Prologo

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Questa mattina sono raggiante come il clima che costringe la gente ad affannarsi per ripararsi sotto i balconi

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Questa mattina sono raggiante come il clima che costringe la gente ad affannarsi per ripararsi sotto i balconi. L’acqua picchia forte sull’ombrello, sembra quasi che qualcuno stia provando a forarlo con delle gigantesche pallottole; lo lancio via perché mi è d’intralcio e mi fermo accanto a estranei che attendono scampi il temporale, gridando loro di cercare copertura.

Queste persone sono semplici giocatori, per me.

Se l’acqua riuscisse a colpirmi potrei rischiare di morire.
Fine dei giochi.
Oggi posso dire con orgoglio di non aver mai perso.

Di ritorno al bar, lascio gli scarponi davanti alla porta e mi precipito tra le braccia del nonno non appena lo vedo sbucare da dietro al bancone.
Lui mi solleva da terra e fa un giro su se stesso. Il fattaccio succede adesso, pochi secondi non basteranno a rimediare. Con le braccia lotto per non far cadere nulla ed è in questo istante che perdo il gioco.

I soldi che ho rubato agli altri giocatori scivolano via dalla tasca.

Nonno raccoglie il mio bottino con un lieve sospiro. Incrocio le braccia in attesa dei suoi rimproveri.
Non accade niente.
Nessuno sguardo di disapprovazione né delusione. Immagino sia troppo stanco per stare dietro alle mie sciocchezze.

«Vieni con me, dobbiamo parlare.»

In silenzio, lo seguo vicino al tavolo. È il nostro preferito senza alcuna ragione. Almeno per me. Nonno una volta si è lasciato sfuggire che in questo punto del locale riesce a tenere ogni cosa sotto controllo. Non ho mai capito di cosa parlasse.

«Tutto bene a scuola?» domanda arruffandomi i capelli.

Ridacchio e scaccio le sue mani, felice di vedere una parvenza di buonumore nei suoi occhi tristi. «E dai, nonno! Sì, tutto bene. Ho una cosa per te!»

Prendo il mio zainetto e tiro fuori il disegno che ho fatto. Non so cosa abbia, ma il nonno sembra molto giù di morale. Spero con tutto il cuore che il mio regalo basti a fargli ritornare il sorriso.

«Guarda!»

Siamo noi, seduti davanti a questo tavolo, a chiacchierare.

«Hai disegnato quello che facciamo sempre quando torni da scuola.» La sua voce è tremula, malinconica, però all’inizio non ci faccio davvero caso. Voglio solo ricevere dei complimenti per l’impegno.

«Sì! Sai che, quando sarò grande, questo bar sarà mio? Vero?»

Il foglio comincia a tremare e con questo anche le sue mani. Qualcosa non va. Non ho idea del perché stia piangendo, per dargli conforto gli accarezzo il viso. Il mio affetto non serve a placare il suo pianto silenzioso. È devastato e ho appena appreso di non avere alcun potere per farlo sentire meglio. Non ho mai visto il suo viso così bagnato di lacrime e mi sento impotente.

«Ascoltami, Madison» dice prendendomi una mano e stringendola forte tra le sue.

«Non voglio prenderti in giro né addolcire la pillola, quindi sarò diretto.» Fa un piccolo sospiro, ma alle orecchie suona come un forte acuto emesso dal vento. «Non ce la faccio con le spese. Questo bar sarà presto gestito da qualcun altro. Non sarà più nostro, capisci?»

Scuoto la testa. «Cosa stai dicendo?»

«Mi hai sentito. Non farmelo ripetere, ti prego.»

Non può farmi questo, non è giusto. Sembra si sia già arreso all’idea senza nemmeno provare a lottare. Il bar è il nostro rifugio. È l’unica cosa che abbiamo. Qui c’è la sua anima, la mia infanzia.

Le lacrime mi rigano le guance e scivolano lungo il mento mentre prendo il portacolori.

«Cosa fai, piccola?»

Non gli rispondo e inizio a incidere il nostro tavolo graffiando il legno. Schiaccio la punta della penna con tutta la forza che ho, diventando rossa per la fatica. Una volta finito, gli ordino di leggere ad alta voce ciò che ho messo per iscritto con tanta determinazione.

«Questo bar è di Madison e nonno.» Mi abbraccia forte. «Ti voglio bene.»

Lo stringo ancora di più. «Comprerò questo bar, te lo prometto. Ti voglio bene anch’io.»

E invece ce l’ha fatta.
Nonno ha tenuto duro fino alla fine, non ha mai preso in considerazione l’idea di mollare. Mentre io, a distanza di anni, non ci sono riuscita. Non ho mantenuto la promessa, perché il bar continua a non essere nostro.
A sedici anni ho lasciato il liceo per lavorare. Ho fatto di tutto per aiutarlo, eppure i soldi non bastavano mai. Forse mi sono cimentata in qualcosa più grande di me, ma almeno riesco a portare avanti, anche se a fatica, questo bar che tanto amo. Molte volte ho la sensazione che la mia vita non sia ancora iniziata e penso che l’Hilson’s Bar sia la mia svolta. Sento che qualcosa sta per cambiare e so di non sbagliarmi.

Spazio me, te, boh:

Ciao amici e amiche, non ho niente da dire se non: grazie per avermi dedicato il vostro tempo.

PRIMO VOLUME. I Quindici - L'incontroDove le storie prendono vita. Scoprilo ora