Non aprire quel messaggio.

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Sara, 28 anni, laureata in design e moda e felicemente single, si svegliò, per la prima volta nella sua vita, felice del fatto che fosse lunedì. 
Aveva trascorso gli ultimi mesi in giro per le strade della caotica Milano, presentandosi in molte case di moda e lasciando curriculum a destra e a manca, nella speranza di essere richiamata. Ed ora, finalmente, la casa di moda “face4US” l’aveva ricontattata, disposta a concederle un mese di prova. L’appuntamento era previsto per le 9 di quella mattina, ma la sua sveglia suonò alle 6. 
“Meglio essere sempre in anticipo” si ripeteva di continuo, quasi fosse un mantra. 
Abitava in Via Vitruvio, in un appartamento al primo piano abbastanza piccolo, ma essenziale. La stazione della metro non era molto distante da casa, ragione per la quale, secondo lei, i piedi e le gambe potevano benissimo sostituire un’auto. La metropolitana, per lei, era l’invenzione migliore del secolo: facile da prendere, con fermate dislocate in ogni angolo della città, veloce e lontana dal traffico con abbonamenti piuttosto economici. Una salvezza, insomma. Purtroppo era anche un luogo mal frequentato e talvolta intimidatorio. Era sempre stata attenta a non trasgredire i suoi orari, per non dover prendere la metro durante la sera. Tuttavia, nonostante il sole non fosse ancora sorto, si incamminò verso la fermata con il sorriso stampato sulle labbra. 
Cappotto rosso, tacco 12 nero e valigetta alla mano, si sentiva come una modella intenta a sfilare su una passerella. Peccato che non ci fosse nessun faro ad illuminarle il viso, ma soprattutto che non ci fosse nessuno ad osservare il suo trionfo e a viverlo con lei. 
Quella strada non era delle migliori nemmeno in fatto di illuminazione e, passata l’euforia del momento, iniziò a sentirsi tesa e osservata. Il battito cardiaco accelerò e con lui anche il suo passo. Stava quasi correndo quando raggiunse la fermata, bloccandovisi di fronte. 
Fuori era ancora buio. 
Presa da una sorta di panico, si osservò intorno, nella speranza di trovare qualche bar aperto. Erano solo le 6:30, ma per sua fortuna, un panificio all’angolo era illuminato al suo interno. 
“Scusi, è permesso?” chiese, aprendo la porta che emise un suono simile a quello di una campanella. 
“Siamo chiusi!” ringhiò un uomo da una stanza vicina. 
“La prego, sono in anticipo per la metropolitana e fuori è ancora buio..”. 
Da quel piccolo stanzino uscì un uomo piuttosto alto e robusto, sudato e sporco di farina. 
“Ragazzina, ho capito, puoi restare. Ma siediti su quello sgabello e non toccare nulla”. 
Normalmente Sara non sarebbe rimasta in silenzio di fronte a tanta arroganza, ma in quel momento il tono burbero di un uomo qualsiasi non era che l’ultimo dei suoi pensieri. Si era lasciata prendere troppo la mano, avrebbe dovuto stare più attenta in futuro e, soprattutto, abbandonare il suo amato mantra. 
Mancavano ancora 10 minuti alle 7, così decise di sedersi e di occupare il tempo giocando a Candy Crush, quando si accorse di avere un nuovo messaggio. 
Non aveva salvato quel numero in rubrica e, pensando che potesse essere una collega di “face4US” che la informava di qualche cambio di orario, si affrettò ad aprirlo. 
“Sei bellissima. Quel cappotto rosso ti dona”. 
Sara si osservò intorno, inquieta, poi rispose. 
“Chi sei?” 
“Non è importante chi sono. Ma sappi che io ti vedo”. 
Il telefono le cadde dalle mani, mentre il cuore le pulsava nei timpani. Un leggero strato di sudore le imperlò la fronte, inumidendole la frangetta bionda. 
Il sole era sorto e lei, impaurita, corse fuori dalla panetteria, raggiungendo la metro in un batter d’occhio. 
“Rilassati, probabilmente è solo uno dei tuoi amici che ti sta facendo un brutto scherzo” si disse. 
Per il resto della giornata si impose di non pensare più a quei messaggi e di godersi il suo primo giorno, tant’è che nemmeno al suo rientro a casa se ne ricordò. 
Dopo essersi fatta un bagno caldo, decise di prepararsi un toast per cena e di chiamare la sua migliore amica, così, ancora in accappatoio, entrò in cucina. 
La spia verde del telefono lampeggiava, segnalando la presenza di un nuovo messaggio. 
“Vorrei essere l’asciugamano che hai addosso”. 
Sara lanciò il telefono sul tavolo di fronte a sé, come se improvvisamente avesse preso fuoco. Si alzò di scatto dalla sedia e si affrettò a chiudere tutte le finestre e i balconi, ancora sconvolta. Poi chiuse a chiave la porta di casa e corse in bagno a rivestirsi. Stava di nuovo sudando e forse le sarebbe servita un’altra doccia. Il respiro aveva appena ripreso ad essere regolare, finché il telefono non squillò di nuovo. 
“Non aver paura”. 
Poi un altro. 
“Io ti vedo, Sara”. 
Le lacrime iniziarono a rigarle le guance e le sue mani si avvicinarono al cassetto dei coltelli. Tremava, mentre sudava freddo. Preso il primo coltello che le capitò in mano, decise di chiudersi in camera da letto, per cercare di riposare. Il giorno dopo avrebbe pensato a cambiare numero e a sporgere denuncia, ma in quel momento aveva solo un urgente bisogno di dormire e di calmarsi. 
Chiuse a chiave la porta e si distese sul letto, tendendo il coltello e il telefono stretti a sé. Dopo pochi minuti i suoi occhi smisero di lottare e, chiudendo le palpebre, si abbandonò ad un sonno profondo. 
Erano circa le 4 quando una vibrazione la fece sobbalzare. Il telefono emetteva il solito led verde che indicava un nuovo messaggio. 
Ancora prima di aprirlo, Sara iniziò a piangere, e trattenne un grido quando lo lesse. 
“Sei bellissima mentre dormi. Ricorda, io ti vedo”. 
La paura si impossessò di lei, tremava in tutto il corpo, come scossa dalle convulsioni. Sentiva mille occhi osservarla, violarla. La testa iniziò a girarle, il respiro ad affannarsi, il sangue a pulsare sempre più velocemente nelle vene. 
Tuh-tuh. Tuh-tuh. 
Senza nemmeno accorgersene, si ritrovò in piedi, di fronte all’interruttore della luce. 
Click-clack. 
Provò ad accenderlo. 
Una, due, tre volte. 
Ma la luce non illuminò la stanza. 
Si spostò a destra, verso la porta e cercò la chiave, ma non la trovò. Abbassò la maniglia ripetutamente, senza risultato. 
Le lacrime continuavano a scorrere sul suo viso, quando si fermò. 
Sentiva il rumore del suo respiro, accelerato per lo sforzo, in mezzo al silenzio. Deglutì piano e, lentamente, cercò di raggiungere di nuovo il letto, dove aveva lasciato il telefono. Un vento caldo le soffiò sul collo, vicino all’attaccatura dell’orecchio. 
Lei rimase immobile, trattenendo il respiro. 
Il vento alle sue spalle aumentava sempre più di intensità, mentre lei deglutiva a fatica, irrigidendosi e stringendo i pugni. 
Quel vento di avvicinò al suo orecchio, arrivandole a soffiare nella cavità. 
Finché non emise un suono. 
Tre parole. 
“Io ti vedo”.

Quel lunedì mattina Sara si svegliò piuttosto di soprassalto. Ultimamente faceva molta fatica a dormire bene e finiva sempre con lo svegliarsi da uno strano incubo, madida di sudore. Sapeva che c’era qualcuno, un aggressore, ma non riusciva mai a vedere chi fosse o cosa le accadesse. 
Si alzò dal letto piuttosto velocemente, prese dall’armadio i primi vestiti che le capitarono in mano e si diresse in bagno, quasi correndo. Era in ritardo per la riunione alla “face4US”, che quella mattina avrebbe ricevuto un importante investimento. 
Una volta vestita, imprecò tra sé e sé, in cerca delle chiavi, poi uscì. 
Lungo la strada infilò il suo cappottino rosso e imboccò la strada del panificio di Tony, dove si fermava sempre a prendere un panino da portare in ufficio per il pranzo. 
“Tony! Ti prego, sbrigati! Sono in ritardo alla riunione!” “Arrivo, ragazzina, dammi un secondo. Intanto siediti sullo sgabello”. 
Sara lo ascoltò e si sedette sul piccolo sgabellino nero di fronte al bancone, piuttosto irritata. 
Odiava arrivare in ritardo. 
Decise, nel frattempo, di controllare l’ora e possibili e-mail da parte dell’ufficio, così cercò il telefono in borsa e, dopo averla quasi svuotata sul tavolo, lo trovò. 
La spia verde indicava la presenza di un nuovo messaggio. 
Il numero era sconosciuto. 
Un brivido le percorse la schiena, ma non ci fece troppo caso, come non badò al suo cuore, che aveva iniziato ad accelerare. O almeno non lo fece, finché non lesse ciò che vi era scritto. 
“Sei bellissima. Quel cappotto rosso ti dona”. 
Nonostante il tremolio delle mani e il panico che le serrava la gola, Sara si affrettò a rispondere. 
“Chi sei?” 
“Non è importante chi sono. Ma sappi che io ti vedo”.









Aspetto qualche vostro parere, spero vi piaccia.
Buona lettura!
Ovviamente, se avete l'occasione, passate a leggere anche il mio libro "Sei la risposta che cercavo".
Baci ❤

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