Prologo

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Pioveva, quel giorno.

Áine era seduta nello scomodo pullman che percorreva la tratta di appena sessanta chilometri che portava dal cuore di Dublino alla contea di Kildare, dove era nata. Guardava fuori dal finestrino unto dalle ditate di chi l'aveva preceduta, cercando di ignorare il sommesso russare del suo vicino e l'allegro chiacchiericcio delle due ragazzine che occupavano i posti davanti al suo.

Osservava le gocce di pioggia che scorrevano veloci sul vetro, unendosi e separandosi lungo la loro corsa, e il paesaggio che cambiava davanti ai suoi occhi: dalla modernità della capitale irlandese si passava gradualmente alla natura incontaminata della brughiera.

Non che Kildare fosse rimasto il luogo arretrato che era in passato. Ormai la contea era diventata un ritrovo chic per ricchi avventori, pieno di centri benessere, sfarzosi hotel e rinomati ristoranti.

Una pausa di lusso le avrebbe senz'altro giovato; tuttavia, non era lì che Áine era diretta.

La famiglia O'Quinn possedeva una grande tenuta nelle vicinanze della Bog of Allen – uno dei luoghi più selvaggi e incontaminati dell'Irlanda centrale, quasi interamente dominato da paludi e vegetazione incolta – e andava fiera del suo lignaggio nobile. A nulla serviva che Áine ricordasse ai suoi genitori che il paese era andato avanti, che non c'era più nessuno che facesse caso alla discendenze nobiliari e che ormai c'erano centinaia, se non migliaia, di O'Quinn sparsi per tutta l'isola e oltre. Era rimasta ben poca nobiltà in quel cognome.

Questo era uno dei motivi per cui la giovane donna si era allontanata dal suo paese natale appena dopo il diploma. La sua famiglia aveva racchiuso la sua vita all'interno di rigide pareti che costituivano limiti invalicabili, si aspettava che lei sposasse il ricco rampollo di qualche buona casata irlandese e passasse la sua vita a governare la sua grande tenuta come se fosse una piccola città e lei la sua signora. Ma Áine non era tagliata per condurre quel tipo di esistenza. Lei desiderava di più. Voleva una carriera, uno stimolo intellettuale e, soprattutto, la libertà di scegliere cosa fosse meglio per lei.

Detestava Kildare. O meglio, detestava ciò che rappresentava.

I suoi genitori erano rimasti molto delusi dalla sua decisione di trasferirsi nella moderna Dublino e diventare un notaio: poco importava che fosse una delle più richieste nel suo campo e fosse ammirata da tutti.

Tranne che da loro, ovviamente. Non avrebbero mai approvato il suo stile di vita, nonostante si fossero ormai rassegnati alla sua ribellione.

Un acuto miagolio la riscosse dai suoi pensieri cupi. Estia non sopportava di stare nel suo trasportino troppo a lungo, e Áine non poteva biasimarla. Dopotutto, anche lei si sentiva in gabbia in quel momento.

Era ironico che proprio Áine avesse chiamato la sua gatta bianca come la divinità greca protettrice della casa, lei che aveva rinnegato la sua.

Non tornava quasi mai a Kildare a trovare i suoi genitori. Detestava essere criticata e umiliata nonostante avesse raggiunto tutti i traguardi che avrebbero reso fiera qualunque coppia di genitori normali. Tuttavia, non poteva più reggere le telefonate accusatorie di sua madre e il tono ferito di suo padre quando rifilava loro le scuse che prontamente inventava per rifiutare i loro inviti.

La festa di San Patrizio era molto sentita in Irlanda – come anche in altre parti del mondo – e in occasione del diciassette di Marzo tutte le maggiori città organizzavano splendide parate e magnifici party.

Nella famiglia tradizionalista di Áine, invece, si preferiva assistere alla messa del mattino e poi ritirarsi in casa con amici e parenti per onorare la festività con sfarzosi banchetti fino a notte fonda.

Mentre il suo vicino cambiava rumorosamente posizione sul suo sedile, arrivando a invadere lo spazio personale di Áine, la ragazza appoggiò la fronte contro il vetro freddo. La testa iniziava a dolerle. Nessuno degli altri passeggeri del pullman sembrava condividere il suo malumore, e l'atmosfera allegra che la circondava non faceva altro che deprimerla ulteriormente.

Non mancava molto all'arrivo, ormai.

Era stata fatta soltanto una sosta, presso una stazione di servizio, per permettere ai passeggeri di rifocillarsi e andare al gabinetto. Lei non si era mossa dal suo sedile.

Quando il pullman giunse a destinazione, era ormai buio. La ragazza si affrettò a prendere il suo bagaglio dallo scompartimento laterale del mezzo e a dirigersi verso uno dei taxi che attendavano i visitatori nella stazione dei pullman. Le dita le dolevano tanta era la forza con cui reggeva il manico di pelle nera.

Il tassista, un tipo tarchiato e dai modi spicci con un paio di folte sopracciglia che spuntavano dal berretto calato sulla fronte, la aiutò a sistemare la sua ingombrante valigia nel portabagagli e depose il trasportino di Estia sul sedile posteriore.

«Dov'è diretta, signorina?» le domandò l'uomo, osservandola con curiosità dallo specchietto retrovisore, quando anche lei si fu accomodata.

Áine ebbe l'impulso di sistemarsi con le dita i capelli rossi, completamente stravolti dal viaggio, ma lo bloccò. Non aveva intenzione di mostrare alcuna debolezza. Poco importava che il tassista non avesse nulla a che fare con la sua famiglia: era di vitale importanza che lei mantenesse il controllo, soprattutto nel luogo che più di ogni altro la metteva a dura prova. «Alla tenuta O'Quinn, per favore.»

Non aveva bisogno di specificare l'indirizzo. Tutti conoscevano la dimora della sua famiglia, da quelle parti, e l'uomo non faceva eccezione. Annuì e mise in moto il mezzo, non provando a fare conversazione con la sua passeggera.

Lei apprezzò il gesto. Era stanca, nervosa e per nulla in vena di chiacchierare.

Infine comparve la tenuta. Il termine più azzeccato sarebbe stato castello, nel suo caso. Era un edificio dall'impronta nobiliare, costruito più di un secolo prima con grossi mattoni di pietra grezza e da cui si stagliavano due imponenti torri, una delle quali era inaccessibile per problemi di sicurezza.

Giunta di fronte al grande portone – che non era più quello originale a causa della necessità di adeguare gli standard di sicurezza a quelli attuali – Áine scese dal taxi e, aiutata dall'uomo, a cui aveva elargito una generosa mancia, forse per rimediare alla poca compagnia che aveva offerto durante il viaggio, prese il suo bagaglio.

Mentre il taxi si allontanava, lei rimase lì, sotto la pioggia – non aveva con sé un ombrello per ripararsi, naturalmente – a osservare con rassegnazione la soglia che mai più avrebbe voluto varcare.

Tutto ciò che riusciva a pensare, mentre l'acqua le inzuppava i capelli e i vestiti, era che quella porta l'avrebbe condotta in un incubo.

Non sapeva ancora di avere torto: non si trattava di un incubo, ma dell'inferno.

***

[Fine dell'anteprima]

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