erano cultrici delle arti cui erano ispiratrici, avevano rivolto preci al padre Zeus affinché punisse il feroce Centauro. Zeus aveva affidato l’incarico a Nemesi, la quale si era presentata all’orribile creatura sotto le spoglie di una giovane fanciulla. Il Centauro, infiammato dal vino e dalla libidine, desiderava stuprare la vergine misteriosamente apparsa dal nulla. Si era lanciato in uno sfrenato galoppo con l’intento d’afferrarla per i capelli e trascinarla nel proprio antro, senza avvedersi del dirupo che sprofondava dietro di lei. Vi era precipitato con tutto il suo peso, spezzandosi la spina dorsale nel punto in cui l’uomo si congiunge al cavallo.
La luce dei fari dell’auto evidenziava il profilo della ragazza. Sembrava una delle Erinni per quei capelli intrecciati come serpenti.
“Eva, tirami su, altrimenti annego,” gridò Aquila con gli occhi di paura.
“Non mi chiamo Eva,” rispose lei.
“Chi sei?”
“Non lo immagini.”
“Della polizia?”
“Non dire sciocchezze.”
“Chiunque tu sia, non lasciarmi morire. Abbi pietà,” scongiurò con il volto bagnato dai continui spruzzi che rimbalzavano sulle pareti del canale.
“Tu l’hai avuta per l’uomo che t’implorava di non sparare.”
“Che cosa centri con quella storia?”
“Sono la figlia di uno degli uomini che hai ucciso,” urlò con tutta la rabbia che aveva in corpo.
Per Aquila non c’era più speranza. L’unica persona che poteva aiutarla era colei cui aveva ucciso il padre. Sentiva la morte avvicinarsi. Roteava gli occhi come se con la forza delle orbite potesse levarsi dalla posizione scomoda in cui si trovava. Che cosa può attraversare la mente di un uomo in quelle condizioni? Pensò alla madre, al fratello che lavorava in fabbrica, agli sbagli commessi, di cui qualcuno era venuto a chiederne conto. La vita da balordo lo aveva condotto a terminare la sua breve esistenza in un canale. Era in fondo ad un pozzo, ma con lo sguardo rivolto alla volta stellata. Stava ritornando nello spazio infinito da dove era venuto.
“Non abbandonarmi,” implorò mentre le acque gelide lo ghermivano.
Solo allora Ilaria provò una profonda pietà. Desiderò con tutte le forze che, quel fagotto che vorticava trascinato dalla corrente, si trasformasse in un’aquila dalle ali fulve, oppure in un pesce argentato e persino in una pianta acquatica di quelle che a ciuffi crescono nei letti dei fiumi. Lei, però, non era una dea. Non poteva auspicare che dalla dissoluzione di quel corpo un’altra forma potesse prenderne il posto, come accadeva nelle Metamorfosi di Ovidio. Non era più il tempo degli dei quando si confondevano con gli uomini per gioire e soffrire con loro. Il mondo reale era quel corpo che urtava contro le pareti del canale. S’inabissò repentinamente. E sulla livida superficie non rimasero altro che cerchi concentrici: solo effimeri giochi d’acqua.
10
Epilogo
Erano trascorsi sei mesi da quella notte, ma Ilaria aveva tenuto dentro di sé l’orribile segreto per non coinvolgere le persone cui si sentiva legata. L’avvocato Soldini era convinto che a Verona alla ragazza fosse accaduto qualcosa, ma lei lo aveva rassicurato, affermando di non aver trovato alcun indizio utile. L’uomo aveva suggerito d’incaricare un investigatore privato, giusto per toglierle la fatica delle ricerche, ma lei si era dimostrata contraria. Non desiderava che estranei indagassero su questioni delicate riguardanti il padre.
“D’altronde il giudice delle indagini preliminari sta ancora investigando sul caso,” aveva replicato l’avvocato per assecondarla. “E non è detto che il vero colpevole abbia i giorni contati.”
La ragazza era in casa a lavorare. Stava scrivendo un articolo sul lavoro nero nei cantieri edili che doveva trasmettere alla redazione del giornale per la quale lavorava entro il pomeriggio e, ancora, oltre a verificare l’autenticità d’alcune fonti, doveva rivedere la parte di un giovane extracomunitario che aveva perso la vita cadendo da un’impalcatura.
Dopo la morte dei genitori, era diventata un’appassionata di musica e trascorreva le ore ad ascoltare sinfonie, suonate e brani d’opera. Rivivere le stesse emozioni per un’aria celebre, che aveva entusiasmato persone a lei care, era un modo di sentirle ancora vicine. In questa crescente passione avevano contribuito l’avvocato Soldini e la moglie Patrizia, i quali le avevano trasmesso tutta la loro cultura musicale. Stava ascoltando il quartetto in mi bemolle minore di Ciajkovskij, il terzo movimento, l’andante funebre e doloroso. Era stato eseguito per le esequie dello stesso compositore nella cattedrale di Kazan a San Pietroburgo, un onore che per la prima volta era stato riservato ad un personaggio non nobile, commovendo le sessantamila persone che avevano richiesto il biglietto per seguire la cerimonia. La musica l’aiutava a concentrarsi meglio, anche se ogni tanto si lasciava trasportare da essa: quelle note, che nitide le attraversavano l’animo, sembravano un lungo e straziante lamento, convincendosi che il violino fosse lo strumento per antonomasia, l’unico che riuscisse ad imitare la voce umana. Stava riprendendo a scrivere, ma il suono insistente del campanello dell’ingresso principale le fece serrare le dita appoggiate sulla tastiera e le parole della frase che voleva digitare si dissolsero nel nulla. Guardò l’orologio. Escluse che potesse essere il postino che consegnava le raccomandate. Si alzò dal tavolo per sbarazzarsi del seccatore.
“Chi è?” disse con voce sostenuta dalla cornetta del citofono.
“È in casa la signorina Ilaria?” ribatté una voce altrettanto determinata.
“Sono io,” rispose in modo titubante la ragazza, che aveva colto nel tono un senso di sgradevolezza.
“Siamo della polizia. Dobbiamo parlarle?”
L’avevano sempre convocata in procura per qualsiasi notizia e la circostanza che si fossero scomodati la lasciò perplessa. Pigiò il pulsante dell’apertura automatica del cancello ed uscì.
Un uomo in borghese, in completo celeste, accompagnato da due poliziotti, saliva per il vialetto della villa. Ilaria riconobbe subito la persona. Portava gli stessi occhiali da sole del giorno dell’inseguimento per le vie di Verona, con lo stesso ghigno stampato in volto. Intuiva la ragione della sua visita, non fosse altro per i due agenti che avanzavano verso di lei con modi minacciosi. Non provò alcun timore, forse perché finalmente poteva liberarsi del senso di colpa che l’affliggeva. La notte era in preda allo stesso incubo. Il corpo di Aquila trasportato dalla corrente. Lei correva nel tentativo di salvarlo e quando era riuscita ad afferrarlo, Aquila la trascinava nei gorghi del canale, annegando insieme.
“La dichiaro in arresto per l’uccisione di Ballarin Giuseppe, detto Aquila,” disse l’ispettore di polizia esibendo un mandato di cattura. “Il Ballarin si è macchiato di un duplice omicidio, ma questo non autorizza nessuno a farsi giustizia da soli,” proseguì l’uomo. “Almeno avesse aspettato la fine delle indagini. Sono state lunghe e laboriose e se lei ci avesse dato una mano, avremmo scoperto il colpevole molto prima.”
“Ero convinta che la polizia ritenesse il caso risolto,” si limitò a dire la ragazza.
“Occorre avere fiducia nella giustizia,” ribatté l’uomo. “I nostri esperti, attraverso il computer del chirurgo, sono risaliti alle prenotazioni effettuate nei luoghi dove si svolgevano gli spettacoli lirici. Interrogando il personale degli alberghi, è emerso che le tre persone erano legate da sentimenti di profonda amicizia.”
L’ispettore stava fornendo spiegazioni non dovute sul caso, ma era consapevole che non poteva trattare la ragazza come una criminale qualsiasi, solo per farle comprendere la liceità dell’atto che stringeva in pugno.
“Caduto il movente della gelosia, si è presa in esame l’altra ipotesi investigativa, la stessa su cui lei ha sempre insistito. La donna, trovata l’arma sulla scena del delitto, si uccide di fronte ai corpi straziati dei due uomini di cui è innamorata. Chi era stato ad ucciderli?”
L’uomo fece una breve pausa per raccogliere meglio le idee.
“Abbiamo subito escluso che potesse trattarsi di un tentativo di rapina finita in maniera tragica. L’assassino, anziché fuggire una volta scoperto, si diverte a minacciare con la pistola i due inermi uomini; e non ha un attimo d’esitazione a premere il grilletto, quando le due vittime scendono dal letto nell’estremo tentativo di difendersi. Sempre più convinti che si fosse trattato di un’esecuzione da parte di qualcuno che odia gli omosessuali, con la polizia locale abbiamo esaminato tutte le denunce di violenza e molestie effettuate nei confronti di gay, risalendo così al gruppo di giovani che avevano come punto di ritrovo la via poco distante l’albergo dove alloggiavano le vittime. È in concomitanza delle nostre indagini che ci viene segnalata la sua presenza in città. Avevamo timore che lei potesse rovinare i nostri piani e mettere in allarme l’eventuale assassino, proprio nel momento in cui volevamo infiltrare un nostro agente in mezzo a quelle teste calde. Quel giorno decido di seguirla, per scoprire quali fossero le sue reali intenzioni; ma devo riconoscere che è stata più abile di me nel far perdere le tracce. Mi tolga una curiosità, in chiesa dove si era nascosta?”
“Nel confessionale vicino alla sagrestia.”
“Lo supponevo. Stavo proprio dirigendomi in quella direzione se non mi avesse fermato il sacerdote. Se l’avessi scoperta non si troverebbe in questa situazione. Lo capisce?”
“Non credevo che a seguirmi fosse un poliziotto,” rispose laconica Ilaria.
“Una settimana dopo muore un appartenente del gruppo,” continuò l’uomo preso dalla foga della ricostruzione. “Sembra un banale incidente stradale. Il corpo viene trovato impigliato in una chiusa più a valle, distante due chilometri da dove è stata trovata la moto rovesciata. L’autopsia rileva che il giovane nella caduta si è spezzata la spina dorsale, morendo affogato. La cosa sarebbe finita lì, se non fossero stati gli amici ad escludere che potesse trattarsi di un incidente, data l’abilità del giovane nel guidare motociclette. Il Ballarin, la sera dell’incidente, era stato visto in compagnia di una ragazza. È stato sufficiente mostrare al titolare del locale una sua foto per risalire a lei. Ricostruire ciò che avete fatto quella sera è stato semplice. Siete usciti dal locale insieme. Il giovane è salito sulla sua moto, lei su un’auto presa a noleggio, entrambi diretti al cascinale. Lei è riuscita a distanziare il Ballarin per attenderlo dietro una siepe della strada che costeggia il canale. Sappiamo anche il luogo in cui ha sostato per l’impronta dei pneumatici lasciata sul terreno coltivato di fresco. Le tracce di vernice sul parafango posteriore della moto, la circostanza che non esistono sulla strada segni di frenata, dimostrano in maniera inequivocabile che il motociclista è stato spinto fuori strada dalla macchina da lei condotta. Non so come abbia fatto a scoprire che fosse lui l’assassino.”
Ilaria ascoltava l’ispettore di polizia con lo stesso interesse che la gente comune rivolge ai fatti di cronaca come se la vicenda non la riguardasse, tanto che l’ispettore dovette ripetere la domanda.
“Non vuol dire come è risalita all’assassino?”
“La donna delle pulizie dell’albergo aveva notato un giovane con un’aquila tatuata sul braccio il giorno del delitto,” sospirò lei. “Quella sera, nel locale frequentato dal gruppo, ho fatto da esca, mettendo in giro la voce che mi piacevano gli uomini con quel tipo di tatuaggio. È stato lui a farsi avanti. Sono riuscita a farlo confessare in cambio di trascorrere la notte con lui, convinto di avere di fronte una ragazza che odiava gli omosessuali e ammirava gli uomini forti e violenti.
“Ha avuto coraggio; se l’avesse scoperta non avrebbe esitato un istante ad ucciderla.”
Ilaria fissò negli occhi il suo interlocutore. Stava per rispondergli ma si limitò a scuotere il capo. Avere compiuto l’atto più violento contro un proprio simile togliendogli la vita, anche se per vendicare la morte del padre, non attenuava il senso di colpa che avrebbe continuato a tormentarla per il resto dei suoi giorni.
Fine
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Giochi d'Acqua
Mystery / ThrillerPer i temi trattati e il linguaggio utilizzato, il romanzo è riservato a un pubblico adulto. Sinossi: Una donna stringe la pistola con la quale si è suicidata. Accanto a lei giacciono, completamente nudi, i corpi del marito e dell’amico di famiglia...