Ecstasy

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Ecstasy
(Metilendiossimetamfetamina)

Disclaimer: questa è una storia senza scopo di lucro. Fatti e dialoghi sono di mia invenzione. Con questa fanfiction non voglio offendere nessun membro della band.

  

“A dopo mammina!”, mi urlano i ragazzi mentre chiudo la porta di casa alle mie spalle.
“Sempre che ci sia un dopo…”, sussurro a me stesso.

M’incammino nelle buie strade londinesi, vorrei perdermi nella nebbia e non riemergere più.
Sono così stanco di essere il bravo ragazzo, quello amato da tutti, quello che sorride sempre!
Ed è vero, io sono quello che chiamano “mamma”, quello che accorre quando Harry cade dallo skate o quando a Niall viene un’indigestione. Tutti mi chiamano, ogni giorno, ogni ora, e nessuno mi chiede come sto, nessuno si è accorto che piano piano il mio sorriso si è spento, e che i miei occhi non brillano più.

Mi copro il viso con il cappuccio.
Da quando ho tagliato i capelli, percepisco il freddo come vivo.
Non ho idea di dove andare, voglio solo scappare da quella casa; poi il vento, come un messaggero burlone, porta con sé un volantino, ed io lo raccolgo.

La musica si fa più viva, alzo gli occhi dal marciapiede, “Ecco!”, mi dico, “Sono arrivato”, controllo che nessuno mi abbia seguito ed entro nel vecchio stabile.
Le pareti sono incrostate di sporcizia e graffiti, alcuni ragazzi stanno limonando in angolo, cammino lentamente. Non ho motivi per aumentare il passo, non ho più motivi per vivere.
Apro la prima porta che trovo, e scopro la “Dark Room”. Un forte odore di sudore e sesso m’investe le narici, sento i gemiti incontrollati di qualche fortunata ragazza, poi qualcuno si accorge di me.
“Chiudi quella cazzo di porta, schifido guardone.”
Non perdo tempo a ribattere e proseguo il mio giro.

Sento un’improvvisa stanchezza calarmi addosso, così mi accascio contro il muro. Le ginocchia al petto e la testa fra le braccia.
Non so per quanto tempo sia rimasto in quella posizione, forse pochi minuti, ma il tempo necessario a farmi notare da Rod, lo spacciatore della mia vecchia scuola.
“Payn, quanto tempo è passato?”, mi fa quello scivolando vicino a me, “Come mai stai così a terra?”
Vorrei rispondere, ma è come se avessi la bocca impastata, così mi limito a mugugnare qualcosa.
Rod afferra l’antifona e si alza, “Hm hm, bello, tu stai male.”, poi mi mette qualcosa nella tasca della giacca, “Io me la batto, okay?”, e mi lascia solo.

Mi alzo e riprendo a vagare per l’edificio, la musica si fa sempre più forte e, svoltato il corridoio, vengo investito dalle luci stroboscopiche.
Stropiccio gli occhi e mi dirigo verso il tavolo degli alcolici, afferrò una birra e sbircio la gente da dietro il vetro verde.
Una gran quantità di persone, senza dubbio, ragazzi con i pantaloni sotto il culo e ragazze con cinture al posto delle minigonne.

“Benvenuti diavoli tentatori.

Portatori del male e delle menzogne,

benvenuti!” 

Infilo una mano in tasca e cavo il sacchettino che mi ha lasciato Rod, doveva essere proprio sotto per lasciarmi 5 pasticche di E.
Guardo le pillole in controluce, diventano verdi, rosse, blu. Anche la droga segue il ritmo.
Sono così belle che ne ingoio una, voglio anch’io tutto quel colore dentro di me, vorrei poter vivere ancora!
Mi mischio con la folla danzante, una ragazza mi rovescia della Vodka alla fragola sulla giacca, biascica qualcosa e poi mi apre la borsetta che porta a tracolla, prende un porta sigarette dorato, lo apre e prende una delle tre canne che aveva dentro. Rimette tutto nella borsa e mi mette il joint tra le labbra, poi me lo accende con uno zippo giallo flou.

Aspiro qualche boccata allontanandomi dalla pista e mi dirigi verso le scale, sono eccitato per via del MD e quasi assuefatto dalla marijuana.
Non avevo mai pensato che fare le scale potesse essere così faticoso.
Arrivo in cima alla rampa, ma esito non poco davanti alla porta. Raccolgo il coraggio a due mani ed esco sul terrazzino.
Il freddo vento londinese mi accarezza la pelle del viso, mi guardo intorno.
Vuoto.
Desolazione.
Cammino verso il parapetto in cemento e mi arrampico in modo da avere le gambe a penzoloni.
Sto aspettando un segno. Un messaggio dal cielo.

“Buttati da questo fottuto tetto”, mi urla il cervello, “cosa stai aspettando?”
Guardo il telefono.
Nessun messaggio.
Nessuna chiamata.

Scorro la rubrica in cerca di qualcuno che mi possa aiutare, e mi soffermo sul numero di Jake.
Calde lacrime cominciano a cadere dai miei occhi, ma sono troppo fatto per accorgermene.

Jake era il mio migliore amico, io e lui eravamo inseparabili alle medie.
Gli stessi demoni che ci tormentavano e gli stessi problemi con le ragazze e la scuola.
Eravamo reclusi entrambi.
Passavamo i pomeriggi al canale a fumare sigarette rubate, parlare di sesso e bere birra scadente.
Poi abbiamo iniziato il liceo.
O meglio, io ho iniziato il liceo.
Jake non ha mai potuto.
L’ultimo giorno di scuola media il nostro professore d’arte l’ha trovato nel bagno del primo piano con le vene tagliate.
Aveva lasciato un biglietto.
Quelle parole si sono marchiate a fuoco nella mia mente.

“Scusami tanto Liam” 

Se Jake me lo avesse detto.
Se io me ne fossi accorto.
Se, se, se.

Io non avevo afferrato il suo cambiamento.
Io non lo avevo aiutato.
Io, io, io.

Mia madre aveva provato a convincermi ad andare da uno psicologo, ma avrebbe avuto senso?
Forse, ma ora non ho più 14 anni. Sono cresciuto, e sono diventato un fottuto casino. 

Appoggio il cellullare vicino a me e butto la testa indietro soffiando fuori il fumo.
“Le stelle sono così belle, questa sera”, penso.
Sono ancora io a pensare? O è la droga che parla per me? 

Strizzo gli occhi, confuso, vedo le stelline luminose danti agli occhi. Allungo una mano per prenderne qualcuna, ma mi sbilancio in avanti.
Il movimento repentino mi fa rinsavire, e rammento il motivo della mia uscita.
Sento la porta chiudersi e dei passi venire verso di me.
Mi stringo nella felpa.

“Cosa ci fai qui?”, mi chiede una voce gentile.
“Aspetto il momento giusto per ammazzarmi.”, rispondo brusco. Non ho voglia di essere gentile, sono stato calmo per troppo tempo.
Sento il suo corpo leggero vicino a me, spalla contro spalla, in un unico grande dolore.
“Anche io”, mormora semplicemente.

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