Anche gli dei morti governano. Anche gli infelici temono per la loro felicità. Aiutatemi ad uscire, fuori da questo posto, lontano dallo strepito che ho in testa, perché non riesco a ricordare? Perché non riesco a ricordare quello che mi abbia fatto di male? Lei era a pochi passi da me. A pochi sgabelli da me. L'avrei voluta accarezzare ma non mi apparteneva più.
Ubriaca, sedeva al tavolo con le amiche. Mi faceva ribrezzo, un connubio di tutto ciò che ho sempre odiato e da cui mi sono sempre tenuto lontano. D'altronde, i miei genitori mi avevano insegnato a tenermi lontano da queste cose. Con il loro fare amorevole ma così attaccato alla tradizione, classica mentalità da piccolo paese. Compiuti i diciotto anni, per loro era un oltraggio che io mi trasferissi in città e, ancor più, che io lavorassi in un bar. Quando iniziai a lavorare guardavo con diffidenza tutti, non riuscivo a fidarmi di nessuno e nessuno si voleva fidare di me. Col tempo presi in simpatia Nidia, la cameriera del posto in cui lavoravo. Per lei ero diventato: "il ragazzo delle birre". Paradossale considerando che io avevo sempre odiato la birra, e nutrivo un odio così profondo nei suoi confronti che, il sabato sera, ne compravo almeno una. Non la bevevo, no, la prendevo e la svuotavo nel tombino più vicino del posto in cui la compravo. Talvolta mi facevo vedere appositamente dal venditore, volevo che lui si sentisse partecipe della mia causa, della mia lotta contro il tutto ed il nulla e, qualche volta, nei loro sguardi coglievo qualcos'altro oltre alla compassione. Nidia era un cliché. Un sofisticato cliché. Lei era consapevole di essere un personaggio: agli altri, alle sue stesse amiche, diceva il giusto, quello che bastava per apparire interessante. Non voleva esporsi, non voleva dimostrare di essere più matura di quello che in realtà era. Voleva assomigliare a loro in pratica. Era cresciuta prima del tempo e lo aveva detto più volte. Alla chiusura del bar ci sedevamo sulla scalinata sul retro del locale, lei si accendeva una sigaretta ed io storcevo il naso per farle capire che non adoravo il fumo.
Dopo un tiro, spegneva la sigaretta gettandola lontano da lei. Passavamo le ore in silenzio, senza sentire la necessità di parlare. Non mi andava di intrattenere un discorso e Nidia lo sapeva bene, aveva imparato a capirmi dai silenzi. Andò avanti così per molti mesi, lei mi accarezzava i capelli ed io mi abbandonavo sulle sue ginocchia come se non trovassi posto più familiare di quello nel grande freddo di questa prigione di metallo. Ero abituato al paesaggio bucolico del mio cortile di casa. Dove bastava scavalcare la siepe per trovarsi nei pressi di una foresta, dove le persone ti chiamavano per nome quando ti vedevano scendere per la strada principale del paese e dove avevo imparato a portare il peso di grandi ideali sulle mie piccole spalle. Ideali grandi ai miei occhi, agli occhi di un ragazzino e, crescendo, non cambiai idea. Imparai solo dopo che non ne avrei retto il peso. Credevo fermamente che la birra che acquistavo fosse la birra in più che avrebbe ucciso qualcuno, come pensavo che, il pacchetto di sigarette che compravo il martedì, fosse il pacchetto in più che avrebbe provocato il cancro a qualcuno.
Nelle sere passate con lei, mi sembrava di riavvicinarmi alla realtà. La disprezzavo ma avevo bisogno delle sue carezze, come dei baci che iniziò a darmi col tempo. Iniziai ad apprezzare quella routine e allo stesso modo iniziai a rimpiangerla. Una delle tante sere, Nidia mi parlò:
"Sai perché fumo?" lasciò uscire dalla sua bocca il fumo del suo solito primo tiro.
"No, sinceramente non me lo sono mai chiesto" risposi freddamente, lei affondò lentamente la sua piccola mano tra i miei folti capelli ma lo fece in modo diverso dal solito. Quella volta cercò di afferrarli tutti insieme, lentamente, come se si stesse somministrando una medicina. Fece così un paio di volte, prima facendo scivolare la mano sinistra sul mio collo e poi sotto il mento.
"Sono cresciuta prima del tempo, lontana dalle urla dei bambini ma vicina a quelle di mia madre. Lei odiava mio padre, lo odiava con tutta se stessa. Lui non c'era a casa, era un fenomeno da baraccone." Smise di parlare e cercò di incrociare il mio sguardo chinandosi in avanti. "Mio padre morì, avevo 6 anni. Mia madre non volle più mangiare ed io, tutti i giorni dopo la scuola, non potevo giocare. Prendevo qualcosa di cucinato dal panificio nei pressi di casa mia e provavo a far mangiare mia madre. Un giorno lei scappò. Non partì con me, no. Lei stava scappando dai suoi problemi...da me."
Mi baciò.
<< Sto cercando di vivere quello che ho perso ma il tempo non lo puoi comprare, lo puoi solo vendere>> Dopo quella sera non la rividi più, fu licenziata per aver fumato una canna mentre era di turno. Ed invece adesso era a pochi sgabelli da me. Era vittima di se stessa. Continuava a condurre una guerra ostinata contro di sé, con i peggiori alleati possibili. Persone di cui aveva bisogno per non rivivere ciò da cui era sempre scappata: la solitudine. Nella sua lotta contro il tempo ero stato suo compagno ma continuavo a guardarla con riluttanza.
Tra la mole della sua coscienza e la leggerezza del suo personaggio, lei aveva scelto di restare fedele al suo copione. Non lo potevo accettare. Presi l'ultima birra che c'era nel frigo, quella destinata a lei e la comprai. Uscii dal locale con la birra in mano e la consumai sulle scalinate del retro. Non era niente di speciale.
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