L'orologio nel 221B di Baker Street era fermo, le fini e asimmetriche lancette avevano smesso di muoversi e produrre il loro usuale e regolare ticchettio da mesi ormai, erano statiche, appese su quella parete da troppo tempo, immobili, come l'uomo seduto sull'impolverata poltrona scarlatta.
Il tempo non si era stancato di scorrere, imperterrito aveva continuato la sua monotona corsa verso l'astratto infinito, non badando a chi, a cosa o a come, aveva superato tutto con il suo inarrestabile e silenzioso passo - e continuava a farlo-, senza tener conto delle lancette ferme, degli orologi rotti o delle cognizioni perse.
Il dottor Watson aveva l'aria stanca, ma non il tipo di stanchezza di un uomo reduce da frustranti notti insonni, c'era dell'altro -oltre a quello- nelle sue profonde occhiaie. Il suo sguardo languido si posava lentamente su ogni dettaglio che la sua visuale gli concedesse, soffermandosi minuti interi sui particolari che quel folle consulente investigativo aveva lasciato in quella stanza.
Per un attimo, quando suoi occhi scorsero i fori di proiettili sul muro, gli sembrò di risentire il rumore di quei due colpi di pistola sparati per noia alle tre del mattino e di rivedere il suo migliore amico avvolto nella sua vestaglia blu con quello sguardo insano, che solo un fantomatico Dio poteva sapere quanto gli mancasse.
John smise di puntare i suo occhi su quella pacchiana carta da parati, incontrando qualche macchia di sangue secco sul legno scuro del pavimento, risultato di qualche macabro esperimento del suo collega. Fece scorrere ancora lo sguardo sui lenzuoli bianchi-che coprivano l'ammobilio invecchiato per non rovinarlo ulteriormente-, ricordando della bizzarra tenuta in cui l'investigatore si era presentato a cospetto della famiglia reale. Sorrise amaramente, mentre le loro risate di quel giorno si ripetevano nella sua mente insieme alle battute su furti di lussuosi portacenere. Strinse la sua presa sul pezzo di stoffa che teneva saldamente fra le mani, costringendo il suo sguardo a proseguire e la sua mente a ricordare. Non sapeva perché lo stava facendo, forse era diventato un sadico e i ricordi della guerra in Afghanistan non gli bastavano più per nutrire la sua fame di dolore, o magari stava impazzendo, dopo tutto quello che aveva passato non era un opzione da sottovalutare, o forse, dopo due anni dalla morte dell'unica persona che avesse mai amato così tanto nella sua intera vita, aveva paura di dimenticare le piccolezze, i dettagli che avevano fatto sempre la differenza per la mente del vecchio soldato, oppure cercava di colmare quel vuoto infinito che portava nel petto con quanto più dolore vi potesse entrare, perché dopo più di settecentotrenta giorni trascorsi così velocemente da sembrare un'eternità, era divenuto talmente insopportabile da dover essere saturato con qualsiasi cosa.
Watson aveva smesso di chiedersi cosa lo avesse spinto lì quando la signora Hudson lo aveva trovato davanti alla porta, decisamente sbalordita, e lo aveva abbracciato così forte da fargli ricordare, sebbene lontanamente, come fosse sentirsi davvero a casa.
Quella vecchia signora era l'unica che aveva davvero capito tutto, l'unica stata capace di andare oltre l'apparenza di quella bizzarra coppia che il medico e il suo coinquilino formavano, la sola ad aver guardato dietro gli sguardi che quei due si erano lanciati durante la risoluzione di casi, di liti o semplicemente nel corso della vita di tutti i giorni che, casualmente, avevano deciso di trascorrere assieme.
La signora Hudson non aveva fatto domande quando John le aveva chiesto di voler entrare per qualche minuto dentro il suo vecchio appartamento e, senza aspettarsi una risposta, era scomparsa in cucina a preparare il suo famoso tè, che il dottor Watson non avrebbe di certo rifiutato.
Se John si fosse concentrato abbastanza, sarebbe riuscito persino ad udire il flebile fischio della teiera sul fuoco, mentre i suoi occhi cercavano appiglio in un altro oggetto, in un altro ricordo, con un'ansiosa urgenza.
Il lenzuolo impolverato che ricopriva l'imponente libreria in mogano celava i pesanti tomi e qualche gingillo che il detective aveva appoggiato distrattamente sugli scaffali. Il dottor Watson si alzò a fatica dalla poltrona, mentre un'espressione di dolore storceva momentaneamente i lineamenti del suo viso, trattenendosi dall'imprecare qualcosa per la sua gamba malconcia e per quel disturbo psicosomatico che aveva ripreso a tormentarlo da diversi mesi a quel giorno.
Aveva provato a ricomprare un nuovo bastone, ma ogni volta che vi si appoggiava era difficile non ricordare
i lunghi inseguimenti in cui si era imbattuto e della grande fatica che aveva compiuto per riuscire a star dietro all'amico, durante quelle corse irrequiete. Non sarebbe tornato nuovamente schiavo di una condizione inesistente generata dalla sua stressata mente, abile tentatrice di desistenza, che lo avrebbe portato rapidamente verso la fine. Non c'era fine a cui arrendersi, se non tutte le speranze fossero andate perdute.
John distolse all'istante la sua attenzione da quei pensieri, focalizzando il dolore fisico e trasformandolo in dolore psicologico, che gli era sempre sembrato più facile da sopportare. L'uomo fece qualche passo verso la libreria, tirando via con un gesto deciso il telo bianco che la proteggeva, liberando così nell'aria infinitesime parti di polvere, che vorticavano libere sotto la grigiastra luce di quella giornata uggiosa. Il lenzuolo ricadde in terra, mostrando l'enorme collezione di volumi accuratamente ordinati - per livello di interesse, contenuto e colore- , coprire ogni angolo libero degli scaffali. Gli occhi ingrigiti del dottore scorsero pacatamente sulle copertine, senza soffermarsi più di tanto sulla lettura dei titoli stampati in bella grafia sul bordo visibile, tranne che su uno. Non era un vero e proprio libro, assomigliava di più ad un piccolo raccoglitore che, senza alcuna etichetta o catalogazione scritta sopra, riusciva comunque a confondersi con il resto dei tomi. Aveva l'apparenza di una di quelle cartelline contenenti documenti od importanti carte, inusuali per il palazzo mentale del detective, capace di contenere qualunque informazione a lui necessaria, ma dopotutto quella era stata opera di Watson. Se la ricordava bene, quella cartellina, John Watson, sebbene fossero passati più di due anni dall'ultima volta in cui l'aveva aperta. Un'opprimente nostalgia cominciò ad attorcigliarsi con il suo stomaco, che lo spinse senza troppi preamboli o ripensamenti ad issarsi sulla punta dei piedi - dopotutto, non era solamente l'incredibile altezza del suo collega a farlo sembrare basso, lo era davvero-, fino ad arrivare a quella cartellina blu scura, e a tirarla giù dal penultimo ripiano.
Il soldato, ormai in congedo, appoggiò il raccoglitore sul tavolino rotondo di fianco alla poltrona e - senza badare a sedersi- l'aprì, un po' titubante, pronto ad annusare l'odore della vecchia carta da giornale ed inchiostro. Era rimasto davvero colpito la prima volta che il suo volto fosse apparso su un giornale e , sebbene potesse sembrare un gesto futile, John aveva conservato gran parte di quelle prime pagine, di quei casi così importanti che lui e il suo migliore amico avevo risolto, da meritarsi quegli articoli da copertina.
Il medico di guerra non era certo di quante carte e fotografie potessero celarsi lì dentro - non gli si era mai presentata la necessità di contarle-, eppure il suo volto fu colto da un evidente stupore nel vedere il misero contenuto del raccoglitore: vi era un unico foglio, dai bordi irregolari e un po' sgualciti, rivolto verso il basso.
Ancora con gli occhi sbarrati per la sorpresa e confusione, Watson prese in mano il piccolo pezzo di carta, sottile e ruvido al tatto, girandolo a verso affinché potesse osservare di cosa si trattasse.
Era una fotografia - non appartenente ad un vecchio giornale, bensì stampata su carta lucida - rovinata dal tempo e dalle continue ripiegature che avevano lasciato sull'immagine diversi aloni e taglietti che avevano portato via l'inchiostro in alcuni punti.
Le labbra di John si curvarono verso l'alto, in un malinconico e nostalgico sorriso che gli assestò un colpo secco in mezzo al petto, intaccando la pesante corazza che lui stesso aveva eretto attorno a sé da quando il 221B di Baker Street era stato chiuso definitivamente, lasciando un vuoto enorme, specialmente nella sua vita.
La foto ritraeva i due Investigatori nella casa dove ora John si trovava, durante la cena di Natale, talmente indaffarati nello scambiarsi pareri o supposizioni sul caso che stavano seguendo da non accorgersi minimamente di Molly, intenta a provare una vecchia polaroid, probabilmente ricevuta proprio in occasione di quella festa. Proprio per quello John non aveva alcun ricordo di quella foto finché non l'aveva avuta sotto occhio, tanto l'aveva vista di sfuggita, eppure poteva quasi sembrare la migliore fra tutte le altre che quei due potessero avere insieme.
Il detective sociopatico -nonché suo migliore amico- aveva sempre avuto espressioni terribilmente finte e svogliate nelle immagini di copertina -dopotutto non sopportava farsi fotografare-, ma in quella, dove erano visibili solo i loro volti, entrambi apparivano incredibilmente disinvolti e naturali, uniti da quella strana ed unica alchimia, in grado di nascere solo fra due folli e macabre menti come le loro.
"Il tè è pronto, signor Watson!"- Disse la signora Hudson entrando nella stanza con un elegante vassoio color argento.
Il dottore non aveva neanche udito i passi della vecchia donna risuonare per le scale o lo scricchiolio perenne della serratura malconcia della porta d'ingresso, talmente era assorto in quei felici, ma dolorosi,ricordi.
"Non doveva disturbarsi e venire fin qui sopra, bastava chiamarmi"- Disse il medico, con una evidente premura nella sua voce, voltandosi verso la donna.
"Non si preoccupi di me, la mia anca ancora regge"- Ribatté la signora, posando sul tavolo della cucina il piccolo vassoio con due tazze fumanti e la teiera ancora bollente.-"Cosa sta guardando?"-
"Una vecchia foto"- Rispose l'uomo mostrandole il pezzo di carta. -"Ha per caso sistemato la libreria e trovato questa cartellina?"- Chiese poi John, ancora confuso del dove potessero esser finiti tutti gli articoli di giornale.
"Certo che no, John. Il signor Holmes non mi permetteva neanche di spolverare, figuriamoci curiosare fra le sue cose. Senza il suo consenso non mi sarei mai permessa"- Rispose la donna, leggermente sorpresa da quella domanda.-"Poi io non sono una governante."- Concluse fermamente convinta della sua ultima frase.
Il dottor Watson sorrise a sentire di nuovo quella affermazione, diventata con gli anni una delle frasi d'effetto di quella anziana signora, che puntualmente smentiva sempre con le sue premurose azioni.
"Perché me lo chiede?"- Domandò ancora la signora Hudson.
"Non è entrato nessun altro qui dentro?"- domandò ancora il dottore.
"No, nessuno"- Rispose la donna scuotendo il capo. Sempre più allarmata e confusa da quelle strane domande.-"È successo qualcosa?"
"Ero convito di aver riposto qui dentro dei documenti, evidentemente mi sbagliavo."- Rispose John, convinto dell'esatto contrario di quello che aveva appena detto, ma dopotutto non aveva alcun senso fornire preoccupazioni futili alla signora per qualche vecchio articolo di giornale.
John mise al suo posto la cartellina, tenendo ancora nella sua mano quella foto.
La signora Hudson trasferì il vassoio sul tavolino rotondo non appena il dottore lo liberò, poi si accomodarono entrambi sulle comode poltrone davanti al caminetto spento.
"È davvero bella quella foto, John"- Disse la signora portando alle labbra la tazzina bianca. -"È sempre stata qui, eppure è la prima volta che la vedo"- Continuò poggiando la tazzina sul vassoio.
John annuì, bevendo un sorso del suo tè dopo aver lanciato un ulteriore sguardo alla foto.
Passarono diversi istanti di silenzio in cui la vecchia signora aveva finito quasi metà dell'infuso, guardandosi attorno in quel salotto che le sembrava così incompleto. John, invece, aveva mandato giù solo un sorso della calda bevanda, impiegando la maggior parte del tempo ad osservare quella sbiadita fotografia.
"Oh, era una vita che non vedevo più quel cappello!"-Esclamò la donna, rompendo quel nostalgico silenzio che era calato fra i due.
Il soldato alzò lo sguardo all'istante, come se si fosse ricordato solo in quel momento di qualcosa di estremamente importante: aveva distrattamente poggiato il pezzo di stoffa sul bordo del caminetto, per poter così afferrare la cartellina azzurra dall'alto ripiano, ed evidentemente lo aveva dimenticato lì.
Era impossibile definire con certezza quanto fosse importante per lui quel cappello, qualunque tipo di frase o aggettivo avrebbe sminuito il suo affetto per quel pezzo spesso di stoffa, sgualcito dalle continue strette e pieghe.
"È sempre stato con me"- Affermò l'uomo alzandosi dalla poltrona per poterlo riprendere.
"Come sta, signora Hudson?"- Domandò poi John, guardando gli occhi spenti della donna, rendendosi conto di non averglielo ancora chiesto da quando aveva varcato l'entrata di quella casa.
"Sto bene, dottor Watson, sto bene per quanto possa essermi possibile."- Rispose la donna guardandolo dritto negli occhi.-"E lei, invece, come sta?"-
Il medico trasalì appena a quella banale domanda che lo aveva decisamente colto alla sprovvista.
"I..io..."- Cominciò a balbettare ed a ripetere le stesse sillabe per qualche secondo, come faceva sempre quando le parole tardavano ad uscire fuori.
Come sarebbe dovuto stare dopo la perdita qualcuno di così importante? Solitamente si dovrebbero passare quelle fatidiche cinque fasi - il rifiuto, la rabbia, la ricerca di domande e spiegazioni, la depressione e infine l'accettazione-, e alla fine ognuno cercherebbe di elaborare in maniera diversa quella perdita.
John Watson però era entrato in un circolo vizioso che comprendeva solamente i primi due stadi, la sua mente andava avanti e indietro- fra rabbia e rifiuto- da più di due anni ormai. Non esisteva terapia capace di aiutarlo, nessuno specialista, nessuna medicina, neanche l'alcol riusciva a farlo stare meglio. La droga non era ancora entrata a far parte delle sue prossime opzioni, la paura di dimenticare e il buon senso erano ostacoli troppo grandi da superare, non avrebbe avuto senso friggersi il cervello con quella roba. Non avrebbe mai accettato quella morte, non c'era nulla da rielaborare e mettere in fondo al cassetto degli eventi tragici per poi buttar via la chiave, non poteva, non John Watson. - "Io.. Io sto bene, credo"- Concluse, realizzando quanto neanche lui credesse nelle ultime parole che aveva pronunciato.
La vecchia signora lanciò uno sguardo premuroso l'uomo, che non riuscì a reggerlo per più di qualche secondo.
"John..."- Tentò di dire qualcosa la donna, ma il medico di guerra la interruppe, smettendo di mentire a se stesso, auto convincendosi di qualcosa che non sarebbe più tornato come prima, se non per un miracolo. - "Starò bene, signora Hudson. Forse un giorno tornerò a stare bene, ma ora non lo so, come sto, e sinceramente sono stanco anche di chiedermelo."- Rispose accennando uno stanco e flebile sorriso per rassicurarla.
La signora ricambiò gentilmente il gesto, alzandosi dalla poltrona pronta a tornare al piano inferiore, nel suo piccolo appartamento. - "Io sono giù se le serve qualcosa, ho tante faccende da sbrigare, lei resti pure quanto vuole"- Disse per poi sparire dietro la scricchiolante porta di legno, prima ancora che John potesse ringraziarla per le sue azioni.
Il dottor Watson abbassò lo sguardo sulla foto un'ultima volta, poi la ripose accuratamente nella tasca dei suoi pantaloni blu, alzandosi lentamente dall'impolverata poltrona. Cominciò a camminare per la stanza a piccoli passi, zoppicando goffamente ogni volta che il suo peso veniva momentaneamente distribuito sulla gamba che la sua mente si ostinava ad etichettare come "infortunata".
Senza dare altre attenzioni alla sua salute fisica, John aveva cominciato a muoversi dentro quell'appartamento senza una vera a propria meta, camminava stringendo i denti alla ricerca di qualcosa a lui ignoto, finché le sue gambe non decisero di fermarsi davanti all'ingresso del breve corridoio.
Gli occhi grigi del soldato si posarono sulla porta in legno di fronte a lui, l'unica in tutta la casa gelosamente custodita dal detective e nella quale a nessuno era concesso di entrare.
John ci era entrato in rarissime occasioni - quando aveva dovuto mettere a dormire il corpo drogato del suo coinquilino o quando lo aveva dovuto rialzare dal pavimento perché non aveva ancora smaltito l'effetto dei sedativi-, ma in entrambe il consulente investigativo non possedeva abbastanza lucidità per cacciarlo fuori.
Il dottor Watson si avvicinò alla lastra di legno, appoggiò incerto la mano sul pomello di apertura e lasciò passare interi secondi prima di decidersi ad entrare.
Non appena la porta si aprì l'odore pungente della polvere arrivò soffocante all'olfatto del medico, facendogli storcere il naso per qualche secondo.
Con passi più grandi il soldato si avvicinò all'imponente finestra di fianco al letto, spalancandola con un notevole sforzo, per via dei cardini arrugginiti e cigolanti.
Non vi era nulla di tanto misterioso o pericoloso da meritare tutte le attenzioni che il detective riservava a quella particolare camera, non nascondeva cadaveri sezionati come era usuale trovare nel frigo della cucina, o particolari farmaci o sostanze stupefacenti fondamentali per qualche assurdo esperimento. Eppure -pensò John mentre si guardava attentamente intorno- proprio perché così banale e semplice come una comune camera da letto poteva essere, era quella che rappresentava al meglio il lato umano del consulente investigativo.
Spesso il detective poteva apparire come un uomo cinico, privo di alcuna empatia, insopportabilmente arrogante nel comunicare le sue rapide deduzioni decorate da una spontanea spavalderia e fissando chiunque con quello sguardo di ghiaccio, dal gradino di superiorità che lui stesso aveva eretto per la sua superiore intelligenza.
Persino John doveva trattenersi dal tiragli un pugno in quei momenti, ma alla fine si limitava a riprenderlo richiamandolo bruscamente per nome.
Il dottor Watson rientrava nelle poche persone che avevano avuto il coraggio e l'interesse di andare oltre quelle prime apparenze- addentrandosi nel complesso mondo nascosto dalla la fredda e severa immagine che l'amico mostrava di se-, ma l'unica ad aver avuto il privilegio di poterci restare.
C'era molto di più dietro quel famoso nome, qualcosa che andava oltre l'incredibile e oscura macchina d'intelligenza associata a quelle lettere: una persona, in carne ed ossa, con le proprie debolezze e paure, lecite ad ogni uomo.
In quell'angolo della casa non c'era nulla che avesse a che fare con l'immensa mente sovrumana del detective, quel piccolo spazio era riservato alla sua normalità, a tutto ciò che ancora lo rendeva vulnerabile, per questo doveva rimanere nascosta.
John si perse nei suoi stessi pensieri, smettendo distrattamente di trattenere i suoi occhi dal diventare lucidi, mentre fissavano assorti il blu del copriletto di fronte a se.
Le voci in fondo alla sua testa gli gridavano allarmate di reagire, di cacciare indietro le lacrime e lasciare quella stanza.
Urlavano, sempre più forti, sempre più urgentemente, ma John non le sentiva.
I suoi occhi vitrei non avevano intenzione di muoversi, il suo corpo era stanco di reagire. Si sarebbe lasciato andare lì, in quel momento, avrebbe ceduto alle sue emozioni una volta per tutte, avrebbe ammesso un'ultima volta quella dolorosa verità e poi avrebbe aspettato di ritrovare le forze per andarsene, magari dopo qualche ora, se non fosse stato per la dolce melodia che aveva cominciato a sfiorargli i timpani da qualche secondo.
Il limpido suono di un violino aveva preso posto dei suoi pensieri all'improvviso,
John sbarrò gli occhi ed un brivido cominciò a scorrere lungo la sua spina dorsale, immobilizzandolo dallo stupore: non se lo era inventato quel suono, era reale e dannatamente familiare.
Con un rapido scatto -senza badare minimamente alla sua gamba- il dottor Watson si precipitò fuori dalla stanza, correndo impaziente verso il salone, lì dove la melodia sembrava provenire.
Il breve corridoio sembrava ai suoi occhi speranzosi infinito, il suo cuore batteva all'impazzata da dentro la gabbia toracica e i piedi si muovevano spinti da chissà quale forza.
Finalmente arrivò, dopo brevissimi istanti che gli erano apparsi come interminabili minuti, ma il salone era vuoto. Il soldato percorse a grande falcate lo spazio che lo separava dalla cucina, ma neanche lì trovò nessuno.
La musica aveva smesso di risuonare per l'appartamento da diversi secondi, ormai.
La delusione prese all'istante il sopravvento su di lui, assestandogli un colpo netto allo stomaco, facendogli quasi perdete l'equilibrio. Dopotutto, chi avrebbe pensato di trovarci?
Non esisteva nessuna melodia: stava solo impazzendo.
Con nervosi movimenti, il medico cominciò a muoversi per la stanza, imprecando qualcosa sotto voce e portandosi le mani alla testa. Ad ogni passo che faceva, la sua frustrazione aumentava e la sua sanità mentale diminuiva, mentre l'ira lo corrodeva dall'interno con una lentezza insopportabile.
Con un violento scatto, John tirò un calcio alla poltrona del Detective, proprio con la gamba che lo tormentava da anni.
"UN MIRACOLO TI AVEVO CHIESTO, UNO SOLTANTO."- Gridò, non curante che la signora Hudson potesse sentirlo. -"Uno soltanto"- Ripeté quasi sussurrando.
Alcune lacrime gli avevano bagnato le guance senza che se ne fosse accorto ed altre copiose minacciavano di uscire se non si fosse calmato all'istante.
Il medico si appoggiò al vecchio caminetto, chiuse gli occhi e cominciò a respirare profondamente, cercando di fare appello al suo buon senso per ritrovare quel briciolo di lucidità necessaria per riuscire a lasciare quel posto.
L'aria rarefatta colma di polvere e odore di chiuso non era l'ideale per i suoi polmoni, ma almeno sembrava far rallentare con calma il battito del soldato.
John si sforzò di distogliere la sua attenzione dai troppi pensieri che lo stavano angosciando, concentrandosi sul suo respiro, via via sempre più regolare.
Il suo cuore aveva preso a battere all'unisono con i secondi scanditi dalla lancetta corta dell'orologio appeso proprio sopra la testa dell'uomo;
John li cominciò a contare nella sua mente, uno dopo l'altro, poi di colpo si fermò. Aprì subito gli occhi, alzando lentamente lo sguardo e percorrendo tutta l'assurda fantasia della carta da parati, fin quando non si imbatté nel semplice e lineare orologio qualche metro più in alto.
I suoi lineamenti si piegarono in un espressione confusa: era davvero sicuro che quelle lancette fossero ferme, le aveva osservate nella loro statica posizioni per minuti interi poco tempo prima.
Ripensandoci però, tutte le certezze di cui era convinto sembravano perdere la loro fermezza, come alti e vecchi pilastri che con il trascorrere degli anni cominciavano a perdere la loro stabilità, sgretolandosi in pezzi sempre più grandi fino a crollare del tutto. Non avrebbe avuto alcun senso fidarsi di una mente in balia alla follia, reduce da troppi pensieri angoscianti che l'avevano costretta a rannicchiarsi in un angolino buio, mentre l'irrazionale subconscio avanzava rapido impadronendosi della cosa più importante che potesse avere: la ragione.
Magari quelle lancette non avevano mai smesso di correre, quella soave melodia non era mai stata prodotta dalle corde di un violino e quella cartellina non aveva contenuto altro che quella foto.
Forse se si fosse abbandonato a quella condizione non avrebbe fatto così male, sicuramente non più di quanto la vita reale potesse infliggere ad una mente vigile e cosciente.
"Saresti dovuto essere qui"- la voce del soldato si librò fievolmente per la stanza, come un ultimo sussurro d'addio per quella persona che non avrebbe mai potuto lasciare davvero.
"Tu saresti dovuto rimanere a casa tua, invece"- Ribatté una profonda voce, fin troppo familiare, alle spalle del medico. John Watson si voltò all'istante, con le gambe tremolanti e il viso bianco come un lenzuolo dallo stupore. Gli occhi grigi erano spalancati sulla figura alta e slanciata di fronte a lui, increduli davanti all'assurdità di quella immagine, la stessa che ogni giorno aveva desiderato di rivedere anche solo per un momento. Impeccabile come sempre, con i capelli abilmente disordinati e l'elegante completo nero su misura che fasciava perfettamente la sua snella corporatura, Sherlock Holmes se ne stava lì a pochi metri da lui, e non aveva minimamente l'aspetto di un'anima reduce al passaggio ultraterreno fra il mondo dei vivi o quello dei morti, né di un uomo sepolto sotto quattro metri di terra e legno.
"Ero passato a casa tua, ma non ti ho trovato. Ho impiegato ben cinque minuti a capire dove potevi essere e a precipitarmi qui, con un notevole ritardo sulla mia tabella di marcia"- continuò l'amico curvando le labbra in un lieve sorriso.
Per il detective non aveva fatto alcuna differenza auto convincersi costantemente di quanto John non gli mancasse, dopotutto solo il ripeterselo quotidianamente comportava che quel nome sfiorasse la sua mente, distraendolo per un secondo dai suoi importanti incarichi.
Il medico provò a dire qualcosa, ma dalle sue labbra non uscì nulla, se non vani tentativi sfociati in biascicate sillabe.
Gli occhi azzurri del detective si fissarono in quelli dell'uomo di fronte a lui, aspettando una risposta: anche una singola parola sarebbe bastata a far diminuire la preoccupazione abilmente celata da quello sguardo sicuro.
Dopotutto aveva inscenato la sua morte, lasciando il suo migliore amico annegare nel dolore per quella scomparsa che ancora non era riuscito a metabolizzare, poi era improvvisamente ricomparso, con le sue entrate di scena che tanto amava e le sua ironia mirata a sdrammatizzare quella scomoda situazione: se John non gli avesse tirato un pugno in faccia, l'avrebbe fatto metaforicamente il suo subconscio.
Il soldato prese un respiro profondo, stringendo le mani tremolanti in pugni lungo i fianchi. -"Due anni"- furono le uniche parole che riuscì a dire.
Sherlock Holmes abbassò lo sguardo verso il basso, colpevole, ma poi tornò subito a puntare i suoi occhi chiari come il ghiaccio sul volto dell'amico.
"Io ho dovuto farlo..."- Cercò di giustificarsi ma il medico non lo lasciò finire.
"Due anni, Sherlock."- Ripeté John.-"Neanche un messaggio, un indizio per assicurarmi che tu stessi bene, vivo e vegeto e non sotto quattro metri di terra rinchiuso in una bara claustrofobica persino per un cadavere."- Continuò senza staccare lo sguardo intriso di rabbia e delusione dal consulente investigativo.
Il detective sopportò quegli occhi grigi su di lui, sebbene fossero affilati come coltelli, senza battere ciglio. Aveva ragione, John Watson, come la maggior parte delle volte che lo aveva rimproverato, ma quella volta Sherlock non alzò lo sguardo al cielo scocciato, né lo ignorò interrompendolo con una frase totalmente fuori dal contesto. Quella volta, forse l'unica in tutta la sua vita, il detective si sentiva tremendamente colpevole e senza la minima intenzione di trovare futili scuse.
"Perché non lo hai fatto?"- Domandò, infine, quasi sussurrando.
"Non lo so, non so perché non te l'ho detto. Dovevo concludere il caso una volta per tutte, avevo bisogno di rimanere nell'ombra"- la voce del detective era ferma e impassibile, ostinata a camuffare il reale rammarico dell'uomo.
"E di quello di cui avevo bisogno io, Sherlock? Non te lo sei mai chiesto in tutti questi anni?"- Ribatté John alzando la voce.
Un guizzo di sorpresa passò momentaneamente nello sguardo dell'amico, che rimase fisso ad osservarlo.
"Dovevi uscirne illeso da tutta il caso di Moriarty, non potevo continuare a rischiare..."- Tentò di rispondere il detective, ma il medico lo interruppe un'altra volta.
"Illeso? Davvero credi che la tua morte mi abbia fatto meno male di una pallottola? Avevo bisogno di te, Sherlock."- Ammise John guardandolo fisso, con lo sguardo colmo di delusione e tristezza.
Sherlock Holmes sbarrò gli occhi evidentemente sorpreso, senza dire o fare nulla, incapace di muoversi.
Il dottor Watson attese qualche istante, poi, senza aver avuto alcuna risposta, varco a grandi falcate la stanza, superando velocemente il detective ancora immobile.
Il consulente investigativo si obbligò a reagire non appena John gli passò oltre senza neanche rivolgergli uno sguardo.
John si sentì frenare da una salda presa sul suo polso, che in pochi secondi lo costrinse a girarsi.
"Non potevo perderti di nuovo. Ho corso quel rischio troppe volte"- Esordì Sherlock Holmes guardandolo dritto negli occhi, senza sforzarsi minimamente di nascondere le emozioni che tanto temeva.
"Mi dispiace, John. Mi dispiace davvero."- Concluse stringendo la presa sul suo braccio.
Il dottor Watson ricambiò lo sguardo senza alcuna espressione in volto, trattenendosi dal sorridere a quella affermazione. Non lo aveva ancora perdonato, ma per la prima volta, dopo anni, la ragione era riuscita a sovrastare l'irrazionalità: non riusciva ad avercela con lui, non dopo tutti quei giorni passati a rimpiangere i loro sguardi e quella costante e fastidiosa presenza a fianco a lui di cui non poteva fare a meno.
John alzò sulle punte dei piedi per poterlo stringere in un saldo e urgente abbraccio, che ovviamente - anche se un po' spiazzato- , Sherlock ricambiò all'istante.
"Non farlo mai più"- disse infine John Watson .-"Non lasciarmi più ."- Sherlock Holmes sorrise, ancora stretto in quell'abbraccio che entrambi avevano necessitato da troppo tempo.
L'orologio aveva ripreso ad inseguire l'astratta corsa del tempo, e non importava quanto ne sarebbe passato prima che si fosse fermato nuovamente : nulla avrebbe ostacolato ancora quella inusuale coppia dall'amarsi.(...)
Buonsalve, mio prodigo lettore che sei riuscito ad arrivare fin qui!
Innanzitutto vorrei ringraziarti per aver letto la mia os, spero ti sia piaciuta e sarei davvero grata se mi lasciassi un commento.
Premetto che è la prima storia che pubblico e di cui sono davvero tanto orgogliosa poiché la Johnlock è la mia OTP per eccellenza.
Ancora grazie e alla prossima pubblicazione!E.J
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Could you make it on your own? || Johnlock OS
Hayran Kurgu"(...)There's just one more thing, one more thing, one more miracle, Sherlock, for me." Il tempo trascorre, è una costante che perseguita il nostro cammino verso l'oblio. Ogni secondo che passa ci ricorda che la cosa più preziosa di cui d...