Il Figlio di Polvere

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Mandibola rotta, occhio nero, capelli arruffati, sangue incrostato e lividi violacei lungo il mio esile corpo: il risultato finale di una notte passata tra le mura decadenti di un luogo isolato, perso nel fitto bosco di Gran Diamante, agli antipodi della città in cui ho sempre vissuto.

Dopo anni trovo il coraggio di raccontare la mia tragica esperienza: non che prima non ci abbia pensato, e che io e Michael, il mio ragazzo, non siamo mai stati creduti nonostante i segni fisici e mentali evidenti. Hanno accusato la nostra “fantasia smisurata”, le presunte droghe, violenze che avremmo subito l’uno dall’altro. Non hanno mai voluto credere alle nostre parole. Sono stata convinta infine che ciò che raccontavo l’avevo vissuto solo nei miei sogni: è questo il motivo per cui ho aspettato così tanto a scrivere. Ma poi mi sono analizzata, ho realizzato che era tutto vero, che quello che dicevano gli altri non avrebbe potuto annichilire quell’episodio che ha segnato per sempre la mia esistenza.

Era una fredda notte di novembre di tre anni fa, la città era immersa nella nebbia, il vento increspava le nostre pelli. Io e Michael ci eravamo recati a una festa, una delle poche a cui eravamo stati invitati. Non abbiamo mai avuto tanti amici. Nel locale eravamo isolati, distaccati da qualsiasi gruppo e da qualunque forma di divertimento. Mi sono seduta sulle sua ginocchia, ho iniziato a toccarlo, il desiderio di possederlo mi stava distruggendo. Avevo bisogno di sentirmi amata, visto che tutto il resto sembrava denigrarmi. Lui mi fermò, mi disse che avremmo dovuto continuare fuori, che anche lui aveva una voglia matta di assaporare il mio corpo. Corremmo, consumati dalla passione, fino a quando giungemmo nell’inquietante bosco. Non era la nostra prima volta nel Gran Diamante, ci eravamo già andati qualche volta, contrastando le credenze popolari secondo cui quell’immenso concentrato di vegetazione fosse maledetto e stregato, governato da spiriti maligni. Ci piaceva stare lì dentro, era il nostro nascondiglio quando le nostre famiglie non sapevano ancora nulla della nostra relazione. Ci piaceva fare l’amore in quel posto che ai nostri occhi appariva romantico e odorava di libertà, svincolato da qualsiasi genere di convenzione.
Prima di quella notte di novembre, però, ci eravamo andati solo quando la luce del sole filtrava tra gli alberi. Quella notte non ci pensammo, non avremmo mai potuto dubitare del nostro nido d’amore.
Ci addentrammo di fretta, Michael mi spogliò, mi appiccicò a un albero. I miei indumenti persi tra le foglie umide, il calore del suo corpo che stava sopprimendo il freddo del mio. Ci amammo ripetutamente per qualche ora, fin quando non riuscimmo a respirare. Nel buio feci fatica a ricompormi e a ritrovare i miei vestiti, ma infine tutto si era svolto nel migliore dei modi, mi sentivo soddisfatta, la mia sete era stata appagata. Michael mi chiese di percorrere tutto il bosco, cosa che non avevamo mai fatto prima. Io, senza pensarci due volte, accettai e misi la mia mano nella sua. Mi fidai cecamente di lui, come sempre.
Camminammo avvolti dal buio e dal gelo. I nostri passi e i nostri respiri interrompevano lievemente il silenzio più assoluto. Dopo circa un’ora e mezza di cammino, fummo abbagliati da una luce. Onestamente non era così tanto accecante, ma in mezzo a quell’oscurità sembrava davvero un gioiello prezioso. Forse è per quello che la foresta è denominata Gran Diamante.
Era un edificio al cui interno le luci di quasi tutte le stanze erano accese. Restammo fermi per qualche minuto, cercando di scorgere qualcosa, fin quando intravedemmo una figura: una specie di infermiera di mezza età, bionda, che stava spingendo una sedia a rotelle. Non riuscimmo a capire chi vi fosse su quella sedia, si vedeva solo una testa piccola e calva.
“Un ospizio” commentò Michael. Io non avevo azzardato ipotesi. “Entriamo?” mi propose.
Ho annuito, avevo voglia di avventurarmi lì dentro.
“Sicura che non hai paura?” mi chiese.
“No” sorrisi, “Tu?”
“Assolutamente no” disse.
Mi strinse la mano e ci addentrammo in quella presunta struttura per anziani.

Qualche passo e fummo già dentro. Al primo piano la luce era molto lieve, perché derivava dal piano superiore, ma non ve n’era una vera e propria. Ci affrettammo quindi a salire.
Ogni passo, una voce, sempre simile a quella precedente. Risatine inquietanti, lamenti, pianti. Sulle scale scricchiolanti sentivamo qualcosa toccarci lievemente, come se fossero veli, era anche piacevole. Ma già da quel punto iniziammo a preoccuparci, almeno io. Mi strinsi a Michael ancora più forte, ma una forza invisibile mi strappò via da lui all’improvviso. Mi ritrovai sospesa nell’aria per qualche istante, poi caddi bruscamente sul pavimento in legno, causando un lamento corale delle voci. Michael mi aiutò ad alzarmi e mi abbracciò per tranquillizzarmi. Mi baciò sulla fronte e decidemmo di andarcene. Ma un’altra luce si accese, seppur tremolante.
Sembrava tutto vuoto, fin quando vedemmo la signora intravista fuori. Ci salutò, improvvisando un sorriso orrido che mostrava i suoi denti bucati, gravemente rovinati. Sentii le ossa agghiacciarsi. Ritornò al piano sopra, senza chiederci spiegazioni. Io rimasi immobile. Michael le corse dietro e le toccò la spalla, lei sparì.
“È immateriale!” urlò il mio ragazzo.
Il suo schiamazzo ne richiamò degli altri: la stanza in cui ci trovavamo iniziò a riempirsi di uomini deformi, umani a tratti, con dei buchi in mezzo al corpo. Erano tutti uguali, tutti la stessa copia dell’uomo che avevamo visto qualche minuto prima sulla sedia a rotelle. Testa piccola, schiacciata, calva, labbra sottili nere, denti tendenti al marrone affilati, occhi vuoti, naso quasi inesistente, poca pelle verdastra.
Io e Michael ci prendemmo per mano e tentammo di scappare, ma un altro gruppo di quegli esseri ci bloccò. In una frazione di secondo, ci trovammo circondati da quelle creature di cui le nostre menti non riuscirono a individuare la provenienza.
Urlammo, quella era l’unica cosa che potevamo fare. Loro ridevano.
Io iniziai a piangere, uno di loro mi accarezzò. Mi alitò addosso, e poi mi affilò i suoi denti nel collo, colpendomi la vena, mentre l’altra mano mi teneva ferma. Piansi dal dolore, era come se un liquido velenoso fosse penetrato nel mio organismo. Lui se ne compiacque, inizio a baciarmi, a succhiarmi, a spogliarmi ed esplorare il mio corpo. Pian piano mi stavo paralizzando. Nel frattempo Michael stava subendo violenze di ogni tipo, lo accerchiarono e lo malmenarono. Io, appiccicata alla sporca finestra, ero vittima di un abuso sessuale da parte di uno della banda, forse il capo, che poi chiamò altri due suoi simili.
Dalle loro unghie uscivano artigli, dai loro occhi fiamme che mi bruciavano pezzi di pelle. Una creatura invisibile mi teneva per i capelli, mentre loro procedevano con il loro squallido atto. Per Michael era lo stesso, qualcosa lo teneva inchiodato alla fredda parete, impedendogli di difendersi. Poi lo trascinò a terra, dove le botte diventarono più pesanti. Non riuscivamo a dimenarci, gridavamo ma le nostre voci rimanevano soffocate nella bocca. Qualcosa lì dentro ci risucchiò tutte le funzioni vitali, rendendoci completamente passivi, forse morti. Morti, sì, ma non completamente, visto che sto ricordando, qualche parte del nostro cervello rimase sveglia. Sentivamo i colpi ma dopo averne incassati parecchi, non ne avvertimmo più tanti: diventavamo meno sensibili al dolore a ogni passo verso la totale passività, che comunque non si realizzò mai né per me né per Michael. Essi ridevano in modo diabolico, parlavano senza farsi capire. Un linguaggio loro, nel loro regno che noi avevamo violato e per questo stavamo scontando una pena. Guardavo Michael soffrire e sanguinare, perdere denti e prendere calci, ma la paralisi non mi permetteva di intervenire.

Il Figlio di Polvere [32]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora