Botanica Criminale

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É il XIX secolo.

Le piante, con i loro principi attivi, aiutano i malati in difficoltà. Il progresso le investe di sempre nuove speranze, non c'è medico che non ne curi una con dedizione. In un piccolo anfratto di Londra, circondato dal più oscuro puzzo di olio e ingranaggi, demiurghi mancati si dilettano nel creare armi con dette speranze, e io non stavo aspettando altri se non il migliore di loro.

É il 1878 quando un uomo realizza il mio desiderio di grandezza, mi fa scoprire di cosa sono capace mentre osservo i flebili occhi azzurri di Karen irrigidirsi. Una parte di me le sta attraversando le viscere, intacca il suo sistema nervoso. Dopo un'ora vedo i muscoli del suo esile corpo contorcersi, il suo viso contrarsi e allontanare per sempre il suo corrotto candore. Quando cade sulle ginocchia sporca la sua camicia da notte con la polvere del monolocale che mai s'era azzardata a pulire. Sono la morte che coglie il suo seme per donarle una fioritura eterea, relegata a ricordi di gente che l'ha amata solo per finta; non come sono amata io. Qualcuno ci osserva dalla finestra e sorride per la tragedia in atto, mentre liscia gli enormi baffi con cui incupisce il suo viso. Spero sia fiero di me, spero che sotto il suo enorme cappotto nero conservi uno spazio per quell'amore che vorrei provassimo l'uno per l'altra; un amore che non nasce nella banalità del sesso ma dal condividere un medesimo desiderio di grandezza.

Il mio mentore si prende cura di me, mi riserva moltissime attenzioni. Da quando abbiamo ammazzato Karen ha cominciato a considerarmi diversamente: ora sono un'arma, una risorsa utile per portare a termine i suoi lavori. Non mi sono mai sentita tanto amata. Nel suo studio sono il suo trofeo, poggiata sul tavolo da lavoro insieme agli attrezzi con cui mi accudisce. Non abbiamo molti soldi, i nostri sono incarichi di scarsa richiesta, ma il dottore trova sempre i modi per tenermi fresca. Da qualche tempo ha cominciato a raccontarmi una storia mentre taglia i miei fiori e prepara il bollitore per concepire la mia essenza, la stricnina.

«Sai, tanto tempo fa esisteva un'avvelenatrice straordinaria» nel pronunciare queste parole le sue iridi marroni si illuminano, le sue enormi mani sporche di terra cominciano a tremare e sul suo calvo viso appare l'accenno di un'estasi segreta, di una magia tenuta all'oscuro perché nessuno avrebbe capito, nessuno tranne me, il suo strumento, il suo scopo. Scuote la testa, torna alla realtà dopo la fuga nell'euforia e prosegue: «si chiamava Locusta e nel primo secolo serviva Agrippina, la madre di Nerone. Fu lei a darle l'incarico più ambito da qualunque assassino, avvelenatore o mercenario che fosse: uccidere un imperatore. Claudio ha le ore contate mentre Locusta prepara la miscela del suo veleno mortale; pensa che ancora oggi nessuno sa cosa avesse preparato. Magari c'eri anche tu, lì in mezzo» ride fragoroso, il mio mentore inebriato dalla follia, tanto da irradiare l'angusto studio di una luce magnifica.

«Ho conosciuto una donna, ho deciso che sarà la prossima. Vedrai, mio dolce fiore, ti piacerà; assomiglia tanto al nostro primo amore, alla prima vittima della nostra passione». Mentre taglia via dal mio corpo uno dei miei frutti mi fa male, ma sono talmente piena della sua euforia che stento a trattenermi. É possibile mi stia sentendo amata? É possibile che riesca davvero a sentire del 'mio' in ogni momento apostrofato come 'nostro'? Domande che trovano risposta solo quando vedo Kate e la riconosco per quel che é: carne per nutrire il perverso mostro della nostra passione.

«La scongiuro, dottor Cream, deve aiutarmi! Questo bambino non deve nascere, non potrei più lavorare se dovessi occuparmi di lui» e in un attimo la sua bellezza diventa la maschera perfetta per quell'umanità che entrambi percepiamo solo esteticamente. Si agita sul lettino sporco del sangue illuminato da una lampadina, quasi come fosse un oggetto in mostra in un museo.

«Non preoccuparti, fiore mio» le risponde il mio mentore, «non piangere, io sono qui per te».

Poi con il dito comincia a sfiorare i ricami del suo corpetto tracciando una linea che arriva fino al suo viso, accarezzandoglielo. Le passa una mano fra i capelli e cattura sul nascere la paura di quegli occhi castani imbrattati dal trucco: Kate è già morta nello sguardo del suo salvatore. Tutto diventa poi facile: il mio mentore offre una dosa di stricnina alla paziente, spacciandola per un sedativo. Lei la beve perché si fida del suo dottore; l'atto ha inizio nell'orgia delle grida strozzate. L'orologio scocca la mezzanotte e ormai è tardi per dimenarsi: il suo viso si rasserena, il suo cuore trova la pace.

Nel 1880 ci trasferiamo a Chicago, dove continuiamo a offrire aborti illegali alle disperate prostitute che bussano alla nostra porta. Il nostro nuovo studio è angusto ma ben illuminato, quasi non ci dispiace chiamarlo 'casa'. Fra le strade divampano urla e rumori metallici, l'olio degli ingranaggi è stato sostituito al fetore del piscio e degli ormoni di chi non dorme. Le luci rosse infestano il quartiere e i suoi costumi ed è in una di queste che il mio mentore trova la sua condanna. Katherine è stato il seme della discordia, l'amore per lei è stato quel vizio che Thomas non avrebbe dovuto concedersi, la falsa ambizione di ritenere che ci sia pace per il maligno: la causa della donna è stata la nostra rovina. Uccidere suo marito doveva essere semplice, gratificante: l'amore che plasma la mano e la fortuna quando ti concedi di fare ciò che ami per chi ami è scevro dalle conseguenze perché inebriato dal concepimento dell'azione. Nel Luglio dello stesso anno, il mio mentore viene accusato per l'omicidio di Daniel Stogg perché la devota moglie Katherine aveva provveduto ad addossargli tutte le colpe, decretando la reclusione del mio protettore in cambio della totalità dell'eredità lasciata dal marito.

Passano undici anni prima che il mio mentore possa tornare a sfiorarmi, ma ormai è troppo tardi: ciò che percepisco non sono più le sue mani delicate che mi sfiorano e ciò che rimane della mia immaginata umanità è ormai una flebile fantasia nella mente del mio creatore. Il dottore non ha mai lasciato la prigione, qualcosa lo trattiene e sembra desiderare il suo ritorno. È più avventato, più sconsiderato e il 10 Ottobre 1892 sfrutta l'alcolismo di Matilda Clover contro di lei: le offre un drink e in un'effusione fin troppo sentimentale diluisce nel bicchiere parte della mia anima, rimasugli di quella stricnina che ancora gelosamente conservava nel suo cappotto. Nella sua testa malata, questo atto ha il dolce sapore di una benedizione, di una pace disegnata con i colori delle loro reciproche dipendenze, un valzer le cui note sono alcool e sangue. Le autorità non ci mettono molto a rintracciare il colpevole e nel 15 Novembre 1892 il mio mentore trova la sua fine. La piazza è davanti a lui, scalpita e strilla bramando l'asfissia di quel mostro di cui segretamente nutrono la paura di incrociarne lo sguardo; d'un tratto, quello in cui il silenzio e l'attesa sono d'oro, Thomas Cream pronuncia le sue ultime parole: <<io sono Jack lo squartatore>>.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Feb 17, 2016 ⏰

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