L'anziano

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L'affetto che provavo per M. era immenso, anche se certe sere non rispondevo nemmeno a ciò che mi chiedeva. Tanto diversi, così vicini. Ancora, se mi concentro, posso vedere la folta schiera di baffi cinerei accarezzargli il labbro durante la parlata dal tono superiore ed arrogante tipico degli uomini di una certa età. Diceva che ero abbastanza intelligente da poter, in futuro, assomigliargli. Io, di risposta, ridevo quasi forzatamente: sapevo bene che mi sarebbe piaciuta una vita simile, sapevo ancor meglio quanto sarebbe stato dannoso per il mio orgoglio se M. avesse conosciuto la mia stima per lui. Così, trascorsa la modesta cena, mi ritiravo in cucina a lavare i piatti, prestando di tanto in tanto attenzione al suo discorso, che era ormai divenuto un monologo. Non era soltanto maleducazione, la mia: il rumore dell'acqua fredda sull'acciaio maculato bianco calcare mi impediva di capire totalmente le parole. Spesso, infatti, per non chiedere ad M. un'ennesima volta di ripetersi, andavo ad intuito, e devo ammettere che questa fu la principale causa delle nostre incomprensioni. Ancora oggi non riesco bene a capire  cosa mi spingesse a frequentare M. così assiduamente: non traevo alcun vantaggio né dai suoi discorsi né dalla sua cucina, dato che spesso e volentieri si mangiava la solita minestrina tanto cara agli anziani. Inoltre, chiunque ne abbia avuta anche solo un'effimera esperienza, sa quanto sia noioso trascorrere tempo in compagnia di un vecchio. M., però, malgrado gli anni, era un nonnetto solo all'apparenza. O meglio, era un ottantenne in tutto e per tutto, ma aveva conservato una prestanza fisica che gli permetteva di tramutare i suoi pensieri in azioni, uno spirito giovanile che gli impediva di passare per un ipocrita: quando M. diceva qualcosa, la faceva. Aveva una determinazione invidiabile, unita a decenni di esperienza che gli regalavano una totale indifferenza riguardo al parere altrui, quello che si dice "non avere peli sulla lingua". Ricordo che rispondeva a chiunque, senza essere offensivo, con una tecnica persuasiva eccelsa, il cui apice era apprezzabile nelle centinaia di bollette mai pagate senza alcuna ripercussione legale. Quando i creditori lo chiamavano, aveva sempre la risposta pronta e, per poco, non riusciva persino ad invertire i ruoli nella conversazione. Ha sempre avuto coscienza della sua capacità, M., e mirava a trasmettermela. Dal primo momento in cui l'ho conosciuto, infatti, preparava quelle che lui chiamava "le Commissioni" e che io, non capendo ancora totalmente la sua filosofia, rinominavo: "Cose che tu non vuoi fare per vergogna e fai fare a me". Per fare un esempio che aiuti il lettore a comprendere cosa intendo, potrei parlare di quella volta in cui M. mi obbligò a chiamare il numero verde della sua compagnia elettrica per attivare un nuovo abbonamento, nonostante egli avesse infiniti arretrati da pagare. La cosa fu alquanto imbarazzante: ad un certo punto della telefonata, l'operatore mi aveva chiesto il codice fiscale del contraente e M., quel bastardo, non me lo voleva dare, in modo che la Commissione assumesse una difficoltà maggiore. Così, preso dal panico, avevo riattaccato il telefono dopo dieci secondi comodi di scena muta, facendo una figuraccia con l'uomo che stavo chiamando, che sicuramente mi credette un truffatore, e con M., che mi disse che ero ancora troppo giovane per riuscire in determinate cose. La rabbia che mi salì in quel momento fu tale che rubai dal cassetto un antico orologio a cipolla dorato tanto caro all'anziano, approfittando di un suo momento di distrazione alla TV. Poi, invece, lo rimisi a posto, non tanto perché avessi perdonato M., giammai, ma per la paura che il male fatto mi tornasse triplicato. Quella sera, però, ricordo che, in una sorta di vendetta, ero tornato a casa prima del previsto. Mi pare che fosse una sera di fine maggio, di quelle in cui ci si accorge dell'arrivo dell'estate poiché il vento sulle braccia lasciate nude dalla maglietta a maniche corte si percepisce con piacere, come fosse una sorta di consolazione dall'inverno. Tuttavia, preferivo il gelo al caldo estivo. In realtà, devo ammettere che non era tanto una questione di clima: sapevo che la bella stagione significava tempo libero, e il tempo libero si apprezza solo quando si inizia ad apprezzare se stessi. Penso che nemmeno ad M. dovessero piacere particolarmente le vacanze, dato che continuava, nonostante l'età, a lavorare come un forsennato cercando, probabilmente, soddisfazione nell'esigua paga di fine mese. Forse, di tutto ciò che segretamente ammiravo di M., questa era l'unica cosa che non avrei voluto mi fosse trasmessa: sognavo l'anzianità come un periodo di profonda pace interiore e preparazione all'ignoto, nonostante non conoscessi davvero nessuno che potesse dare questa impressione, perlomeno a prima vista. Tutti i pensionati che incontravo parevano annoiati e scorbutici, e anzi mi sembrava che col tempo tendessero ad impazzire come rendendosi conto di una vita spesa per tutti tranne che per sé. Io non volevo diventare così, ma a quanto pare ne ero destinato. Erano ormai passate due settimane dalla fatidica sera della Commissione e M. non lo avevo più visto. Mi sembrò carino passare a salutarlo, perché non pensasse che me la fossi presa troppo. A dire il vero, la mia assenza da quella casetta antica era dovuta più a una mancanza di tempo che di voglia: ero stato impregnato di studio per almeno dodici giorni in vista dell'esame di informatica e mi ero totalmente scordato del mio amico. Il tredicesimo giorno, invece, il mio cervello non ne voleva più sapere di programmazione: era chiaro che avrei dovuto trascorrere la serata da M., giusto per staccare un po'. Uscii di casa fantasticando sull'incontro che mi aspettava, non che fosse qualcosa di importante, ero abituato inconsciamente ad immaginare il futuro e, talvolta, me la prendevo con me stesso quando la realtà si discostava dalla fantasia, forse perché la seconda spesso rende monotona la prima. Ricordo quella sera per il cielo plumbeo che sovrastava la mia mente vagante e talvolta brontolava come volesse segnalare la sua presenza. In effetti, era un po' che non lo guardavo: per qualche strano motivo, nonostante mi sentissi uno "apposto", la mia camminata era caratterizzata dalla testa rivolta verso il basso, tanto che sulla mia nuca si potevano contare le vertebre che sporgevano, come se la spina dorsale si fosse curvata per accompagnare questa mia strana abitudine. Ingenuamente, ero convinto che questa singolarità rendesse il mio corpo più piacevole esteticamente, e quando incrociavo una persona ero fiero di puntare la vista sul pavimento e tirare dritto per la mia strada. Dopo qualche ettometro di asfalto percorso con gli occhi, mi accorsi di essere arrivato. Entrai, come al solito, senza bussare: ormai ero di casa. Vidi M. darmi la schiena seduto alla solita poltrona ed affiancato da una tazza di tè verde poggiata sul tavolino. "Hey là, è un po' che non ci si vede, ah?". Nessuna risposta. Non ho mai percepito chiaramente il mio corpo come in quel momento: forse non avevo mai considerato cuore, schiena, gambe come cose importanti, ma ora potevo contare precisamente i battiti del primo, i brividi che salivano per la seconda e i cedimenti delle terze. Mi incamminai verso il mio amico molto lentamente, perché non vedendolo con i miei occhi avrei potuto ipotizzare qualunque cosa. Posso annusare ancora oggi l'odore di chiuso che mi torturava le narici e il fischio continuo nelle orecchie, simbolo di una bassissima pressione; ad ogni passo mi sembrava di essere in un sogno, ma la realtà, per una volta, era decisamente meno monotona di qualsiasi mondo onirico. M. era seduto con il mento appoggiato al petto e le mani incrociate poste in mezzo alle gambe grazie all'appoggio dei gomiti su di esse, nella classica posizione di chi si riposa un'oretta dopo pranzo prima del lavoro pomeridiano. Ma, stavolta, il riposo sarebbe stato eterno. Non so perché, ma quella vista mi inquietò meno di quanto pensassi, come se il peggio fosse già passato. Pensavo che, in una situazione simile, mi sarei messo ad urlare nella maniera che si vede nei cinema: in ginocchio sul pavimento, con la faccia rivolta verso l'alto e stringendo i pugni. Invece, mi sedetti pacificamente nella poltrona adiacente. Quanti discorsi avevamo fatto insieme comodi tra quei cuscini! Non so bene quanto tempo passò da quel momento a quando mi alzai per tornare a casa, di certo quella sera imparai la lezione più importante tra tutte quelle che ho appreso da M.: la vita finisce. Una cosa banalissima, vero, ma quante volte ce lo scordiamo? Io, tutt'oggi, me lo dimentico spesso, poi rivedo M. lì, seduto, zitto, immobile, che mi insegna tutto più efficacemente di quando filosofeggiava per ore, e mi ronza in mente la semplice lezione tra mille codici e linguaggi. 

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