1 -Possibile fosse in corso un'invasione di unicorni e io non ne sapessi niente?

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Corro. Corro. Corro. Non ho più fiato, ma non posso fermarmi. Mi sono alle calcagna. Il vento mi sfiora la pelle nuda delle braccia e delle gambe, spostando i capelli che volano, piume nere come il carbone. Le gunace tinte di rosso, dalla fatica e le labbra pallide come porcellana socchiuse in un ghigno di fatica. Gli unici colori, in un bosco di tinte nere, dove corvi sorvolano la mia testa e scendono in picchiata verso il terreno, dove, appena toccato, scompaiomo in un ammasso di piume nere. Mi concentro sul respiro, ma non posso che sentire il fiato caldo di creature sconosciute. È il crepuscolo. Il chiarore della luna spunta timidamente da dietro le nuovole e si riflette sul fiume che scorre giù per la montagna, tra le rocce e l'umidità che si sprigiona, racchiusa sotto la cappa delle fronde degli alberi, che come giganti si inchinano al cospetto della signora Luna, che tinge il fiume di tinte argentee e tenui, conferendogli un fascino enigmatico e mistico. Le radici degli alberi sbattono furiose contro il terreno, che rimproverato trema. Si tratta di gigantesche querce dal corpo solido e nodoso. Si ergono superbe e nobili, come giganti di marmo incantati consci della loro immortale e immobile possenza. I ringhii delle creature sono sempre più vicini. Il fiato esce dalla mia bocca in rantolii sommessi, che man mano si fanno sempre più ispidi. I rami si inchinano all'improvviso, graffiandomi il viso. Sento il sangue scorrere lungo le guance, che si plasma con le lacrime, sfumando in un colore più tenue. Posso udire la natura maligna che mi circonda, come un sussurro trasportato dal vento, un melodia amara proveniente da uno strumento ingannevole. Un guizzo chiama, un palpito risponde. Il delicato bagliore che penetra tra i rami crea accattivanti giochi di luce. Tuttavia gli alberi robusti e ricchi di fogliame nero come la pece, danno vita, sopra la mi testa, ad un intreccio tanto fitto e ricamato da impedirmi di vedere il cielo. Una timida nebbia avviluppa i miei piedi nudi, tagliati dai sassi aguzzi che hanno scavato il terreno e proprio in una di queste buche, inciampo. Sento una zampata lancinante penetrarmi la schiena. Urlo per il dolore. Sono schiacciata a terra da un corpo, di cui sento solo il fetore e il fiato caldo uscire dalle narici e riversarsi sulla mia pelle sudata. Qualcosa di umido gocciola sulla mia guancia. Chiudo gli occhi, strizzandoli. La paura mi assale, ma il terrore prende il sopravvento: un lato inconsapevole del mio inconscio mi spinge ad aprire gli occhi... due occhi rossi come il sangue mi fissno dall'alto, come due topazi incastonati in una statua. Appena sotto, delle fauci spalancate traboccanti di denti, aguzzi come cocci di vetro, che in un batter d'occhi si avventano sul mio viso. Chiudo gli occhi, accecata dalla paura, e urlo, nonostante senta le corde vocali spezzarsi.
Mi svegliai urlando. Cazzo, era successo di nuovo. Lo stesso incubo mi tormentava ormai da giorni ed ero esausta. Erano notti che il mio sonno era agitato e che di conseguenza dormivo ben poco. Scostai un lembo della coperta ricamata con fantasie rigide nella loro sequenza ripetitiva contratta in una successione di fiori stilizzati. Nonostante la fantasia ben poco elastica, era morbida e profumata. Mi era stata regalata da una zia, la quale premurosa aveva pensato più che me a quanto fosse rigido l'inverno a Cambridge, in previsione della mia partenza per il college. Anche se la stagione più fredda non era ancora alle porte, il freddo era la mia pecca: da sempre lo soffrivo tantissimo, nonostante provenissi da una cittadina come Forks, la cui temperatura media annuale è di 9,5 °C. Controvoglia, tirai giù una gamba dal letto e appoggiai il piede sul pavimento freddo. Rabbrividii per l'inaspettata sorpresa. Mi alzai dal letto sbuffando. Fuori dalla finestra la luna brillava maliarda di una luce argentea, appesa in un cielo spruzzato di stelle, come fossero coriandoli. Richiusi la tenda e presi il cellulare. Strizzai gli occhi di fronte alla luce dello schermo che mi illuminò il viso. Non risultavano esserci notifiche. Lo spensi e a tastoni mi risistemai a letto in attessa che il sonno si facesse strada tra i pensieri.
Fu una brutta nottata, una nottata di pioggia scrosciante. La notte mi avvolgeva nel suo mantello di velluto nero. Tremai, non solo per il freddo. Mi alzai una seconda volta. Il college fuori dalla finestra sembrava uscito da un incubo. Le forme spettrali degli alberi, il buio che inghiottiva i contorni dell'edificio. Rimasi qualche istante immobile, chiusi gli occhi e ascoltai lo zampillio della pioggia, che scendeva come se stesse cascando da un secchio rovesciato. Mi arresi di fronte alla notte e mi accoccolai nel letto, che piano mi condusse verso un sonno profondo senza sogni né incubi.
Quando la mia coinquilina mi piantò in asso quattro giorni prima che iniziasse la scuola, pensai che la segreteria avrebbe preso in mano la questione e mi avrebbe piazzato in camera una nevrotica, patita dell'ordine - aspetto che lontanamente mi riguardava - e magari persino scorbutica e antipatica compagna. Mi aspettavo qualcuno che mi avrebbe lasciato nella totale indifferenza, qualcuno che non mi avrebbe fatto né caldo né freddo o che al massimo mi avrebbe fatto arricciare il naso davanti al proprio modo di fare. Una poveretta che aveva deciso di cambiare college all'ultimo momento o a cui fosse saltato l'alloggio già assegnato. Mai mi sarei aspettata una tipa simile, quando aprii la porta. Aveva un volto sottile, la pelle chiarissima, sembrava una barbie mora con gli occhi azzurri, tirata giù dallo scaffale e infilata in una canottiera di Victoria's Secret. 《Piacere》disse, allungando una mano e proferendo in un sorriso tutto dire. Forse era figlia di un dentista o qualcosa del genere, perché aveva dei denti praticamente perfetti. Il sorriso era una delle cose che guardavo per prime in un estraneo, avendo alle spalle un passato di disgrazie odontoiatriche. Allungai una mano, un po' timida. Non ero brava a fare amicizia. Non era il mio forte. Mi sembrava anche una cosa un po' stupida darsi la mano, ma non mi tirai indietro. Scelsi la tinta più colorata fra la gamma dei sorrisi e le afferrai la mano: 《Ashley》. Mi scostai di lato, permettendole il passaggio che fino a poco prima le avevo impedito, concedendole di entrare in camera e appoggiare i borsoni dall' aria pesante. 《Grazie》 . Si guardò intorno e io la osservai con fare curioso. 《È carino qui, mi piace》disse, mentre appoggiava i bagagli sul letto.
《Non mi sono ancora presentata: io sono Tawny》
《Hai un bellissimo nome》
《Grazie! Sei nuova? Mi ricorderei di te se ti avessi già incontrata》. Mi domandai come avrebbe potuto fare a memorizzare il mio volto tra migliaia in una città come Cambridge, ma tuttavia non mi astenni dal risponderle. 《Sì. Mi sono trasferita da poco ed eccomi qui, una sconosciuta in lande ostili》. Sorrise e mi guardò fissa negli occhi, come per leggerci dentro. 《Oh be', eccomi qui al tuo servizio per rendere queste terre meno sconosciute e più accoglienti》Ridemmo insieme. 《Se ti va, dopo aver sistemato scatoloni vari e borsoni, possiamo fare un giro per il college》
《Mi farai da guida?》
Rise.《Volentieri, Miss》Mi strizzò un occhio.
《Ma prima mangiamo qualcosa, ti pego. Sto morendo di fame》. Quel mattino avevo saltato la colazione, essendomi svegliata tardi per via della nottata insonne. Non essendo ancora iniziate le lezioni, potevo permettermelo.
《Perfetto. La mensa qui è squisita》. Mi prese a braccetto e mi condusse fuori dalla porta. Feci appena in tempo a prendere la borsa al volo, appesa allo schienale della sedia girevole. Non sapevo trattarsi dell'uragano che mi avrebbe sconvolto la vita, eppure mi sembrava conoscerla da sempre.
Tawny abbassò la maniglia del pesante portone ed entrò nell'edificio. Il frastuono mi investì in pieno. Non ero abituata a tutte quelle chiacchiere: nella mia ex scuola superiore, nel delimitato territorio della cittadina di Forks, la fauna scolastica si aggirava intorno al scarsissimo numero di 328 iscrizioni.
Mi sentivo parecchio a disagio. Un po' come il giocattolino nuovo alle scuole elementari: tutti che gli gironzolano intorno senza mantenere troppa attenzione nel custodirlo e riservatezza nel farsi i fatti propri. Durante il tragitto Tawny mi aveva raccontato un po' di lei. Era al secondo anno, ma aveva dovuto cambiare camera per motivi che nella conversazione aveva cercato di mascherare - anche se avevo comunque capito trattarsi di qualcuno che per lei doveva essere parecchio importante. Non avrei insistito, volevo che arrivasse a fidarsi di me e che costruissimo, mattone dopo mattone - anche se la mia esperienza in questo non era molto afferrata - un rapporto di vera amicizia, fondato su basi solide e non vacillanti. Per me, facile a dirsi quanto difficile a farsi. Eppure in quel momento avrei dato di tutto affinché avessi avuto un'amica. Per quanto potesse sembrare egoista, avevo bisogno di qualcuno al mio fianco e se fossimo state in due a sostenerci, il panorama lo si sarebbe guardato da un altro punto di vista.
Ci sedemmo ad un tavolino vicino ad un finestrato. Avevo bisogno di una via di fuga che, se non fisica, almeno fosse un'evasione mentale: da sempre osservare quanto accadesse fuori dalla mia bolla, aveva su di me un potere calmante. Il movimento, la vivacità di un luogo, mi facevano sperare che tutte quelle persone là fuori, tutte quelle vite, avessero uno scopo e si struggessero per i loro sogni. Anche se, però, ero ben consapevole che la vita non fosse così accomodante come appariva essere da un punto di vista tanto superficiale, dettato solo da una visione fugace traslata dal potere dell' immaginazione in un pianeta parallelo tutto rose e fiori.
Prendemmo due succhi di frutta e un panino ciascuno, dato che ormai era ora di pranzo.
《Allooora》Tawny allungò la vocale, tanto da farmi capire che stava cercando le parole adatte per chiedere quanto sarebbe seguito. 《Come mai ti sei trasferita?》
《Eeh...》Ok, lo ammetto: forse rispondere a monosillabi consisteva nel scavarsi la fossa da soli e buttare via tutti i buoni propositi di fare amicizia e la storia dei mattoncini nel cesso. Però non mi aspettavo una domanda del genere. Ok, ammetto anche che quanto mi avesse chiesto era una domanda banalissima e totalmente ingenua, come chiedere quale sia il tuo piatto preferito, immagino. In fin dei conti, molti degli studenti nella scuola si erano trasferiti ed erano lontano da casa per il semplice motivo che quella era l'università da loro sempre ambita. Ma per me non si trattava solo di quello. Rivolta a me, quella era una domanda che mi metteva totalmente a nudo: forse per il pesante fardello che si portava dietro, come un cestino da picnic pieno di sassi che mi pesava sulla spalla da quando era successo quel che era successo, non solo quando si teneva il picnic, ovvero quando mi rivolgevano la fatidica domanda appena sgunzagliata, ma praticamente sempre. Un cestino che non mi abbandonava mai. E che cestino! Forse sarebbe più appropriato parlare di un baule bello capiente.
Comprese il mio disagio, in effetti stavo entrando in panico. La ferita era troppo profonda e troppo fresca. Avevo bisogno di tempo perché ne potessi addirittura parlare con qualcuno. Mi limitavo a pensare a quanto accaduto, quelle poche volte in cui ci dedicavo del tempo. Avevo gettato la spugna: tutte le volte in cui ci pensavo, la rabbia montava come un ascensore che sale di piano in piano e mi riducevo a cercare il colpevole, qualcuno contro cui scagliare la mia ferocia, anche se probabilmente non esisteva. Spesso si tratta di destino. Ma era più comodo avere qualcuno con cui prendersela.
《Scusa, non era mia intenzione essere indiscreta》. Mi sentii ancora più a disagio, vedendo che persino il suo sorriso era scomparso a ruota, dietro il mio irrigidimento. 《Figurati, il problema sono io. Dunque, parlami un po' della gerarchia della scuola》le feci l'occhiolino, per farle capire che mi stavo assolutamente prendendo gioco di tutti i montati di testa nel campus. Ne avevo già intravisto qualcuno e fidatevi se vi dico che si tratta di doppia panna montata: si credono altrettanto fighi quanto questa sia buona, ma soprattutto altrettanto montati. L'ho già detto che sono montati? Beh, era per farmi intendere.
Tawny scoppia a ridere e io con lei. 《Abbiamo la squadra si rugby in cima alla piramide alimentare. Non solo sono i più appetitosi, tra parentesi sono dei pezzi di modelli, ma anche i più stupidi. Anzi, no!》 esclamò l'ultima parola, pronunciandola con enfasi. Vi rifletté su e decise che la fauna scolastica più stupida era il《gregge di pecore》 che seguiva la squadra di rugby. 《Tu non puoi capire, quelle ragazze sono delle oche isteriche che starnazzano neanche fossero in calore sette giorni su sette, sabato e domenica compresi, anzi: tutto il mese. No, tutto l'anno, il secolo. Beh, in effetti mi auguro che non vivano così a lungo. Oddio, ho appena avuto una vusione vomitevole. Te le immagini da vecchie con le tette che cadono schicciate in top succinti e con il culo flaccido che straborda dalle gonnelline?》
Stavo per scoppiare a ridere per il suo parlare a macchinetta, quando la visione alimentata dalle sue parole mi si parò davanti agli occhi e quello che doveva essere un sorriso si tramutò subito in una smorfia di disapprovazione e anche schifo. 《Se però può consolarti, ci sono dei fighi anche tra i secchioni... sì, non fighi come i Rugbisti, ovvio. Ma sono carini. Sì, carini》fece lei, annuendo convinta tra sé e sé. Scossi la testa e sorrisi.
《Cos'è, un'opera di autoconvincimento?》
Mi rivolse uno sguardo di disperazione. 《Sììì. Non sono neanche lontanamente "carini". Sono alti e magri o bassi e grassi, non hanno le propozioni giuste, in testa hanno il taglio dato da una padella, i capelli sono unti e hanno degli occhialoni spessi come binocoli, puzzano di dopobarba andato a male e...》
La guardai con aria divertita: 《E...?》 Chiesi, incitandola a continuare.
《E niente, non sono come i Rugbisti》borbottò, scuotendo la testa con nonchalance, come se volesse dimostrare che la questione non la toccasse minimamente, quando in realtà non era riuscita a nascondere l'aria sconfitta. Allora mi venne un'illuminazione. Non è che...
《Ti piace qualcuno fra i "Rugbisti".》 Non era esattamente una domanda, era più un'affermazione che le rivolsi maliziosamente, che solo la sua reazione avrebbe potuto confermare. Sbarrò gli occhi e mi guardò come se mi fosse spuntato un terzo occhio gigante in mezzo alla fronte. Era così, ne ero sicura. Avevo ragione io. Beccata e affondata. 《A me?》 Chiese, come se avessi sparato la cavolata più grande del secolo. 《No...》fece poi, guardandosi le unghie delle mani con noncuranza, come se fossero la cosa più interessante al momento.
Poi successe una cosa. Non mi accorsi di niente, ero troppo presa a parlare con Tawny. La vidi spalancare gli occhi e osservare con adorazione - un eufemismo - qualcosa alle mie spalle. Chiunque o qualunque persona o cosa fosse, se la stava mangiando con gli occhi. Possibile fosse in corso un'invasione di unicorni e io non ne sapessi niente? Quindi mi girai incuriosita. Su, dai, non prendiamoci in giro. Altro che invasione di unicirni. Per quanto possa rispettarli, la visione che mi si parò davanti, mi appannò la vista. Immaginate di veder spodestati 15 dèi dal cielo e osservarli regnare sulla Terra. O meglio, essere venerati ad Harvard. Non male. Certo, non male per loro. Gli altri studenti non se la spassavano altrettanto bene, con loro nei paraggi. In primo luogo, i ragazzi li invidiavano - e non poco - e le ragazze... beh, che dire. Ambivano a diventare loro fidanzate o per lo meno amiche. Ma chi vogliamo prendere in giro! Scommetto che neanche uno di loro potrebbe avere intenzioni serie con una ragazza. Quindi diciamo che queste possono solo permettersi di sognare, immaginare, fantasticare... illudersi? Sì, questo è quello che fanno le ragazze. Pensano sempre al futuro, a un futuro romantico, tra fiori, passeggiate mano nella mano, baci, bambini... è così per tutte.
Ah no, aspettate. Fermi tutti. Riavvolgiamo il nastro. Cosa stavo dicendo? È così per tutte? Pfff. Mi ero dimenticata di loro. Avanzavano aggressive sui tacchi a spillo verso i loro uomini. Era come seguire una parita di pallavolo: la palla - ovvero l'attenzione di tutti i presenti - rimbalzava da un campo all'altro - vale a dire tra le due squadre, i "Rugbisti" e le "Cheerleader". Solo che qui, chi incassava non erano gli avversari l'uno dell'altra, perché loro sembravano intendersela parecchio - capitemi - bensì, si trattava di tutti gli innamorati, chi degli uni, chi delle altre. Più che innamorati, "sbavanti". Nuovo termine, può darsi. Ma è l'unico modo per farmi intendere: più che guardarli, sbavavano loro dietro. Scoppiai a ridere e quando vidi l'espressione totalmente rapita di Tawny, la mia risata si intensificò. Ok, immaginate la situazione. Ora ditemi: chi è il pazzo qui? Come non detto. L'attenzione si spostò su di me e tutti mi guardarono piuttosto male. Smettei di ridere all'istante e feci finta di niente, prendendo a parlare con Tawny di cose mooolto improbabili. 《Allora, cosa ne pensi degli unicorni?》. Prima spalancò gli occhi, poi li strabuzzò, e infine mi guardò piuttosto stranita. 《Penso che il tuo succo sia stato corretto, tu che dici?》. Si alzò e mi prese a braccetto per uscire dalla mensa, sotto lo sguardo indagatore di tutti i presenti: tra la folla, c'era chi mi guardava male, chi con pietà, chi con odio - vedi squadra delle Cheerleader - e poi, infine, intravidi di sfuggita quello sguardo divertito, che in quell'istante non sapevo avrebbe totalmente condizionato la mia vita. Erano due occhi blu notte, due occhi blu in cui, col passare del tempo, imparai a vedere le stelle che, anche se irragiungibili lassù, avevano iniziato a brillare sopra di me sempre più belle ed il buio nella mia vita pian piano aveva iniziato a ritirarsi e a far spazio alla luce.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Aug 29, 2016 ⏰

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