Ore 18:40. Ancora venti minuti e dovrebbe passare il treno che mi riporta a casa.
Mi giro, accanto a me c'è una coppia, lei aveva le lacrime agli occhi, e lui era appoggiato all'incavo del suo collo. Era sicuramente un abbraccio che nessuno dei due voleva dare, nessuno che volesse davvero che quel gesto d'affetto potesse significare il fatto di dividersi. Lei era bassa, mora e liscia, aveva gli occhi lucidi e ogni due minuti si asciugava le lacrime, cercando di non farsi vedere. Lui era più alto, non vedevo i suoi occhi, ma potevo notare che aveva i capelli scuri e la pelle pallida. Entrambi, a parte il gesto della ragazza, non si muovevano, respiravano la loro pelle senza dirsi nulla, perché si sa, non servono parole in momenti così.
Doveva essere quello il vero amore, credo. Capirsi senza nemmeno parlarsi, doveva essere bello.
In quel momento però, mi immaginavo quando, un domani, il ragazzo che scendeva dal treno e la ragazza lo stringeva forte, anche stavolta avrebbe pianto, ma un pianto di quelli che si invidiano.
Mentre la canzone nelle cuffiette terminava e ne partiva una nuova, spostai il viso su un anziano. Avrà avuto forse sui 70 anni, ma il fumo probabilmente lo aveva rovinato. Aveva i capelli ricci, se possiamo definirli tali, bianchi. Tra i denti teneva quella sigaretta, una delle tante, e fumava. Era sicuramente uno di quegli uomini tornati dalla guerra, quelli che non avevano mai vissuto la vita in pieno, non aveva vissuto la propria famiglia, finché non l'aveva persa. Oppure forse, ora tornava a casa e trovava una tavola imbandita, una moglie ad aspettarlo e dei nipotini che giravano per casa. Chissà, sapevo che sarebbe stato l'ultima volta che lo avrei visto.
L'autoparlante annunciava il mio treno, anche se in realtà ancora 10 minuti mancavano.
Mi misi a fissare le rotaie, poi ripensai che avevo quel vizio di guardare le persone, pensare a come fosse la loro vita, anche se io ancora non sapevo come era la mia. Avrei mai avuto un ragazzo, meglio dell'ultimo? Avrei provato quella cosa di cui tutti parlano? Avrei mai avuto per casa nipotini che giravano mentre cucinavo la cena per mio marito e i miei figli?
La mia infanzia è stata una delle tante, madre che lavora e padre che lavora e io badavo a me stessa, sia scuola che altro, non ho mai avuto traumi, come si è abituati a sentire spesso. Anche se, forse, ero stata adottata, non avevo foto e non assomigliavo per niente ne a papi ne tanto meno a mia madre.
Mia madre era liscia, scura di capelli, occhi tendenti al grigio, quasi di quei paesaggi di una giornata che promette pioggia, giornata dove si vuole solo piangere. Era alta, per essere una donna, ma in tutto e per tutto l'ho sempre ritenuta una di quelle madri invidiabili, belle anche con qualche ruga in più.
Io, invece, ero riccia, capelli castani e occhi verdi, ma non di quei verdi belli, quel verde così scuro da sembrare quasi triste. Ero alta anche io, ma a differenza di mia madre ero molto più robusta di costituzione.
19:00 le luci del treno si avvicinano sempre di più. Dó un'ultima sguardo alla coppia, che ormai era scoppiata in un pianto, tra un bacio e un abbraccio. Infine guardo l'anziano, mentre gettava la seconda sigaretta a terra per poi infilarsi le mani nei vecchi pantaloni, uno di quelli che oramai sono passati di moda.
Salgo sul treno, terza porta a destra. Inizio, come mio solito, a guardare le persone, cercando di evitare di farmi vedere. C'erano persone, qualcuno che viaggiava forse da ore, chi invece con pazienza aspettava la sua fermata, altri avevano le cuffie, chi rosse, chi bianche, chi anche decorate. Altri ancora osservavano il paesaggio semi innevato di quell'inverno così freddo.
Mi siedo in un posto nel quarto vagone, dove potevo vedere tutto il panorama. Anche se lo sapevo a memoria, ero bello vederlo cambiare ogni stagione che passava, a volte era scuro, quasi cupo, altre invece mi metteva quella strana gioia indescrivibile.
Nel sedile opposto al mio c'era un ragazzo, avrà avuto forse qualche anno più di me. Io ne ho 17, lui forse sui 20. Era intendo a scrivere, forse con la propria ragazza, o forse ad un gruppo di amici, questo non lo potevo sapere.
La prima cosa che notai fu lo strano tatuaggio che si intravedeva dal collo, non riuscivo a distinguere bene ma sembrava raffigurasse una scritta, anche in questo caso, non riuscivo a leggere.
Sorrideva, era un sorriso spontaneo, non sapevo se era perché la mamma gli aveva fatto le lasagne o perché magari aveva ricevuto uno di quei messaggi che ti aspetti sempre.
Persi quel tempo ad ascoltare sempre la stessa canzone 'Wake me up when september ends'. Non so cosa mi colpisse, ma anche solo ascoltarla mi dava quel senso di pace, quasi da farmi capire che qualsiasi cosa succedesse, con il tempo la guarita si sarebbe rimarginata, anche se con una piccola cicatrice.
Eccola, l'autoparlante annunciava la mia stazione. Presi la borsa mi alzai e mi allontanai, lanciando un'ultima occhiata al ragazzo, che si era appisolato.
Ore 19:15 scesi dal treno, per tornare ci impiegavo circa 5 minuti, ma aggiungendo il ghiaccio sulle strade, forse ci avrei messo di più, quindi decidi di incamminarmi, a passo deciso.
Chiusi gli occhi e lentamente mi lasciai trasportare dalle ultime note di quella canzone che ormai ripetevo da tempo.
Attraversai, ad occhi chiusi, convinta che come sempre nessuna macchina sarebbe passata. Ma forse sbagliavo.
Sull'ultima nota sentii quasi un rumore assordante, aprire gli occhi ormai era impossibile, quindi mi bloccai, il mio corpo aveva captato il pericolo, il cuore batteva, Forse per l'ultima volta. Poi sentii un dolore al fianco, quasi se qualcosa mi dividesse in due orizzontalmente. Sbattei la testa a terra, vidi qualcuno avvicinarsi e scorrere del liquido attorno a me. Gli occhi erano pesanti da tenere aperti, volevano chiudersi, ma io no, io volevo alzarmi e andare a casa, magari a leggere e non stare distesa li, attorno ad un lago rosso. Gli occhi la ebbero vinta e io sprofondai in un sonno strano, non so come descriverlo precisamente, la prima cosa che pensai era se quel ragazzo era tornato a casa, se era davanti ad un fuocherello accesso, mentre magari un telegiornale andava in onda e la madre preparava un po' di carne e della verdura. Che schifo la verdura, pensai.
Chissà se mai quella coppia era riuscita a tornare ognuno nella propria dimora, pur sapendo che l'unica casa che volevano era tra le braccia dell'altro. Infine chissà se il vecchietto aveva trovato una tavola piena di cibo e un nipote che gli chiedeva come era andata oppure si era seduto sulla sua poltrona, senza nemmeno toccare cibo, ripensando ad una moglie defunta e dei figli troppo lontani.
Mi chiesi infine, se io fossi tornata a casa, se pur essendo stata adottata ai miei fregava qualcosa se ero viva o meno, se fossi tornata da loro, se mai fossi arrivata ad anno nuovo. Chissà se adesso gli altri stavano bene, mentre io, io sentivo un silenzio assordante e un buio accecante.
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L'attimo che cambia
Lãng mạnVi è mai capitato di non riuscire a capire voi stessi, e quindi di cercare in tutti i modi di immergervi nelle storie degli altri? Beh, questa storia parla di una ragazza che era abituata a prendere il treno, qualsiasi cosa succedeva, e in stazione...