Déjà-vu

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Ci siamo. È arrivato il momento. Prendo un grosso respiro e poggio la mano sulla maniglia, aprendo la porta. Tutti si girano a fissarmi. Sorrido timidamente, cercando con gli occhi un posto libero per sedermi. Ne individuo uno all'ultimo banco a destra, vicino alla finestra. Mentre cammino, gli sguardi dei miei nuovi compagni di classe sono ancora puntati su di me.
Comincio a chiedermi il motivo di tutta questa attenzione. Ho forse una macchia di dentifricio azzurra al lato della bocca? Oppure ho i residui della colazione incastrati fra i denti? Formulo le varie ipotesi, alcune possibili, altre ai limiti dell'assurdo. Decido che probabilmente non sono abituati a vedere una ragazza vestita senza seguire la moda attuale. Indosso infatti un paio di jeans e una felpa blu, larghi e comodi. Sotto ho un paio di converse bianche, mentre il mio viso è circondato da una criniera di capelli castani scompigliati ed i miei occhi contornati da occhiaie. A tracolla porto una borsa azzurra riempita di scritte e simboli con gli uniposca, trasandata e ormai vecchia, che mi rimbalza ad ogni passo sul fianco. Nella mia mano destra c'è la causa delle mie borse violacee sotto agli occhi: un romanzo di narrativa. Ieri sera, nonostante sapessi che oggi sarebbe stato il mio primo giorno nella nuova scuola, ero rimasta a leggere fino a tardi, non riuscendo a smettere. Ero andata a dormire alle quattro passate, quando i miei genitori, svegli a causa della mia piccola luce usata per leggere, erano venuti a prendermi il libro, portandoselo in camera loro.
Avanzo fino al mio banco, accompagnata dal pesante tonfo delle cose nella mia tracolla. Mi siedo e, visto che non c'è nessuno interessato a iniziare una conversazione con me, apro il mio racconto, continuando la lettura. Poggio le mie cose sull'altra parte del tavolo, che è vuota.
Non riesco ad immedesimarmi nella storia, come è mio solito fare, perché la mia mente sta riflettendo su altro. Da un po' di tempo, fantasticavo sulla mia futura classe delle superiori, con cui avrei condiviso ben cinque anni della mia vita scolastica. Avevo sperato di trovare amici veri, che magari condividessero le mie stesse passioni, quali leggere e scrivere, o che semplicemente mi apprezzassero e che mi appoggiassero in tutto così come avrei fatto io con loro. Le mie speranze se ne erano andate nel momento stesso in cui ero entrata in classe. Avevo notato immediatemente ragazze truccate come dei clown e vestite, o meglio svestite, con abiti succinti, e i ragazzi che le andavano dietro. Tutti sembravano fotocopie l'uno dell'altro: stesse scarpe, stessi vestiti, stesse pettinature. Di diverso avevano solo i colori. Mi ero sentita subito triste ma avevo sorriso, cercando di fare buon viso a cattivo gioco. Possibile che nessuno, al giorno d'oggi, sappia apprezzare l'originalità? No, oramai se non ti vesti e non ti comporti in un certo modo sei etichettato come lo sfigato o come lo strano, oppure come entrambi. In questo modo, si sono uniformati i gusti, sia in fatto di vestiti, che di musica, ma a dire al vero di un po' tutto. Ho deciso che non cambierò per farmi accettare: sono diversa e a me piace così. Se mi distinguo ed ho gusti definiti "particolari", vuol dire che riesco a pensare con la mia testolina, e non seguo la massa, cosa che può andare solo che a mio vantaggio.
Questi pensieri vagano liberi dentro di me e già da un po' ho rinunciato a leggere. Guardo il paesaggio fuori dalla finestra: in basso c'è una strada costeggiata da macchine posteggiate ai lati, e da alcuni alberi, coperti di foglie rosse,simbolo dell'avvicinarsi dell'autunno; sopra questi si ergono alti edifici con mura dai colori monotoni dalle sfumature che vanno dal grigio al bianco.
Dopo altri cinque minuti, entra una professoressa. Più tardi scopro che è la mia nuova insegnante di italiano. Fa l'appello e subito dopo una breve presentazione di tutti, inizia a parlarci del programma e di ciò che pretende da noi. Mi distraggo subito, troppo impagnata a rimuginare sulle mie precendenti riflessioni. Poco dopo, sento la mia prof: "Cavalieri, sei in ritardo". Al suono del mio nome, sobbalzo sulla sedia e guardo la docente: "Scusi?"
Lei ripete ancora: "Sei in ritardo".
Allora, rispondo confusa: "Ma se sono qui, in classe..." Piano piano l'immagine della mia professoressa e della mia classe diventa sfocata e sparisce, sostituita dal volto di mia madre che mi parla: "Stellina mia, devo usare le cattive o ti svegli? Sono le sette e venti, sei in ritardo. Oggi è il primo giorno di scuola, vuoi forse fare tardi?"
Ancora intontita dal sonno e dal sogno, le do il buongiorno e vado in cucina, pronta a fare una veloce colazione. Lì c'è mio padre, che saluto con un bacio sulla guancia. Inizio a bere il mio latte al cioccolato e subito dopo mi dirigo verso il bagno per lavarmi i denti e la faccia. Ritorno in camera e mi vesto. Poi controllo di non essere sporca di dentifricio, così prendo la mia borsa e, salutati i miei, esco di casa. Corro verso la fermata dell'autobus e, dopo circa mezz'ora, arrivo a scuola. Sapendo già qual era la mia sezione, perché avevo visto l'elenco delle classi sul sito dell'istituto, chiedo ai bidelli dove sia la mia aula. Molto gentilmente mi indicano delle scale, dicendomi: "secondo piano". Con un po' di difficoltà, giungo davanti alla mia classe e provo un senso di déjà-vu. Leggo il cartello fissato con il nastro adesivo: "ID". Apro la porta e tutti mi fissano. La scena è identica al mio sogno. Non molto sorpresa, avanzo verso il banco in fondo, vicino alla finestra. Ma, mentre mi perdo nei pensieri sul mio strano sogno premonitore, entra una ragazza. Tutti gli occhi sono puntati verso di lei, così, curiosa, la osservo: è vestita anche lei come me, con una felpa larga ma rossa, i suoi capelli biondi sono legati in una cipolla disordinata, inoltre ha uno zaino nero decorato con pennarelli di tanti colori diversi. Ciò che mi colpisce di più della ragazza è il fatto che in una mano tiene un libro, che da lontano sembra quello che sto leggendo anch'io. Vorrei conoscerla. Lei scruta la stanza e nota il posto libero accanto al mio. Mi viene incontro, così sposto la mia roba. Quando si siede, si presenta: "Ciao! Mi chiamo Francesca, tu invece?" Ha un modo di fare che mi coinvolge: il suo tono è allegro e mi sorride, non solo con la bocca, ma anche con gli occhi, che le brillano.
Dopo pochi secondi le rispondo:" Ciao a te! Sono Sofia." Cominciamo a parlare dei nostri interessi e delle nostre passioni, quando scopro che lei, come me, ama i romanzi e che il libro che prima avevo notato da lontano, è proprio quello che sto leggendo anch'io. Come avevo intuito, Francesca non segue le mode, ma si comporta, si veste e sceglie le sue cose, secondo i suoi gusti personali.

Ormai credo che io e Francesca diventeremo grandi amiche.
Spero sinceramente che nessuna di noi due cambierà a causa dei giudizi della gente. Siamo originali, e dobbiamo andarne fiere.

Note dell'autrice:

Vorrei dedicare questa storia a solocioccolataelibri, la mia Parabatai e revisionatrice, che mi ha aiutata a controllare ed a correggere gli errori presenti.

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