Solitudine

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    Si dice che non importa quanto l'essere umano si circondi di persone se esso deciderà comunque di avere il cuore arido come un deserto soffocante, nel quale non vi è altro che distese di sabbia e il silenzio di un'anima che ha scelto di chiudersi in sé stessa. A volte si dimentica quanto ci si possa sentire persi in mezzo ad una folla, tanto quanto essere abbandonati in un luogo desolato.
    Eppure esistono persone che scelgono questa strada, imparando così l'essenza del saper contare solo sulle proprie forze. Esse non sono spaventate dai silenzi, in quanto vivono di essi e non ne soffrono. Sono coloro che tramutano quella che di solito viene considerata una maledizione in una benedizione, che trovano sollievo nel concetto a cui di solito viene dato il nome di solitudine.

    Tuttavia, c'era un ragazzo che neanche conosceva il significato di questa parola, in quanto per lui la scelta di vivere distaccato dagli altri non era nient'altro che banale normalità, qualcosa che era sempre stato presente nella sua vita, fin dalla più tenera età. Essere solo non aveva importanza per lui, così come non lo aveva essere circondato da quelli che alcuni comunemente avrebbero chiamato "amici". Non c'erano mai state alternative per Akutagawa Ryunosuke, ma a lui questo non era mai importato. In fondo perchè mai avrebbe dovuto preoccuparsi di ciò di cui ignorava l'esistenza? Non poteva esistere la solitudine se neanche sapeva di che cosa si trattava, non poteva soffrirne se ne era sempre stato inconsapevolmente avvezzo.

    Ma nascere e crescere in una fredda innocenza che proteggeva il suo cuore da sentimenti simili non significava esserne immuni per sempre. Il ragazzo iniziò a capirlo il giorno in cui quella che ormai considerava normalità venne sconvolta per sempre.
    La stessa notte in cui il suo mentore sparì senza lasciare traccia.

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    Varcare la soglia di quella stanza angusta e buia significava sempre provare quella strana sensazione, quella fastidiosa fitta al petto che lo faceva sospirare e corrugare le sopracciglia in una smorfia infastidita appena accennata. Akutagawa si sentiva come smarrito – odiava ammetterlo – quando entrava nel vecchio studio di Dazai; quel luogo era tale e quale a come era stato lasciato, con solo più strati di polvere e molti più fantasmi del passato ad abitarlo. Nessuno aveva spostato niente da quella notte, perché nessuno della Port Mafia si sarebbe mai sognato di reclamare quelle quattro mura umide che davano l'aria di uno scantinato piuttosto che dell'ex-ufficio mezzo vuoto di colui che un tempo era stato uno dei membri più importanti.
    Il ragazzo non sapeva spiegarsi perché in alcune notti finisse per ritrovarsi di nuovo lì, a vagare in quella stanza con lo sguardo. Ignorava il motivo per cui la luna che filtrava dalla piccola finestra, mostrando timidamente il pulviscolo in controluce, lo facesse sentire a quel modo. Erano emozioni confuse, sentimenti anomali che detestava perché lo facevano sentire disorientato, ma ai quali si abbandonava quando, di sua spontanea volontà, decideva di riaprire quella porta per annegare in un passato che ormai non esisteva più da anni.

    Ricordava ancora la prima volta in cui ci aveva messo piede. La sua attenzione era subito stata catturata dall'unica libreria in legno scuro, abbastanza grande da riempire una parete, ma quasi priva di qualsiasi oggetto che la potesse colmare, se non per qualche libro sparso qua e là, posto in maniera disordinata come se fosse stato messo lì obbligatoriamente per riempire uno spazio altrimenti vuoto. Persino la scrivania al centro della stanza dietro alla quale sedeva Dazai sembrava intoccata; non un documento, non un calamaio o una penna, niente di niente. Solo una piccola lampada vicino allo scrittoio, che Akutagawa aveva fissato per tutto il tempo che aveva trascorso in quella stanza la notte in cui era stato condotto alla Port Mafia, per paura di incrociare quegli occhi di cui aveva già un timoroso rispetto. Sembrava un ricordo così lontano, quando poi il rispetto di quel bambino raccolto per strada si tramutò in assoluta devozione, quando finalmente smise di abbassare la testa quando entrava in quello studio. Il ragazzo iniziò ad affrontare gli occhi del suo mentore con voglia di dimostrare quanto valesse, vivendo giorno per giorno con l'assoluta certezza che ogni punizione, ogni percossa, ogni lezione che Dazai gli impartiva fosse giusta e meritata. Era con la forza d'animo di chi era stato abituato a contare solo su sé stesso che lo guardava dall'altra parte della scrivania, incrociando l'oscurità di quello sguardo che, se il giovane fosse stato più incline a comprendere l'animo altrui, avrebbe scoperto essere il riflesso di un'anima simile a quella stanza arredata a stento con l'essenziale, al solo scopo di non evidenziare il vuoto di quei mobili che coprivano le pareti come scheletri lasciati a marcire.

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