Lei

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  Tagliata fuori dallo scorrere della vita, quietamente osservo ciò che mi passa davanti, gustandone il sapore per vie trasverse, facendo finta che quella felicità sia anche un po' la mia.
Non ricordo quando ho iniziato a costruire muri, quando ho capito che era meglio rimanere ai margini, sorridere e fare un passo indietro, ridere e dare l'impressione di essere lì, presente, inglobata nel flusso, ma continuando a coltivare la mia ansia sempiterna, la mia solitudine amara eppure così dolce.
Non ricordo quando ho cominciato a sentire il cuore che doleva, l'anima stanca, la testa pesante e piena di buio, so solo che dopo un po' non ci ho più nemmeno fatto caso e con il rossetto sulle labbra ho continuato ad andare, senza sapere dove, ma muovendomi, per non perdere nell'immobilità altre parti di me stessa.
Così ho iniziato a sbiadire, piano piano, senza clamore, come quiete sono le lacrime che bagnano il cuscino ogni notte, come quieta è la disperazione che mi afferra il petto e mi fa male al respiro.
Vivo facendo finta che vada tutto bene, che ami le giornate di sole, che le risate dei bambini siano sinonimo di gioia, che dentro di me io non stia soffocando nella disperazione e nella rabbia... rivolta soprattutto contro me stessa.
Poi sei arrivata tu.
La prima volta che ti ho vista è stato alla fermata dell'autobus, fumavi una sigaretta con le cuffie nelle orecchie, il trucco troppo pesante sugli occhi, il rossetto viola, le unghie con lo smalto nero e non mi sei piaciuta per niente, ti ho trovata stupida e pretenziosa.
Così avevo continuato a camminare e mi ero fermata a una certa distanza da te, per farti capire che benché aspettassimo lo stesso autobus, tra di noi c'era un abisso che ci separava, eravamo diverse, non avevamo niente da dirci.
Meglio ignorarci.
E infatti tu mi avevi ignorata, completamente e la cosa mi aveva infastidita.
Dovevi essere una di quelle idiote che ascolta musica commerciale e sbava dietro al nuovo cantante lanciato dai reality show, una pecora che segue la massa che non è capace di distinguere il buono e il bello con la propria testa.
Tre giorni dopo pioveva e tu eri di nuovo alla fermata, per coprirti avevi un ombrello di plastica trasparente, alle orecchie ancora le cuffie, il rossetto rosso scuro e sempre troppo trucco sugli occhi. Mi ero sistemata allo stesso posto dell'altra volta, con il cappuccio della felpa ben calato sulla testa e le mani affondate nelle tasche, ti eri accesa una sigaretta e non avevi voltato la testa dalla mia parte, nemmeno una volta.
Il pulman era arrivato ed era strapieno, non c'era spazio per noi, non si era nemmeno fermato, così eravamo rimaste a terra.
Avevo seguito con lo sguardo il mezzo allontanarsi lungo la strada, le luci posteriori imperlate di pioggia, poi all'improvviso ti eri voltata e avevamo incrociato lo sguardo.
-Quando passa il prossimo?
Mi avevi chiesto pescando un'altra sigaretta dal pacchetto e accendendotela con difficoltà, cercando di tenere in bilico l'ombrello e la borsa contemporaneamente.
-Con questo traffico e la pioggia, forse tra un'ora.
Mentre ti parlavo avevo sollevato le spalle in un gesto menefreghista, come se la cosa non mi toccasse.
-Conviene farla a piedi, allora.
Avevi concluso, girandoti di spalle e avviandoti lungo la strada.
Ti avevo guardata camminare per qualche metro, poi mi ero sentita in dovere di avvisarti, così ti avevo rincorsa.
-Scusa! Hey! Scusami!
Ti eri girata sfilandoti una cuffietta per potermi ascoltare.
-Dimmi.
Guardandoti così da vicino mi ero accorta che i tuoi occhi non erano marroni, ma nocciola chiaro e che il trucco pensante li metteva in evidenza rendendoli in qualche modo più grandi.
-Forse non lo sai, ma la strada da quella parte fa una curva sotto il cavalcavia e quando piove si allaga sempre e non si può passare.
Avevi stretto le labbra e mi avevi superata con lo sguardo, spingendoti lungo la strada, verso quella curva che non potevi vedere, ma che ti avrebbe ostacolata.
-Non posso aspettare un'ora.
Inconsciamente avevi preso il cellulare per controllare l'orario e io avevo sbirciato la schermata che mostrava il programma di riproduzione musicale, stavi ascoltando una canzone dei "The Doors".
Mi ero sentita segretamente in colpa per quanto avevo malignato sui tuoi gusti musicali, senza nemmeno conoscerli.
-C'è la parallela se vuoi, ma devi attraversare il parco per un tratto e tagliare passando per il prato grande.
Il tuo sguardo smarrito mi aveva fatto capire che non avessi idea di cosa stessi parlando.
-Non conosci la zona?
Ti chiesi incuriosita.
-No, ci vengo a lavorare da poco. Faccio la babysitter per un'amica di mia madre, io vivo dall'altra parte della città.
Il particolare di te che babysitteravi dei ragazzini per tutto il pomeriggio mi affascinò.
-E sono anche di fretta, perché alle nove ho le prove con il gruppo e allora...
Lasci cadere la frase in sospeso, come se ti fossi accorta di aver appena detto troppo e non volessi aprirti di più.
-Possiamo fare la strada insieme, devo arrivare anche io alla fermata della metro.
Dissi con noncuranza, come se l'idea di andare a spasso sotto la pioggia con una sconosciuta non mi facesse né caldo né freddo, mentre dentro l'ansia e l'aspettativa di un contatto umano mi divoravano.
Lo sguardo ti scivolò ancora una volta sullo schermo del cellulare, mi sembrò persino di vedere gli ingranaggi del pensiero che mi prospettavano diversi scenari, corrugasti le sopracciglia scure per un secondo, poi mi sorridesti.
Ti guardai abbagliata, stranita, stonata.
Quello non era un sorriso, era un lampo di luce nella notte.
-Ti dispiace se camminiamo veloci? Ho già perso tanto di quel tempo e quel cretino dell'autista non si è nemmeno fermato!
Mi dicesti mentre ci allontanavamo fianco a fianco e nonostante fossi io quella che doveva condurti lungo la strada, mi ritrovai a dover modellare il passo con il tuo, alle tue gambe lunghe fasciate in un paio di jeans neri aderenti.
Procedemmo in silenzio per qualche metro, poi mi accorsi che con un silenzioso gesto gentile, avevi messo il tuo ombrello in mezzo a noi, coprendomi il capo e scoprendo così la tua spalla destra che si stava bagnando.
-Non ti preoccupare... ti stai bagnando, io ho la felpa, ci sono abituata.
Provai a convincerti con un filo di sgomento, possibile esistessero ancora le persone gentili in questo mondo?
-Tranquilla.
Fu tutto quello che mi rispondesti, come se per te il discorso non avesse neanche senso aprirlo. Perché bagnarti i vestiti per una sconosciuta con cui dovevi camminare per un pezzo di strada, era la cosa più normale del mondo.
-Da che parte della metro devi andare?
Ti chiesi quando non riuscii più a sopportare il silenzio.
-Verso il centro, la saletta è in una traversa di Via del Corso.
Ti guardai sperando che aggiungessi qualche altro particolare, magari che tipo di musica facevi col tuo gruppo e se suonavi o cantavi, ma tu non aggiungesti altro.
-Dobbiamo attraversare camminano su questo sentiero, stai attenta a dove metti i piedi o sprofonderai nel fango.
Ti misi in guardia mentre iniziavamo l'attraversamento del prato del parco, una delle cose più noiose da fare se stava piovendo e indossavi delle scarpe da ginnastica come me, ma tu avevi gli anfibi ed eri sicuramente più agevolata.
-Ti capita spesso di fare questa strada?
Mi chiedesti dopo qualche minuto in cui camminavamo lentamente con lo sguardo fisso sul terreno per cercare di evitare le pozzanghere.
-Solo se sono costretta, odio il fango.
Mormorai mentre sentivo che stavo per perdere l'equilibrio, finendo col sedere per terra.
Mi afferrasti per un braccio e mi tienesti ferma, dandomi il tempo di riprendere contatto con il sentiero ed evitandomi la scivolata del secolo.
Mi bloccai nel bel mezzo di una parolaccia e ti guardai cercando di fare un sorriso appena decente per farti capire che ti ero grata.
Tu mi guardasti per un secondo, poi scoppiasti a ridere allegra.
-Quando ci vuole, vi vuole! Sono Marina.
Dicesti tendendomi la mano.
-Io Alessia.
Te la strinsi per un momento e la sentii calda e asciutta contro le mie dita gelate.
Prendesti un'altra sigaretta dal pacchetto e facesti un cenno per offrirmene una, la sfilai con una certa difficoltà e aspettai che mi passassi l'accendino rosa con i teschi che avevi appena usato.
-Non credevo nemmeno vendessero degli accendini così.
Commentai senza rendermi conto di averlo fatto ad alta voce e aver così dato fiato ai miei pensieri.
Ti feci ridere ancora.
-Li fa una mia amica nella sua stamperia, ha un macchinario per imprimere le foto sulle tazze, i cuscini e quelle cose là. Siccome sa che amo i teschi, ha fatto questo per me e me lo ha regalato.
-È stata carina.
Mormorai immaginando come doveva essere avere un'amica che faceva questo genere di cose per me.
-Beh all'epoca uscivamo ancora insieme, quindi direi che è stato per lo più un regalo interessato.
L'informazione mi penetrò nel cervello e lì si bloccò.
Uscivi con una ragazza.
Ah.
-Ma c'è stato il pensiero dietro, no?
Cercai di sorvolare sulla cosa con non-calanche, anche se questa tua affermazione così tranquilla mi fece cadere in uno strano stato di agitazione misto a risentimento.
Risentimento, perché mai?
Scacciai i pensieri molesti che mi si affacciavano nella mente e mi accorsi che eravamo vicine alla nostra meta.
-Tra cinque minuti siamo arrivate.
Ti informai, indicandoti la direzione in cui dovevamo procedere non appena uscite dalle sabbie mobili del parco.
-Tu che direzione devi prendere?
Mi chiedesti all'improvviso, mentre tirasti fuori il cellulare per controllare quanto tempo ci avevamo impiegato ad arrivare.
-Dall'altra parte rispetto alla tua.
E non so perché, ma mi sentii sollevata, come se il mettere distanza tra di noi mi facesse sentire sicura.
-Vivi lì?
Chiedesti ancora.
Mi volto e mi accorgo che mi stai guardando, o meglio, che mi stai osservando attentamente.
-Vado dalla mia insegnante di disegno.
E nel dirlo, non riesco a impedirmi di arrossire. In casa mia pensano tutti che sia una bambinata quella di voler imparare a disegnare, che la pittura sia solo per gli scapestrati troppo ricchi per dover fare un lavoro vero e proprio. Così mi pago da sola le lezioni, barista la mattina e imbratta tele di notte, diceva mio padre.
Le tue labbra si tesero in un sorriso che mi fece trasalire tanto era bello.
-Hai delle foto?
La tua voce era concitata, allegra, accesa, come se avessi scoperto qualcosa di favoloso e non vedessi l'ora di toccarlo con mano.
Mentre scendevamo le scale della stazione della metro, scorrevo la galleria delle immagini del cellulare, alla ricerca di qualcosa che valesse la pena mostrarti.
Ora che ci eravamo fermate ed eravamo così vicine, riuscivo a sentire il tuo odore. un misto tra deodorante e shampoo alla frutta.
Buono.
Tu eri alle mie spalle, mi superavi in altezza con la testa e guardavi i miei movimenti impaziente, a un tratto emettesti un piccolo suono strozzato e mi rubasti il cellulare dalle mani.
-Ma è bellissima! L'hai fatta davvero tu?
Mi alzai sulle punte dei piedi e cercai di capire cosa potesse aver acceso così tanto il tuo interesse.
Guardavi estasiata la fotografia di un disegno che avevo fatto su un cartoncino con una matita dalla mina morbida, ritraeva una donna dagli occhi neri che tra le labbra aveva un petalo di rosa rossa.
-Sì... è... l'ho finita da poco.
Sentii nuovamente le guance andarmi a fuoco e mi detestai per questo.
Eravamo ferme davanti al bivio della galleria che si divideva e che ci avrebbe portate alle nostre destinazioni.
-È bellissima ed è perfetta come copertina per il nostro album!
E io mi ritrovai a dare di sì con la testa, perché i tuoi occhi nocciola brillavano talmente tanto da avermi ipnotizzata.
Veloce, memorizzasti il tuo numero sul mio cellulare, poi me lo rendesti e ti chinasti per stamparmi un bacio su di una guancia.
-Scrivimi su Whatsapp! Sono in ritardo mostruoso!
Mi urlasti mentre scomparivi oltre la curva e io mi ritrovai a fissare un punto vuoto del muro arancione con la testa che assentiva ancora.
Quella notte sognai che per salutarmi, mi baciavi sulla bocca e nel sogno, le tue labbra sapevano di pesca matura.
Mi svegliai di soprassalto e rimasi a fissare in silenzio il buio che lentamente schiariva nell'alba.
Qualcosa mi bruciava nella testa, nel petto, qualcosa a cui non sapevo dare un nome.
Qualcosa che non avevo mai provato prima.
Ci misi due giorni per decidermi a scriverti.
Due giorni di ripensamenti e scontri emotivi tra me e me stessa.
Due giorni di inferno.
Poi pensai che sarebbe stato molto peggio se ti avessi incontrata di nuovo alla fermata e tu mi avessi rinfacciato il mio silenzio, così mi convinsi.
"Ciao sono Alessia, la ragazza del disegno."
Come inizio sicuramente banale, ma non mi era venuto in mente niente di meglio.
Mi rispondesti subito.
"Hey! Ciao! Pensavo che non mi avresti più scritto! Sono contenta di sentirti, tutto bene? Io poi sono arrivata alle prove con un ritardo pazzesco, mi sa che la prossima volta faccio prima a disdire se vedo che piove. Io sono a casa, tu che stai facendo?"
Rilessi il messaggio due volte prima di rispondere, possibile che lei volesse davvero parlare con me?
Passammo tutta la giornata a scriverci, a raccontarci cose, a mandarci fotografie di stupidate. Io le inviai altre immagini dei miei lavori, lei mi linkò i video di youtube dove si esibiva dal vivo con la sua band. Così scoprii che suonava la batteria per un gruppo punk-rock e che seduta dietro quello sgabello era veramente brava, che soffriva di insonnia, che aveva paura dei tuoni, ma amava la pioggia, che quando era triste si accoccolava a un vecchio orsacchiotto di pezza che aveva da quasi quindici anni, che il suo primo bacio lo aveva dato a tredici anni a un compagno di scuola, che la prima volta che si era innamorata era stato di una ragazza che faceva piscina con lei e che la sua famiglia sapeva tutto di lei e non gli importava.
All'una di notte, esausta dalla giostra emotiva sulla quale mi sembrava di essere salita, mi addormentai con il cellulare stretto nella mano.
Il mattino dopo trovai la sua buona notte, scritto verso le quattro del mattino, quando prima di andare a dormire aveva pensato a me.
Piansi.
Andare a lavoro fu una tortura, non potevo controllare il cellulare ogni due secondi come il mio cervello mi imponeva di fare e non riuscivo a smettere di pensare a tutte le cose buffe e belle che mi aveva raccontato, a tutte le confidenze che mi aveva fatto, a quel messaggio di buona notte che così tanto mi aveva colpita.
Quando finii il turno, mi precipitai a vedere se c'erano dei tuoi messaggi e scoprire che non c'erano nuove notifiche, mi spezzò il cuore.
Era ovvio che ti saresti stancata di scrivermi, cosa potevo raccontarti io?
Non ero mica interessante come te, bella come te, piena di vita come te.
Io ero solamente io e non ero abbastanza.
Mi incamminai verso casa con la testa vuota e un peso che mi opprimeva il petto.
Il telefono squillò, doveva essere mia nonna che mi chiedeva di comprarle il pane prima di tornare a casa.
Eri tu.
-Hey buongiorno! Hai finito il turno? Ho evitato di scriverti perché non ti volevo disturbare.
E io dall'emozione mi dimenticai di respirare.
-Ciao, sì ho appena finito... hai dormito bene?
-Benissimo! A un certo punto la valeriana ha fatto effetto e sono riuscita a farmi sette ore senza svegliarmi.
-Bene, così oggi sei pronta per lavorare con i bambini.
-Macché, a quelle due pesti non si è mai pronti! Senti, perché non ci vediamo dopo? Sono riuscita a fregare la macchina a mia madre per oggi. Ti porto a bere la birra più buona del mondo, ti va?
-Sì... c-certo.
Mi ritrovai a balbettare in cerca di aria, scoprendo a mie spese che non si può vivere in apnea.
-Allora ti passo a prendere per le otto, mandami l'indirizzo!
E dopo aver riattaccato, guardai preoccupata l'ora e scoprì che è solo l'una e mezza e avevo circa sette ore per rendermi presentabile, per comprarmi qualcosa di decente da mettere e per smettere di essere me stessa e sperare che un miracolo mi rendesse almeno appena accettabile, quel tanto da non farla scappare via terrorizzata.
Entrai nella macchina mente stava cercando di cambiare canale su di una vecchia radio mezza scassata.
-Hey ciao! Ma sei bellissima!
Mi osservò attentamente e avvicinò la guancia alla mia, dandomi un bacio finto per evitare di distruggere il lavoro fatto con il trucco.
La guardai incantata, i capelli neri sciolti, il trucco scuro che metteva in risalto il nocciola chiaro dei tuoi occhi, il rossetto viola e il vestitino di pizzo nero che lasciava scoperta la curva morbida del collo e del seno.
-Tu sei bellissima.
Sussurrai e un sorriso delicato ti illuminò il volto.
Un sorriso diverso da quelli che ti avevo visto già fare, un sorriso intimo, nascosto.
Eravamo brille e alla terza birra, quando iniziammo a prendere gli argomenti seri e difficili, quelli che da sobria non ti verrebbe mai in mente di fare.
-Ti sei mai innamorata?
Mi chiedesti allungando una mano per giocare con le mie dita che stavano martoriando un fazzolettino di carta, riducendolo in piccole palline compatte.
Abbassai lo sguardo e mi misi a osservare come la punta dei suoi polpastrelli tracciava piccoli cerchi sul dorso della mia mano e rabbrividii piano.
-No, mai.
Ammisi.
-Perché?
Alzai la testa per incontrare il suo sguardo, non era chiaro il perché?
-Chi mai potrebbe amarmi? Mi hai vista bene? Io non sono niente, non ho niente, non vado bene per niente...
Le chiesi con un tono di voce che risuonò disperato alle mie stesse orecchie.
La sua mano si strinse attorno alla mia, forte, fortissimo e io non riuscii a vedere più niente perché i miei occhi si velarono di lacrime.
-Scusami, sono una stupida...
Singhiozzai, cercando di sottrarre la mia mano alla sua e cercando contemporaneamente un pacchetto di fazzoletti nella mia borsa.
Ma la sua mano non mi lasciò andare.
La tua mano non mi lasciò andare.
Il rumore dello sgabello che si spostava sul pavimento unto di legno scuro e le tue mani intorno al mio viso che mi costringono ad alzare lo sguardo a fissarlo su di te.
-Io, Alessia, io ti potrei amare.
E lo shock di sentire la sua bocca premuta sulla mia, il sapore del suo respiro sulle mie labbra, sulla mia lingua, mi fece dimenticare tutto il dolore che provavo e mi fece ricordare cosa significava essere viva.
Due mesi dopo, siamo stese sul letto in camera tua, sono le tre del mattino e la casa è immersa nel silenzio del sonno.
Abbiamo appena finito di fare l'amore e le mie cose sono accatastate un po' ovunque, gli scatoloni semi aperti, le tele impilate contro una parete, le scarpe allineate sotto la scrivania di metallo.
Appena i miei hanno saputo che mi vedevo con una ragazza, mi avevano cacciata di casa, ma non mi importava, non ero mai stata tanto felice in tutta la mia vita.
-A cosa stai pensando?
Mi chiedi mentre giochi con una ciocca dei miei capelli.
-A quanto ti amo.
Ti sollevi sul gomito e mi baci, rubandomi tutto, il respiro, il cuore, il cervello, l'anima.
-Io amo te.
Mi rispondi stringendomi forte, forte, fortissimo e io senti ogni pezzo di me andare al suo posto.
-Grazie.
Sussurro nel buio.
-Di cosa?
La tua bocca lascia una scia di baci bollenti sul mio corpo.
-Perché in tutto il mondo intero, hai scelto me.  

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