Il Viaggio

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Il grande castello grigio era circondato da un mucchio di casupole che si credevano un villaggio: ogni tanto vomitava dal suo oscuro portone dozzine di fanti con lunghe picche e cavalieri ricoperti di metallo. Ironico che i cavalieri andassero dietro alle stesse armi, le picche, che avrebbero poi temuto in mano ai nemici in battaglia.

Il grasso e scorbutico Urceo spostò le ceste che aveva sulla strada, prima che gli zoccoli ne facessero scempio. Imprecava Urceo, ma questo lo faceva sempre, e si muoveva con inattesa agilità a spostare la merce nonostante la pancia fosse come un barile sopra le sottili gambette.

- Gertriii - chiamò, con voce stridula, mentre i picchieri avanzano con le lunghe aste e i vestiti con i colori del feudatario, sgargianti sopra e zozzi di fanghiglia sotto.

- Gertriii - strilló, mentre i cavalieri gli sfilavano davanti con lo sguardo fiero e le armature consumate dagli scontri.

- Gertriii - urlò, mentre le zolle nere tirate su dai cavalli saltavano qua e là sui suoi piedi.

- Arrivo, Urceo  - disse Gertrude, più cattiva di lui, se fosse mai possibile. Sapeva perfettamente che cosa stava succedendo, ma rallentava il passo perché non aveva punto voglia di aiutarlo a spostare le ceste.

- Eccomi qua - disse la moglie del commerciante, con una radice di liquirizia in bocca, un lembo del copricapo fuori posto e l'indolenza di chi si è appena svegliato, ma tornerebbe volentieri al giaciglio.

- Gertri, è già tutto finito. Non mi servi a niente - e intanto rimetteva a posto le ceste di merce di tutti i tipi, dalle rape rosse sporche di terra ai tappi di sughero usati, dalle punte di lancia spuntate ai rotoli di lana ancora da cardare.

- Gertri, oggi dovrebbe arrivare quell'antipatico di mago, quel Chemonte, che fa rima con petulante. Tira fuori tutto il ciarpame che abbiamo, magari riusciamo a grattargli un po' di monete.

- Urceo, quello stregone non si può sentire, e poi sai che non sei mai riuscito a vendergli niente di più che non volesse - brontolò lei piuttosto scocciata di doversi dar da fare.

E per confermare la sua opinione succhiò più rumorosamente la radice di liquirizia, mentre sbavava un rivoletto di saliva scura.

Urceo era il più furfante dei commercianti e sua moglie Gertrude la più infingarda e pigra.

Si erano sposati ognuno con l'idea di fregare l'altro, entrambi vantando ricchezze, ma avendo entrambi solo poco più della media del popolino che viveva ridosso dal castello.

Altra cosa erano i commercianti dentro le mura, loro sì che erano ricchi, vendevano rape pulite, tappi nuovi, punte puntute e gomitoli puranco colorati.

Questo era il sogno dei due, Urceo e Gertrude: riuscire a vendere tanta merce, anche fregando tanta gente, da potersi permettere una bancarella dentro il castello.

E questo glorioso scopo li rendeva uniti nella vita e nell'uso quotidiano di almeno quattro dei sette vizi capitali.

Quella mattina stavano guardando entrambi l'esercito del conte che era appena andato via,  che era ormai lontano e aveva lasciato la solita gialla nuvola di polvere.

Urceo strinse gli occhi porcini: in mezzo alla nuvola apparivano ora due figure, un ometto basso e rotondetto e un vegliardo con mantello e cappuccio.

Mise a posto il suo cappello a sacco, che era stato un bellissimo copricapo, fatto con un tessuto sottratto alla pezza color rosa antico che aveva regalato a sua moglie per il suo più bello e anche unico vestito.

D'altro canto sua moglie gli aveva promesso in cambio una pezza color carrubo da cui non era riuscito a fare nient'altro che le minuscole calabrache per le sue già minuscole gambette, quindi erano pari, come sempre nella loro vita assieme.

Racconti di Yoppa e ChemonteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora