Lilies

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A volte, tra sé li chiamava per nome: Jane, Kit, Emily, Will, decine di John, ma anche Friedrich, Victor, Daphne e mille e mille altri. Ne riconosceva le costole al tatto, come quando suo padre la prendeva sulle spalle e le diceva di toccare, d'imparare la differenza: brossura, pelle trattata, cartone, velluto. E ognuno di loro aveva la propria consistenza, i granuli e le pieghe identificativi come rughe o nei, ognuno di loro parlava, pur stando chiuso.
Rebecca, alla sua parte più infantile, giurava di sentire le loro voci sussurrare ininterrottamente. Ripetevano le storie contenute al loro interno, a volte ridevano allegri, altre sghignazzavano malignamente. Spesso urlavano o piangevano, ma non tacevano mai, e non avrebbero taciuto, finché qualcuno avrebbe continuato a prenderli fra le mani, a immergersi nelle onde ordinate dei loro paragrafi, a far vivere dentro la testa e il cuore i tumulti dei loro abitanti.
Spesso sentiva dire che i libri erano piccoli universi, ma secondo lei assomigliavano di più a delle persone: potevano essere timidi o sfrontati, abbattuti o fieri, ma tutti avevano un tono di voce, un odore, un tipo di pelle e un carattere che era proprio e diverso da uno all'altro.
Per questo, leggendo, inconsciamente li accarezzava e graffiava, a seconda di cosa stessero raccontando. Non era niente di diverso da una piacevole chiacchierata o da una lite furiosa. Potevano essere terribili come un giuramento di vendetta o morbidi come una dichiarazione d'amore, ma nessuno era mai terminato senza aver lasciato una traccia di sé.
Con l'età Rebecca aveva capito quello che le diceva spesso Melissa, che si può amare qualcosa molto più intensamente di qualcuno, perché è un sentimento sempre ricambiato, e Rebecca amava i libri.
Teneva le dita posate su un'edizione del 1920 de La sposa di Messina di Schiller, quando un movimento improvviso la fece sobbalzare. Una coda soffice e bruna sfiorò la sezione di Teatro tedesco e Rebecca incontrò lo sguardo arancione del suo gatto.
Ridendo fra sé, raccolse l'animale tra le braccia e continuò il giro fra gli scaffali. Era suo compito, nel finesettimana, controllare che tutti i libri in negozio fossero in ordine, anche se di solito il suo lavoro non era impegnativo: i suoi genitori erano talmente pignoli, che difficilmente si sarebbero fatti sfuggire qualcosa.
Oltretutto, quel pomeriggio poteva stare ancora più tranquilla, perché i clienti erano davvero pochi. La libreria antiquaria era frequentata sempre dalla stessa gente, vedove e professori in pensione. Infatti, come da registro, nella sezione Gialli stava appostata la signora Truemay, avida collezionista di Agatha Christie, mentre nella sezione di Storia Orientale pascolava il professor Humber, sempre a caccia di rarità sull'Antico Egitto. La ragazza li salutò con la mano, passando, e stava per salire al piano superiore, quando lo scacciaspiriti alla porta tintinnò.
Poco mancò che il gatto le scivolasse di braccio: sulla soglia era apparsa l'ultima persona che si sarebbe aspettata di veder entrare in negozio. Incerta per un secondo, decise di sgattaiolare nell'ombra, in osservazione. Voleva proprio vedere che cosa avrebbe fatto.

Jerome Dampton si aggirò per un paio di minuti, le mani in tasca, guardando in giro evidentemente alla ricerca di qualcosa, o qualcuno. Non si scoraggiò, constatando l'assenza di chicchessia, ma puntò dritto e sicuro verso la sezione di Arte, fuori dal raggio della scala.
Rebecca sbuffò, risolvendosi a doverlo seguire. S'insinuò fra gli scaffali tra Moda e Giardinaggio e rimase a guardare.
Era molto diverso senza la divisa scolastica, sembrava ancora più carino. Aveva una posa naturalmente chiasmica, che si notava quando era fermo e in piedi, come in quel momento. Non era tanto alto come le era parso in un primo momento, ma ogni proporzione si accordava con l'altra, in modo straordinariamente fine, quasi efebico. Rebecca capì facilmente come mai era diventato l'oggetto del desiderio delle ragazze più piccole, e si chiese quanto si sarebbero sorprese nel vederlo sfogliare, con interesse, cataloghi di mostre.
Quel ragazzo era un mistero; forse davvero era attratto da lei, come sembravano pensare tutti, ma lei cominciò a pensare che probabilmente nascondeva qualcosa.
Alla fine, la curiosità la vinse: posò il gatto a terra e si avvicinò al suo strano compagno di scuola.
- Hai trovato qualcosa che ti piace? - chiese, affiancandosi a lui, le mani dietro la schiena.
Jerome Dampton si voltò e sorrise, con un'espressione di pura gioia. Era un bel sorriso il suo, chiaro e aperto.
- Oh, sì, in verità - rispose, in tono leggero - Questo catalogo su Chardin è fantastico - e lo mostrò. Aveva pochissimo accento, ma il modo fluido con cui pronunciò " Chardin " avrebbe fatto sciogliere un sasso.
Rebecca si rese conto di stare fissandolo e si riscosse:
- Immagino di sì - replicò, in fretta, ma lui parve non accorgersi del suo imbarazzo. Sorrise ancora e le tese la mano:
- Scusa, credo di non essermi presentato: Jerome Dampton - Lavier. Frequento la St. James, ma penso che tu già lo sappia - disse.
La ragazza accettò la stretta e ribatté:
- Non penso che ci sia bisogno di dirti io chi sono -
- No, infatti. Forse saprai anche che non sono qui per caso, Rebecca - replicò lui, guardandola con intensità.
- Vuoi chiedermi di uscire ora o preferisci prima fare altre due chiacchiere? - chiese Rebecca, decisa a tagliare la testa al toro il prima possibile.
Jerome mise un'espressione di stupore autentico, poi scoppiò a ridere:
- Dio, sono un attore terribile. Temo si sia creato un mezzo malinteso - rispose. Davanti alla perplessità di lei, si affrettò a spiegare:
- Non volevo chiedere di uscire a te, benché tu sia una ragazza splendida. Avevo in mente un'uscita di gruppo, in realtà -
Rebecca rimase per un istante di sale: a parte la spontaneità di quel complimento, non era sicura di aver capito:
- Vuoi uscire con me e con i miei amici? - tentò, e Jerome annuì.
- Perché? Cos'hai in mente? - chiese, sospettosa. Lui sospirò:
- Avevo già messo in conto una reazione del genere. Puoi smettere di preoccuparti: non mi manda Robert Stonehall né nessuno dei suoi. Non sono un sabotatore o una spia - e lo disse quasi ridendo fra sé.
La ragazza lo squadrò un lungo istante, poi parlò:
- Sa Dio cosa ti ha detto Robert su di noi, ma ti voglio credere - replicò, meno diffidente. Non era nello stile di Rob fare quel genere di cose.
- Niente di così tragico, ma mi pare di capire che i rapporti sono stati burrascosi - osservò Jerome - E che voi due non vi siate lasciati molto civilmente - aggiunse, un po' esitando.
- Te l'ha detto lui, di noi? - chiese Rebecca, con calma indifferente, ma Jerome scosse la testa:
- L'ho intuito. L'amore finito lascia sempre una certa sfumatura nel tono di voce - dichiarò. La ragazza, suo malgrado, era colpita. Quel ragazzo andava approfondito, messo in chiaro adesso che ciò a cui mirava non era lei. Però doveva scoprirlo.
- E va bene - decise, infine - Domani suoniamo al Green Fairy, alle nove. Sei il benvenuto -
Il ragazzo francese sorrise di nuovo:
- Grazie, non te ne pentirai, Rebecca - disse.
- Non darmi un motivo per farlo - fu la sua replica.
Un distinto rumore di fusa risuonò fra di loro: il gatto andava strusciandosi fra le gambe in cerca di coccole. Jerome lo accarezzò, lisciando il folto pelo bruno e bianco e lesse ad alta voce il nome sulla targhetta: - Darcy -
Fissò Rebecca, con aria divertita - In effetti, un po' l'aria da Lizzie ce l'hai, ma secondo me, sei molto più Cleopatra -
Lei lo guardò, senza capire.
- Piuttosto che consegnarti al nemico, meglio l'aspide - precisò Jerome Dampton - Lavier, e con un cenno di saluto, se ne andò.

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