Hurricane

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***NOTE INIZIALI***
Prima d'iniziare tengo a precisare che questa fanfiction è stata scritta tre anni fa e ha al centro una coppia davvero strana e inusuale.
Com'è nata questa idea? Durante una noiosissima lezione di Greco, io e una mia amica abbiamo deciso di lanciarci una sfida: dovevamo scrivere una fanfiction su una coppia assurda mantenedo i personaggi più IC possibile e cercando di far passare i due per una cosa "normale"!
Spero vi piaccia e non decidiate di fermarmi davanti al solo pensiero di una coppia così strana! :)




Mancavano solo un paio di settimane alla partenza per il nuovo anno scolastico - il quinto per Harry, Ron ed Hermione - e il caldo tipico del mese di Agosto si stava facendo sentire molto. Moody, Kingsley e Ninfadora erano al Ministero - avevano un'importantissima riunione con tutto il resto del reparto Auror -, Sirius era uscito sotto forma di animagus in compagnia di Remus per sgranchirsi le gambe e respirare un po' d'aria fresca e la Signora Weasley era con i figli ed Hermione a fare un giro per le vie di Londra. In definitiva, quel giorno al numero 12 di Grimmuld Place si trovavano solo Fierobecco, Kretcher, Harry Potter e Arthur Weasley.

Harry era coricato sul suo letto, le braccia incrociate dietro la testa e la mente lontana. Sospirò pesantemente e gli occhi iniziarono a pizzicargli terribilmente. Avrebbe voluto morire. Sì, per lui in quel momento la morte non sarebbe stato altro che il premio più ambito al quale avesse potuto aspirare, l'unico in grado di farlo sentire in pace come non lo era da mesi e impedirgli di soffrire. Ma sapeva bene che quella era una gara persa in partenza: lui era il Prescelto e avrebbe dovuto soffrire molto di più prima che la sua anima finisse nell'Ade. Serrò ferreamente gli occhi. Una fascio verde, l'Avada Kedavra, e iridi grige che fissavano vitrei il cielo scuro comparvero dal nulla nella sua mente. Spalancò le palpebre e si mise a sedere, le ginocchia contro il petto, i gomiti appoggiati su di esse e le mani seppellite nella folta chioma corvina mentre calde e amare lacrime gli scendevano ai lati degli occhi, tracciando umide scie sulle sue guance.

Cedric era morto. Ma lui non poteva accettarlo, non voleva accettarlo. Tutte le volte che chiudeva gli occhi - sia di giorno che di notte - il ricordo della sua morte lo assaliva e vedeva la Dama Nera portare via anche una parte di lui oltre all'anima di Cedric. Già perché lui, Harry James Potter, era gay, era follemente innamorato di Cedric Diggory e avrebbe dato qualsiasi cosa per essere morto al posto suo, per fare in modo che non ci fosse il corpo del suo amante a terra senza vita quel giorno. Avrebbe voluto poter rivivere i dolci momenti passato insieme - nettamente di più rispetto a quelli trascorsi soli - in un letto nella Stanza delle Necessità - stupefacente luogo che avevano scoperto una mattina di Dicembre quando si erano ritrovati al settimo piano - o nella grande vasca del bagno dei Prefetti a fare l'amore.

Un singhiozzo salì dalla sua gola, riempendo il silenzio della stanza. Si alzò di scatto e uscì dalla stanza, percorse a grandi falcate il ballatoio ed entrò nel bagno. Si chiuse la porta alle spalle e strinse saldamente il bordo del lavandino bianco tra le mani, facendo diventare le nocchie chiarissime, mentre le lacrime continuavano a scendergli fino al mento per poi tuffarsi nel lavabo. Non avrebbe più potuto sentire le braccia di Cedric cingergli la vita, non avrebbe più fatto passare le dita tra i suoi morbidi capelli, non si sarebbe mai più specchiato nei suoi occhi, non lo avrebbe mai più baciato e non avrebbe mai più potuto fare l'amore con lui. Ed era tutta colpa sua: lui era il Prescelto, la gente moriva a causa sua - in particolar modo le persone che gli stavano più a cuore.

Aprì il rubinetto dell'acqua fredda, si sollevò gli occhiali tondi sulla testa e si sciacquò il viso una, due, tre volte sfregandosi la pelle come se così facendo potesse scacciare anche tutto il dolore e il rancore che, lentamente, gli stavano divorando il cuore e l'anima rendendolo l'ombra di se stesso. Si riappoggiò gli occhiali sul naso e strinse di nuovo convulsamente il lavandino tra le mani, alzò lo sguardo sulla sua immagine riflessa nello specchio; alcune ciocche corvine bagnate gli aderivano alla fronte, il viso pieno di goccioline d'acqua che cadevano nel lavandino, la pelle del volto arrossata dall'attrito provocato dalle sue mani, gli occhi smeraldini arrossati dal pianto. Serrò la mascella. Fu un attimo. Con un grido di rabbia la mano destra, chiusa a pugno, saettò verso l'alto e colpì lo specchio, rompendolo. Le schegge gli tagliarono la pelle e iniziò a sanguinare copiosamente, tingendo il lavandino di rosso. Harry lentamente allontanò la mano dallo specchio, l'aprì e la scollò lievemente per far staccare le schegge. La fisso per lunghi minuti, il sangue che continuava a sgorgare dalle ferite gli provocava un dolore allucinante, ma non lo sentiva: la sua mente era lontana, persa in dolorosi pensieri e ricordi. In quel momento voleva farsi male, solo per vedere se esisteva un dolore fisico più forte di quello che gli colpiva di continuo il cuore. Ma ancora non si stava facendo abbastanza male. Ristrinse il pugno e caricò un altro colpo, ma una mano, leggera, gli si posò sulla spalla sinistra, stringendo appena, ma abbastanza fermarlo.

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