Affluente di me stesso

375 31 9
                                    

Non ho mai dato peso alla geometria del sorriso, della risata, del miscuglio di emozioni che fa scaturire quel suono giocondo, per poi ridursi in bocche che si aprono, in occhi luccicanti. D'altro canto, il mio modo per esprimere apprezzamento, ilarità, è un sorriso sbilenco: il labbro superiore e quello inferiore si aprono a metà, o verso destra, o verso sinistra. Manca quella forza necessaria, quella gloria e fiducia per schiudersi totalmente, per far fuoriuscire tutta la dentatura, e ridere con tutto il bianco di cui si dispone.

Mentre ci penso, sto con i piedi penzoloni su un dirupo. Non sono abbastanza disperato nemmeno per pensare, anche un solo attimo, di lasciarmi andare, ad un vuoto che mi avvilupperà, proverà a proteggermi fino allo schianto finale, l'illusoria speranza che basti volare via per lasciare tutto dietro, senza una conseguenza. Davanti a me, una catena montuosa innevata si staglia in lontananza, mentre sotto si apre una valle che continua il suo percorso anche dopo quelle montagne, zigzagando tra massi, neve e ghiaccio. Un paio di fiumi, quasi gelati, partono come sorgente da qualche cima, si spengono come affluente su qualche altro più grande. La vita effimera di un corso d'acqua del genere: utile solo per ingrossarne un altro. Eppure ha dei buoni propositi, questa sorgente, che nulla sa del destino delle sue acque.

Il sole sta ritto sopra di me, ma lo sento appena. A stento due raggi incontrano il mio corpo, ci sbattono contro e tornano indietro, mentre un venticello calmo, ma pungente, scaccia via i residui caloriferi. Poco assorbo del giallo dei raggi, che comunque non riesce a penetrare nella mia cassa toracica; il mio cuore rimane fermo, apparentemente occupato a battersi, a battermi, che si immobilizza nella calotta di ghiaccio in cui è segregato.

Di solito, quando mi inerpico per luoghi inesplorati, o semplicemente quando ritengo che stare nella baita affittata dalla mia famiglia sia troppo banale, mi porto un taccuino, una penna, o un interno quaderno. Almeno un libro, qualcosa. Invece oggi sono a mani vuote, con le tasche riempite solo dal cellulare e da un mazzo di chiavi, nulla capace di invertire il senso dei miei sentimenti, in declino come il flusso dei fiumi, dalla mia visuale. Avrei potuto scrivere qualcosa, muovere semplicemente la mano, consumare una penna. Stendere parole sconnesse che poi, d'un tratto, prendono realtà sugli angoli dei fogli, tra un periodo e l'altro, una virgola e un punto. Avrei trasmesso la mia tristezza, la mia inidoneità, su un foglio di carta, su un quadernino. Senz'anima. Lui non può soffrire. Così scarico la colpa su qualcos'altro, libero me stesso e sgombro il senso della mia vita su un altro oggetto, giusto per ricordarmi di non essermelo sognato, questo senso, di non essermelo immaginato, come tutti i personaggi, gli animali, racchiusi solo in parole, descritti solo per due righe, un paio di connotati e un paio di personalità piatte, di un grigiore simile a quello delle nuvole che portano pioggia ma che, poi, non piovono.

< Le nuvole che portano pioggia, ma che non piovono. Bella analogia, ma sbagliata. > Una voce parla, ammutolisce ogni decibel di qualsiasi essere nei paraggi. Non c'è il silenzio solo per il suo eco. E questa voce, questa voce, la conosco. Bene. La voce fatta e finita, la voce che crea ambienti e delusioni, la voce di un ragazzo intrappolato nel suo corpo da fanciullo, con la mente da adulto e le mani da bambino. La voce che plasma tra le sue corde vocali il senso di una vita, di tutte le vite, della mia. La voce che rese per anni il mio corpo pronunciabile.

< Giacomo... > Ed ecco che io riverso il mio timore nel mio modo di parlare. L'incertezza mal riposta in una persona che non lo merita.

< Giacomo. > Questa volta più risoluto. E uno schizzo di amore si fa strada tra le lettere, in mezzo alle consonanti e intorno alle vocali.

< Davide. >

Davide... e come poteva essere perfetto, il mio nome, tra le sue labbra invisibili. Dove sei, Giacomo? Mi guardo intorno ma vedo solo bianco, montagne e acqua. Non vedo corpi, non vedo calore umano, vita che si rigenera.

Storie fini a se stesseDove le storie prendono vita. Scoprilo ora