Guardò in alto. Non v'era altro che una malsana copia di un terso cielo, lungo la bolla che ricopriva quel luogo. Le nuvole erano come in un dipinto, falsate da un bianco troppo surreale. Nemmeno si muoveva, lo schermo piatto, come privo d'aria, come in un teatro a fare da sfondo a una scena. La Stanza numero sette, la Nuova Italia, dove Tithas passeggiava tranquillo, con le mani nelle tasche dei laceri calzoni scuri. Il rumore, il caos, era il fondale su cui si basava quel luogo; come nelle vecchie storie, quando si raccontava dell'esistenza di un mondo in superficie, dove l'Italia era il ritrovo dei cafoni e dei casinisti. Dei fautori del Caos più totale. Doveva dare l'impressione di essere una bella copia di quella nazione così ricolma di architetture, di monumenti, di arte allo stato puro. Come nessun altro paese al mondo. Tithas non aveva mai veduto l'Abisso con i propri occhi, seppur avesse un'età già ragguardevole, cui poteva attribuirsi un uomo segnato da mille fatiche, da mille esperienze. Non un vecchio ma qualcuno all'apice della metà della sua speranza vitale. Quarantaquattro erano i suoi anni, molte di meno le sue ambizioni, i suoi spunti; le sue aspettative. Un gilet nero, sopra una camicia a balze bianca, con una cravatta sempre scura; i pantaloni dello stesso colore, abbinati, assieme a delle scarpe lucide delle medesime tonalità, bordate da un oro opaco sui lati, col metallo sui talloni. I capelli scarmigliati, ormai tendenti al grigio con qualche striatura bionda; una barba ispida, folta, a fare da cerchio alla bocca, con alla cima del mento un appuntito raccolto caratteristico e sobbalzante a ogni suo passo. Perle incavate, invece, i suoi occhi celesti; sembravano immersi in qualche sostanza ripiena di buio pesto, glifati da barlumi oscuri e arcaici.
Con la venuta di una nuova Era, denominata l'Era dell'Abisso, per l'appunto, s'erano create nuove movenze, nuove schiere di folli e avidi governatori, ciascuno volente qualcosa di improprio: la libertà altrui. Venduta come denaro, essa aveva riportato agli antichi fasti lo schiavismo, oltre che la Santa Inquisizione, riepilogata e dispensata dalla Chiesa come in passato, con crudeli appropinquamenti esagerati lungo l'oblio delle paure dei dissidenti e dei poveri che, sfortunatamente, non avevano più nulla in cui credere. Tutto ciò aveva scisso il Continente in due parti, ideologicamente: chi credeva fermamente in un Dio misericordioso - poiché in altro non poteva credere - che l'avrebbe portato distante da quel mondo impuro e cieco e chi, invece, aveva perso le speranze ch'esistesse qualcosa di onnipotente e sempre sovrano, rifugiandosi nel contrabbandire e nel ribellarsi al sistema, affinché potesse crearsi da solo una piccola luce speranzosa in fondo a un tunnel lugubre e oscuro.
Il Clero non aveva pietà. Non si preoccupava di chi avesse realmente bisogno, di chi dovesse lavorare per vivere e non per concedersi - come tanti altri - agli sfarzi di una vita costruita su quelle altrui. Mostrava la sua saggia propensione alla costante punizione di chi, onestamente, tentava di creare un incerto futuro per i propri cari. Chi era considerato un eretico, venivano diseredato, torturato e infine ucciso. Nemmeno una lapide avrebbe meritato: solamente, sarebbe stato punito per aver cercato, invano, di regalarsi ciò che tutti, in quell'era, anelavano: la Libertà.Così proseguì per la via principale, "Via Roma", con lo sguardo alto. Vide un accalcarsi di gente intorno a quello che appariva come un Alto Prelato, che rifuggì appena potè trattenendosi dal guardarlo con occhi acutamente sufficienti. Svoltò in un viottolo stretto, perfettamente squadrato ma claustrofobico, con delle finestre alte e pochi portoni d'ingresso. Avanzò, sicuro, cambiando via di tanto in tanto, entrando poi in una bottega antiquata. Superò l'atrio principale, catapultandosi nel retro, di fretta. Si fermò sulla soglia dell'anticamera, osservando un uomo alto e magro che maneggiava un aggeggio sopra un ragazzino. Il bimbo era immobile, con occhi sognanti. L'uomo aveva capelli lunghi fino alle spalle, opachi e marroni. Il suo sguardo vispo e squadrato era contrassegnato da due cicatrici sulla guancia sinistra. Era nella sua solita camicia bianca sancrata, con una cravattina nera al collo. Non diede attenzione a Tithas, finché non venne interrotto.
<Sempre a manovrare le menti dei bimbi eh? Guai toccassi il mio, Billy...> Affermò.
<Nah, non manovro nulla. Insegno loro a sognare e, tu, soprattutto tu, dovresti saperlo bene.>
<Vabbè, lasciamo perdere. Ho bisogno di un favore. Gratis.>
<Non lavoro gratis, Tit. Tutti hanno i loro problemi e...><E' vitale, Billy. E' un sogno ricorrente. Ogni notte inizia e finisce allo stesso orario, prima che il sole sorga. Nemmeno prendendo il controllo riesco a fermarne l'avanzata. E' come...un messaggio. Sai che non sono superstizioso ma...ho paura. Mi ha detto una frase che mi è rimasta impressa come un marchio a fuoco. Lo vedrai tu stesso se ti permetterò di studiare meglio il mio incubo. Sai quanti cazzo di favori ti ho fatto, no? Non fare storie, dai!> Esclamò, già guardando altrove ed esprimendosi con espressioni d'insicurezza e impotenza.
Billy lo guardò meglio, lasciando il bimbo nel suo maelstrom onirico. Scosse il capo, sospirando.<Non cambi mai eh? Credi che tutto ti sia dovuto.>
Tithas gli rivolse uno sguardo rassegnato, ammiccando e facendogli un occhiolino fra lo scherzoso e il sarcastico.
<Va bene, ci darò un'occhiata. Ma aspetta il tuo momento.>
Il quarantaquattrenne annuì.Assiso s'una seggiola storta e dondolante, rimuginava su ciò che il sogno poteva voler dire. Nell'intramezzo che lo divideva dall'operazione all'incubo, aveva avuto modo di pensare anche a cose a cui solitamente non dava molta importanza, forse perché troppo preso dal lavoro e dalla famiglia e dai problemi; da bambino voleva divenire un abissonauta, viaggiare nelle acque più torbidamente oscure e irrequiete, affrontando mostri marini come il Capitano Achab durante la sua ricerca della balena somma. Sorrideva mentre ci ripensava, involontariamente, attratto inevitabilmente dalla sua fantasia vorace, che evolveva ogni immagine di lui in talune gloriose a capo di sottomarini o di navette da caccia.
Gli uomini di governo e di chiesa puntavano a rendere gli uomini poco liberi, indaffarati per le attività che contavano per il loro guadagnare continuo e smanioso, così che non potessero pensare ad altro. Poca libertà data non creava necessario malcontento per una rivolta e, inoltre, non lo rendeva utilitaristico. Perdere soldi e tempo per una famiglia povera o di medio reddito significava morire di fame. La situazione era già di per sè complessa, non c'era alcun bisogno di renderla ancora più invivibile.
In ogni caso, Tithas sognava ancora, in un'altra vita forse, di andare all'avventura. Il mondo in superficie era considerato inaccessibile, causa le radiazioni che lo contraddistinguevano, dunque era possibile solo affrontare i remoti abissi del mondo, ove l'uomo non si era spinto per paura di trovarvi qualcosa di inaffrontabile. I suoi pensieri vennero interrotti da una voce:<E' il tuo turno Tit!> Si volse in sua direzione, accennando ad annuire, levandosi e seguendolo nel retro. Si sedette laddove Billy gli fece segno e, prima di cominciare gli disse:<Grazie davvero amico. Sono in debito con te.>
Billy, ridente, sbuffò, tirandosi indietro i capelli lunghi:<Fosse il primo...Sappi che è l'ultima volta che ti regalo un servizio che mi porta da mangiare. I tempi sono quelli che sono, vecchio. Anche la generosità passa di moda, se la porta via il vento della discordia.> Tithas si soffermò su questa frase, analizzandola il più possibile, finché tutto si offuscò e cadde in uno strano sonno.
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I Folli Salvatori
FantasyRomanzo Fantasy dalle tinte dark che tratta di un uomo che perde tutto e, come ultima spiaggia, opta per unirsi alla causa di un gruppo di criminali. Ottima idea? Chissà...