Prologo

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La situazione mi era sfuggita di mano. 

L'ammasso inerme che vedete disteso sul letto, con il volto spalmato contro il cuscino, le gambe avvolte nel piumone come il tacchino del Ringraziamento nel tetrapak, be', sono io. 

Ero sempre stata un bradipo. Niente sport, primatista di salto in lungo sul divano, tessera della palestra in bella mostra nel portafoglio. Insomma, campionessa mondiale dell'ozio. 

Ma da ben due settimane, non che tenessi il conto, da bradipo ero diventata una larva. 

Una larva che strisciava per amore. 

Sì, la situazione mi era notevolmente sfuggita di mano. 

All'inizio pensavo che i colpi che sentivo martellare nella mia testa fossero le proteste del mio cervello. Si avvicinavano molto a un concerto hard rock degli AC/DC.Appena cercai di aprire gli occhi, una fitta allucinante mi obbligò a chiuderli di nuovo. Ricordavo ben poco della sera prima, solo un karaoke, io che cantavo a squarciagola una canzone di Vasco Rossi e un biondino, neanche tanto carino, che mi alitava sul viso. 

Poi il nulla. Non ricordavo più niente. 

Molto bene, Caputi! 

Schiacciai di nuovo la testa sotto il cuscino, con un gemito. 

Questa non ero io. 

Ero precisa, la regina dell'ordine e della ragione, maniacalecome un consumato serial killer. 

La mia vita era apparentemente perfetta. Sveglia puntata alle sette, rassegna stampa dei miei social network,ispezione di Whatsapp e del suo profilo, pronta a leggere la sentenza di quattro parole: ultimo accesso alle ore.Mi sarei alzata e, dal bagno fino alla fermata della metro sotto casa, mi sarei chiesta con chi fosse stato online dopo avermi dato la buonanotte. Mi sarei presentata al lavoro pimpante e innamorata, mentre dentro mi rodevo dai dubbi e dalla gelosia. 

Ma da fidanzata in quel di Londra, mi ero ritrovata tradita,single e in Italia. 

Da qualche parte della casa mi arrivò lo squillo del cellulare. 

Spinsi via le lenzuola con un lamento e molto lentamente mi alzai. Avevo la gola riarsa come il deserto e il bisogno impellente di andare in bagno. Almeno gli shot della sera prima mi avevano stordito ed ero crollata a letto senza avere il tempo e la lucidità di rivivere in slow motion le ultime settimane, evitando di addormentarmi in posizione fetale e annientata dal dolore. 

Sì, le cose mi erano sfuggite di mano da quel 23 dicembre,l'antivigilia di Natale agli arrivi del Marco Polo di Venezia. Ero riuscita a far stare sei mesi di vita in due valigie e una borsa, e avevo attraversato i controlli doganali di corsa, aspettando di trovarmi lui agli arrivi a braccia aperte. 

Non chiedevo una dichiarazione d'amore su uno striscione,un sit-in di benvenuto con tanto di palloncino a forma di cuore. 

Mi sarebbe bastato lui. Come era sempre stato. 

Invece l'innominabile barra stronzo non si era presentato col viso travolto dalla felicità. Mi trovai davanti mio padre, con la faccia mortificata che si fissava le punte lucide delle sue Clarks e la sua Panda 4x4 parcheggiata in zona carico/scarico. 

Il cellulare trillò ancora, insistentemente, strappandomi da quei ricordi dolorosi e vivi. 

«Ho capito!» bofonchiai. Avevo la bocca impastata e l'alito così pesante da poter stendere qualcuno. Mi passai le mani tra i capelli ma si bloccarono nel groviglio di nodi che erano. Potevo vedere il mascara colato sotto gli occhi e la matita nera sbavata. 

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