Avevo solo bisogno di tenere gli occhi aperti. Per ricordare.
Il tempo iniziava a scarseggiare. La birra era calda. Era diventata calda. La posai sul gradino, tra le mie gambe. Le mie mani adesso reggevano la sua lettera. Banale. Banale, farsi del male in questo modo. Lei aveva difficoltà ad esprimere i suoi sentimenti. Io, invece, non ero riuscito a comprenderli. Volevo prove concrete del suo amore. Amore, già. Mi aveva detto pochi ti amo. Io non ero mai riuscito a dirglielo. Mi amava? Si può dire di amare una persona?
Non le crederei. Non adesso. Le domande avevano perso senso col tempo. Possiamo dire di amare una persona? Non se non la riusciamo a capire. Lanciamo un'occhiata frettolosa attraverso lo spiraglio della porta intestardendoci in giudizi sommari. Porta che lei aveva lasciato appositamente aperta. Socchiusa. Unicamente per chi le fosse vicino in quel momento. Voleva che guardassi dentro di lei, che la comprendessi. Non riuscivo a guardarle dentro. Non come dovrebbe fare una persona che ama. Avevo sporto la testa, con diffidenza. Non volevo espormi, volevo avere il tempo di correre indietro e chiudere la mia, di porta. A chiave. Prima che mi parlasse non sapevo cosa provava. Per questo non le dissi mai che l'amavo.
Forse avevo paura che dicendoglielo le avrei consegnato le chiavi per guardarmi dentro. Lei me lo sussurrava all'orecchio. Come se volesse rassicurarmi. Rassicurami del fatto che lei mi aveva già capito. Poteva davvero farsi carico della mia pena? Ecco. La confessione della nostra pena, da lì dovremmo partire.
Io sul retro a consumare una birra calda. Lei ad un tavolo a lasciarsi consumare dagli amici. E loro? Potevano dire di conoscerla? Per loro quella porta non era mai stata aperta. Non avevano mai provato a sfiorarla, a sporgere la testa. O meglio, lei non aveva mai fatto in modo che loro lo facessero. Era un tacito accordo tra lei e loro. Si sarebbero accontentati del superficiale.
A quel tavolo sedeva con le amiche di sempre. Di sempre era un modo di dire. Sapeva bene cosa volesse dire essere soli. Era stata abbandonata dalle sue vecchie amiche, così decise di farsene delle nuove. Non aveva bisogno di dire la verità. Non voleva far sapere chi fosse. Se non l'avevano accettata per quello che era, bastava cambiare. Fu così che mi raccontò della sua prima volta. La prima volta che prese in mano una sigaretta. L'aveva guardata con diffidenza. Una bambina, ecco. La guardò come solo una bambina avrebbe potuto fare.
La portò alle labbra. La bagnò con la saliva e fece il suo primo tiro. Il primo tiro è quello che ti strozza. Tossì. No, non le piaceva. Ma avrebbe continuato, le amiche non avrebbero capito se avesse smesso di farlo. Mi raccontò del suo primo drink, del suo primo tiro d'erba e della prima volta che tentò di suicidarsi. In una vasca. Si, sedeva nella sua vasca e iniziava ad affondare la lama nella carne. Cercava di uccidersi ma non trovava il coraggio di spingere di più sui polsi. Sui suoi piccoli polsi. Tredici anni, aveva tredici anni e desiderava morire. Imparai presto a medicare quei tagli. Il senso di colpa. Il senso di colpa la spingeva a procurarsi dolore. Non poteva reggere tutte quelle bugie. Mi sentivo inerme. Un idiota. Come se avessi potuto fare qualcosa. Mi sentivo colpevole per non esserci stato, per non esserle stato accanto in quei momenti.
Erano i nostri momenti di noia a portarci su quelle gradinate. Ci sentivamo più sinceri lì che nel resto delle nostre giornate. Lei danzava. Io, nel mio tempo libero, scrivevo. Scrivevo racconti, cose banali. La sera era il momento che attendevo di più. Non vedevo l'ora di posare la testa sulle sue gambe. Non facevo nulla per avvicinarmi a lei, l'ascoltavo. Ascoltavo quello che aveva da dirmi. Parlava di lei, di come le avessi aperto gli occhi. E di quanto potesse fare male essere consapevoli di se stessi. Non avevo fatto nulla.
Guardai la birra.
"Sei pessima" non sapevo a chi delle due lo stessi dicendo. Svuotai lentamente la bottiglia sulle scale. Quella lettera era una confessione. Mi confessava di amarmi. Stava mettendo a nudo i suoi sentimenti. Era entrata di prepotenza nella mia vita. Non serviva che tenessi la porta chiusa, lei era lì ad origliare. Si era avvicinata a piccoli passi. In silenzio. Si era mossa con accortezza. Così, quando sarebbe uscita, non avrebbe fatto danni. Rilessi un rigo della lettera: "Dolore, è questo che ci accomuna, quante volte me lo hai detto? E se tutto quello che abbiamo vissuto non ci fosse mai stato? Ci saremmo mai innamorati?"
Era riuscita a capirmi dai silenzi. Quelle parole diedero un senso al dolore che avevo vissuto. Poi, mi accorsi che parlava al plurale.
"Ci saremmo mai innamorati?" ripetei a bassa voce. Non ero riuscito a nascondermi. Sapeva cosa provavo per lei. Adesso era andata definitivamente via. Ora che, nella speranza che tornasse, avevo lasciato la porta socchiusa.