Il destino

16 1 2
                                    

Erano due rette che mai si sarebbero potute incontrare. Svolgevano due vite parallele, avevano due storie diverse, due motivi diversi per cui essere lì. Erano due persone estranee dell'esistenza l'uno dell'altra.
Lui era fotografo naturalista di una famosa rivista newyorkese.
Lei era una ballerina emergente, ma molto promettente.

Dwayne si trovava lì perché "le cose a NYc non andavano bene, aveva bisogno di staccare", così diceva. Da cosa? Il lavoro andava male?
Era un freddo Marzo del 2002. Il lavoro non andava male. Il lavoro non c'era più. Un aereo se l'era portato via, e con lui anche i suoi colleghi, capi, amici che si trovavano dentro quel maledetto ufficio, dentro l'intero complesso più importante di New York. Sì, lui era inspiegabilmente vivo, grazie a un incontro che l'occupò per tutta la notte e parte della mattina. Per fortuna, direbbe chiunque, tranne non lui.
La sera prima, lunedì, subito dopo aver terminato il turno di post produzione, decise di andare a bere qualcosa prima di tornare a casa. Andava in un luogo che pochi, pochissimi conoscevano. Era in un vicolo di Manhattan, con un'insegna non scritta, ma che raffigurava un foglio bianco, una penna stilografica e un calice di vino rosso, come a significare che, entrando lì, si sarebbe scoperto il luogo per eccellenza dove trovare l'ispirazione, dove anche lo scrittore bloccato sarebbe stato in grado di scrivere in un'ora tre libri.
Era un locale molto particolare, aveva sedie di ogni misura, tavoli di tutti i tipi, una stanza piena di colori, un'altra totalmente in bianco e nero, come fosse una fotografia antica. Il bancone non era del solito legno; era un bancone di cristallo che conteneva centinaia di migliaia di fotografie di ogni genere, e alcuni post it minuscoli che qua e là descrivevano i luoghi scattati, le persone ritratte, i momenti immortalati. Era l'unico locale in cui Dwayne andava. Adorava distrarsi, immergendosi in una straordinaria atmosfera come quella. Trovava puntualmente l'ispirazione per lavori nuovi, che si appuntava sul suo taccuino nero con le pagine gialle, quelle per la frittura del pesce; lo aveva comprato ad Alberobello, in Puglia, nell'unico viaggio che fece in Italia.

Madeleine, l'emergente ballerina molto promettente, era francese, precisamente di Bordeaux. Vinse un concorso nella primavera del 2002, che le consentì di fare il provino della vita e provare a raggiungere il suo sogno: Ballet de l'Opera de Paris - Lo Schiaccianoci.
Si trovava lì per quello.
Nel pacchetto del concorso, visto l'obbligo di trasferimento, le affittarono un attico in Rue Saint Honorè, a metà strada tra le Champs-Elysées e Rue de Paix, dove si esercitava per il provino che, da lì a poco, avrebbe dovuto affrontare.
Il suo attico era luminoso, grande, con un letto bianco candido ricoperto da un piumone dai mille colori. La cucina era brillante, tutta in acciaio, con i cassetti ad apertura a pressione, un frigorifero pieno di sue calamite, portate da Bordeaux. Non se ne poteva separare. Erano ricordi di tutti i viaggi che aveva fatto, dalla Grecia, all'Italia, passando per la Nuova Zelanda e arrivando fino a Los Angeles, con tappa obbligatoria a New York.

Tutti i lunedì il barista chiedeva: "Il solito?". Era un calice antico contenente del buon vino rosso, che Dwayne amava.
Ma quel lunedì era diverso. Aveva finito un lavoro che si portava dietro da mesi. Aveva voglia non solo di un bicchiere di vino, ma di scrivere, di ispirarsi, di innamorarsi di qualcosa o di qualcuno, e di sognare, sognare per tutta la notte.
Si sedette prima al bancone, poi decise di tirare fuori il taccuino dalle pagine gialle, e di sedersi al tavolo che lo ispirasse di più. Scelse la stanza Black and White, e si poggiò sul tavolo a forma di polaroid. Il suo preferito.
Appoggiò il suo taccuino. Era tutto sciupato, usurato dagli ultimi mesi con tutto il lavoro che dovette fare, appuntamenti, idee, semplici appunti, polaroid di tramonti, numeri di telefono, password, le sue generalità, gli ultimi acquisti importanti, i luoghi di lavoro, di tutto e di più. Avesse perso quel quadernetto, parte della sua vita sarebbe andata persa.
Finì il bicchiere di vino in quel calice antico, non perché fosse con dei rilievi barocchi, ma perché era grande, opaco, accoglieva il vino e lo coccolava dolcemente fino al termine.
Erano le 23:12 del 10 Settembre 2001. Ricevette una chiamata di lavoro, scappò fuori per sentire meglio. Era tardi, ma lui si era detto reperibile 7 giorni su 7, 24 ore su 24. E così era.
Finita la telefonata pagò e si avviò a casa con la sua bicicletta dai freni a bacchetta. Era una Bianchi, nera, tirata a lucido, un vero gioiello da collezione.
Arrivato a casa si mise a dormire in attesa dell'alba, quando la giornata avrebbe avuto inizio, e purtroppo fine per molti.
Alle 02:34 il telefono squillò. "Reperibilità 7 giorni su 7, 24 ore su 24, ricordalo", pensò, e brontolando si alzò per rispondere. Era un numero non salvato. Rispose una dolce voce femminile, spiegandogli di aver trovato uno strano oggetto nero e giallo, un po' stropicciato, sul tavolo dove sedeva lei quella sera. Era una voce giovane, molto fine, non americana, ma con buona padronanza dell'inglese.
Dwayne rimase in silenzio qualche secondo, spaventato per aver davvero avuto così poca memoria da dimenticarsi la sua cosa più importante. Si riprese dopo poco, spiegando alla ragazza che da lì a 10 minuti sarebbe arrivato al locale per ringraziarla e, offrendole qualcosa da bere, riappropriarsi del suo oggetto.
Arrivato al locale, Dwayne vide questa ragazza dai capelli neri, legati in un dolce chignon molto alto; era piccolo, elegante e ordinato, esattamente come quello che indossano le ballerine di danza classica. La prima vera cosa che notò, però,  erano i suoi occhi: verdi petrolio, non ne aveva mai visti di più belli, pur essendo un buon osservatore, come ogni fotografo che si rispetti.
La ragazza si avvicinò, quasi affannata dall'emozione, allungò il suo esile braccio per porgere la mano e presentarsi, ma Dwayne, spinto dalla foga, non stentò ad abbracciarla; gli aveva salvato probabilmente la carriera, vista la quantità spropositata di informazioni che quel taccuino aveva inglobato in quegli ultimi mesi.
Come promesso, si sedettero e Dwayne le offrì da bere. La ragazza non voleva un cocktail, nemmeno un bicchiere di vino. "Non posso", disse. Allora ordinò per lei un thè freddo e per sé un altro bicchiere di rosso; doveva distendere i nervi tesi.
Perché non poteva? Era astemia? Altrimenti per quale motivo? Aspettava un figlio? Sportiva?
Madeleine, così si chiamava, visto lo sguardo perso di Dwayne, quasi a significare che non gli tornassero i conti sul motivo per cui lei non potesse bere, gli disse:"BALLERINA!" Certo, era una ballerina di danza classica. Come aveva fatto a non pensarci prima! Lo chignon era l'indizio giusto.
"Sono francese, di Bordeaux. Sono qui a NYc per vedere un Balletto nel weekend, che possa essere di ispirazione per il provino che tra qualche mese dovrò fare, e ne ho approfittato per visitare la città. Sono curiosa, ho sempre sperato di venire a New York. Ho colto la palla al balzo, fatto le valigie e preso l'aereo. Non credevo di incontrare qualcuno come te. O meglio. Speravo. Ma non credevo".
Lei aveva 23 anni e tanti sogni nel cassetto, viaggiare, innamorarsi di un uomo bello e che avesse delle vere passioni, come lei. Non poteva permettersi di avere al suo fianco una persona che non capisse cosa volesse dire fare dei sacrifici per ciò che si ama. Doveva essere quello giusto. Il suo vero sogno, comunque, era solo uno: Ballet de l'Opéra de Paris: Lo Schiaccianoci.
Lui aveva 25 anni e tanti sogni, molti realizzati, altri in via di sviluppo, altri ancora in cantiere. Aveva viaggiato, viaggiava, lavorava nel ramo che più amava; aveva una passione per la fotografia che lo rapiva, non lo lasciava respirare a sufficienza da potersi permettere la ricerca di una fidanzata, perché nessuna avrebbe mai capito cos'era davvero per lui quella passione, così preferiva lasciar perdere e dedicarsi completamente al lavoro che amava, quasi più di se stesso.
Andarono avanti a parlare tutta la notte, e per fortuna il locale aveva l'apertura continuata 7 giorni su 7, 24 ore su 24, come il telefono di Dwayne.

I'll tell you a story #I       Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora