Alice sbatté più volte le palpebre, arricciò il naso e sbadigliò sonoramente. Le ci vollero pochi secondi perché il suo sguardo si trasferisse dal soffitto bianco accecante alla stanza in cui si trovava. Il balcone poco distante era aperto, e le tende di lino chiaro svolazzavano in balia di un leggero venticello, lasciando intravedere l'accenno di un giardino oltre il balconcino. Alice aggrottò le sopracciglia per il dolore alle gambe e alle braccia che le aveva risvegliato in maniera poco delicata i sensi: doveva aver preso proprio una brutta caduta. Si alzò con cautela dal letto soffice, e notò come il suo aspetto fosse perfettamente in ordine: i capelli biondi erano ordinati e lisci, senza foglie secche o fastidiosi rametti impigliati nelle ciocche. Il volto appariva leggermente pallido, graffiato in alcuni punti, ma pulito, così come i vestiti che indossava. Qualcuno doveva averla cambiata, perché nel guardarsi allo specchio quella larga camicia di tela color avorio non era sua, né i pantaloni dello stesso colore. Chiunque l'avesse lasciata riposare in quella stanza doveva essersi preso cura di lei: su un cassettone di ciliegio l'abito bordeaux era ripiegato con cura, e la sedia a dondolo di legno nell'angolo aveva il cuscino stropicciato, come se qualcuno vi si fosse seduto a lungo. La ragazza si portò una mano a massaggiarsi la testa e ciabattò fino alla porta, solo quando mise mano alla maniglia, si ricordò tutto. La passeggiata. Lo stregatto. La discesa...
«Sottomondo! » esclamò d'improvviso, come se le si fosse finalmente rivelato il quadro finale di uno scenario a lei familiare. Il cuore iniziò a martellarle in petto: corse fuori, tra i corridoi dalle alte colonne di marmo e il pavimento a scacchi, girò per altre stanza, urlando e ridendo assieme.
Poi successe una cosa.
Si ritrovò nel giardino del castello, un giardino ben curato proprio come se lo ricordava, dalle siepi ordinate e romantici pergolati di rampicanti. Era pomeriggio inoltrato, lo notò dalla luce arancione che calava di sbieco sul paesaggio. Accanto una fontana, c'era una panchina, una semplice, sulla quale vi erano appoggiate un paio di rose nere. Nere come la pece.
Alice si avvicinò curiosa, ignorando il fresco venticello che le solleticava la pelle attraverso fastidiosi brividi. Fece qualche passo e si sedette, appoggiandosi sul grembo i fiori. Se li rigirava tra le dita, e pensava incantata, persa nel suo mondo di fantasie. Una voce la fece sobbalzare, e si punse con una delle spine acuminate.
«La Regina Bianca non apprezzerà questa scelta stilistica, ma personalmente le trovo più affascinanti così. Le rose rosse sono così... Banali. » il tono sarcastico e acido provenne da una sagoma semi nascosta da un grande cespuglio di orchidee, eppure Alice non dovette vederlo per capire che era lui.
«Cappellaio? Sei davvero tu? »
Si alzò di scatto, lasciando cadere a terra il piccolo boquet, scattò in un moto disperato dietro quel nascondiglio, e se lo trovò davanti.
Tarrant, il suo amato cappellaio matto e pazzoide, amico strampalato nonché ballerino dalle vivaci movenze.
Non si rese conto di quanto le era mancato finché non se lo trovò davanti e l'impulso di abbracciarlo la travolse subito come un desiderio a lungo represso. Lui la guardò, con le labbra rosse schiuse in una piccola o, le folte sopracciglia rosso carota inclinate in un'espressione esterrefatta. Il pallore sul suo viso sembrava essere aumentato alla vista di Alice, la mano destra che reggeva una rosa ancora rossa, rossa come il sangue, tremò visibilmente, finché la stessa presa si allentò e il fiore cadde.
«Cappellaio... » lei ripeté il nome, il labbro inferiore venne stretto tra i denti come sfogo emotivo, e le sue dita scivolarono tra quelle dell'antico compagno, stringendole. Alice sorrise, con le lacrime agli occhi, e si buttò al suo collo, legandolo a sé nell'abbraccio più forte che gli avesse mai dato
«Dio, oh Dio quanto mi sei mancato» singhiozzò sulla sua spalla.
«Alice... » sussurrò il suo nome con dolcezza, sfiorandole i capelli corti con più delicatezza possibile
«Sei tornata... - bisbigliò confuso - non andare più via, ti prego. Senza di te... Sono ancora più matto del solito, ma matto in senso negativo. Matto come un matto che si rende conto della sua mattezza e sa che non può essere non matto» iniziò a farfugliare parole ammucchiate, e strinse di più la giovane donna al suo corpo, perché non si separasse mai più da lui.
«Tarrant, guardami negli occhi ora » Alice gli pose le mani a coppa sulle guance, sfiorò le scure borse sotto i suoi occhi verdi con i pollici, e asciugò una sua lacrima pura e cristallina. Le sue pupille apparivano lucide.
«Ti amo così tanto » sussurrò al suo orecchio, per poi baciarlo con più dolcezza possibile. Dopo anni, lo ritrovava, matto e speciale come sempre, e non si sarebbe fatta sfuggire l'occasione di poter di nuovo sfiorare quelle labbra sottili e farle sue in un bacio profondo, pieno di scuse e di promesse. Con un sospiro di sollievo accolse la lingua vellutata del cappellaio, dal dolce retrogusto di fragola, e per la prima volta nella sua vita si sentì amata e completa. Sottomondo era il suo posto, la sua casa, e ora vi apparteneva ancora di più.
«Sei così bella... » il respiro tiepido le accarezzò il collo e si sentì cingere la vita da mani guantate di seta.
«Non lasciarmi più » Il cappellaio emise un risolino un po' isterico, e tornò a baciarla appena sotto la linea della mascella.
Alice gli cinse le braccia dietro al collo
«Non me ne vado più, lo giuro, lo giuro su quello che ho di più caro. Adesso sono qui, e ti amo. Ti prometto di non lasciarti mai più.»
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" เคაτ g๑๐δβγε "
FanfictionL'addio tra il cappellaio e Alice. ดค rενเაเ๐ทคrε ☜ ~Abbastanza triste¡!~ •È una os e non avrà continuo.• °Dedicato a @believeinyourself01. Buon compleanno tesoro!°