Le prime boccate ad una sigaretta che non avrebbe finito.
All'ombra della fermata in Via Casali, sedeva Leo. Le gambe a cavalcioni, la schiena poggiata al vetro della cabina e lo sguardo fuggente di chi cercava qualcosa. Lo aveva posato, in un primo momento, sugli alberi spogli che non facevano più ombra , per poi far scivolare i suoi occhi sul fusto graffiato di un albero sull'altra sponda della strada.
Quella corteccia faticava a rimarginarsi dagli innumerevoli tagli e scritte con cui era stata sporcata. Da un cuore storto in prossimità della cima al tentativo di incidere, in risalto, il nome di una ragazza ed un ragazzo. Seguendo il fusto, lo sguardo scivolò ai piedi di quell'arbusto spoglio, con le spalle che avvolgevano la corteccia e le gambe incrociate, sedeva una ragazza.
La ragazza alzò lo sguardo come se stesse aspettando di essere guardata, si guardarono vicendevolmente. Uno girò la testa altrove, l'altra la riposò sul libro che teneva delicatamente tra le mani.
Leo, ogni giorno, aspettava il pullman numero 16 che lo riportasse a casa. Alle 16:45 di quel giorno, ancora non era passato e lui non sembrava sorpreso di quel ritardo. Avrebbe potuto interrogarsi sul perché non fosse arrivato ancora o sul perché non si fosse avviato a casa a piedi ma preferì restare sotto la fermata. Le mani tuffate in tasca che carezzavano meccanicamente le chiavi di casa mentre con la suola della scarpa calciava la sigaretta che andò a finire nel tombino dinanzi a lui. Lo zaino che aveva in spalla non conteneva niente se non un taccuino su cui annotava tutto ciò che potesse servigli come spunto quando scriveva. Leo era uno scrittore o, suo malgrado, fingeva di esserlo.
Prese il suo taccuino e annotò poche righe "Ore 17:00 il pullman tarda ad arrivare, stanco". Dall'altra parte Sophié leggeva il suo libro. Era solita sedersi sotto quella quercia, affondare le dita nel prato finché gli spazi tra le dita non sarebbero stati riempiti dai fili d'erba.
Una volta che sentiva che le mani erano piene e non vi era più spazio, provava ad afferrarli stringendo i pugni. Sperava di tenerli stretti a se ma tutte le volte riusciva solo a sporcarsi le mani, trovava sui palmi fili spezzati e fango. Provava a fare lo stesso con i suoi sentimenti, cercava di tenerli stretti a sé, di stringere i pugni per non lasciarseli portare via, di non lasciarli incustoditi nelle mani degli altri per non restare delusa ma ogni volta che li custodiva gelosamente tra i suoi palmi, si ritrovava le mani sporche di sangue e dei cocci dei suoi sogni andati infranti.
Sophié aveva lo sguardo impassibile di chi era stato fatto a pezzi dall'indifferenza delle persone. Proprio come quella corteccia, i suoi palmi faticavano a rimarginarsi tutte le volte che qualcuno le inferiva un taglio. Era stata vestita degli sbagli dei suoi genitori ed il pomeriggio, dopo pranzo, si legava i capelli e si metteva uno spazzolino in gola per vomitare delusioni. I conati e le lacrime erano coperti dal volume troppo alto della televisione, infatti, regolarmente, la Signora del secondo piano esortava i genitori di Sophié ad abbassare il tono sbattendo ripetutamente il manico della scopa sul soffitto. Nessuno le aveva mai detto "da qui in avanti ci penso io a te" e probabilmente aspettava che qualcuno lo facesse.
Leo aveva portato le mani sulle ginocchia e aveva abbandonato la testa tra le gambe, il telefono gli stava squillando.
"Pronto" disse guardando la ragazza
"Dove cazzo sei?" era suo padre. Leo cercava di passare più tempo possibile fuori di casa non aveva molto da dire a suo padre da quando sua madre era morta. Lui era un alcolista. Tornava a casa, veniva picchiato e saliva in camera a soffocare le grida, un classico. Aveva costruito un muro attorno a sé, mattone dopo mattone. Qualcosa che tracciasse un confine, seppur immaginario, tra lui e gli altri, tra se stesso e le illusioni.
"Arrivo" gli rispose. "Sai cosa ti aspetta." Disse lui. Poi attaccò.
Ripose nella tasca il telefono, non fece altro che pensare alle innumerevoli volte che avrebbe voluto che qualcuno gli si sussurrasse "Possiamo restare in silenzio, finché non avrai voglia di parlarmene". Fino ad allora avrebbe continuato a nascondere quella cicatrice sulla schiena ed i lividi che aveva sul petto, coperti dalla camicia che indossava. Gettò il telefono per strada, la ragazza inaspettatamente gli sorrise. Quel giorno non saprebbe tornato a casa. Aprì il taccuino e scrisse solo una parola: "Attesa".