Viaggio Low Cost

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Zero. È il saldo totale del mio conto corrente. E  questo è impossibile. È davvero impossibile. Eppure il totale dei soldi nel mio conto è questo. Zero. Nulla. Sono totalmente senza un soldo. Disguido bancario dicono. Non mi interessa. Sto bene. Si, incredibilmente sto bene. Non possono permettermi niente di più dell'aria inquinata che sto respirando in questo momento senza accorgermene. Ma non sento necessità di avere nulla di più di quello che ho. Il ticchettio dei tasti che solcano la musica che sto ascoltando. Un piano forte che si espande, immerge le pareti nel  colore acceso, e poi una voce. Una voce che si destreggia nelle tonalità basse di quei tasti bianchi e neri.  Ne percepisco le note, le riconosco, immagino i movimenti sciolti delle dita consapevoli di dove dirigersi. Verso quel suono. Nel posto giusto. E tutto questo si mescola energicamente a ciò che mi gira per la testa. Sapete, non c’è niente di più bello di un bel discorso con qualcun per sentirsi pieni di tutto ciò che quella persona può dare. Comunicare. Comunicare è la nostra forza più grande. Me l'ha detto un amico. Qualcuno che ha una comunicazione di un'intensità enorme. Ne ero affascinato. Ne ero estremamente colpito. Lo sono ancora. Lo sono perché comunicare non mi riesce bene. Uno scrittore che non sa comunicare. Paradossale. Sono parzialmente afasico. Decine di migliaia di parole imprigionate nella mia mente senza riuscire a sfruttarle. Ma a volte, come se i cancelli si spalancassero tra cigolii e sferragliamenti, escono. Un’onda anomala di termini, che si conciliano in pensieri. Significati. Frasi. E nasce la mia libertà. Mi sento libero di poter viaggiare. Vedere posti, luoghi di estrema bellezza, città deserte e dimenticate, praterie che si estendono oltre a qualsiasi cosa. Nasce una libertà che si espone oltre il mio essere fisico. Il mio stazionamento nel luogo in cui sono. Scrivo. Nulla di più fottutamente incredibile. Sono libero. E questi fogli si stanno per imprimere di ciò che vedo. Parlando di gente che non ho mai conosciuto. Ma che non ha nulla di diverso da me. Come questa contadina, in una risaia tra Lubhu e Godawari. Nei suoi abiti sgargianti. Un rosso che si esternava in quel verde acceso, che la circondava per centinaia di metri quadrati. Immersa fino a metà polpaccio nell’acqua torbida e fango. Sorrideva. Aveva un sorriso reale. E guardava nella mia direzione. Nonostante fosse piegata da tutto il giorno a raccogliere quei ciuffi d'erba spiccanti dal terreno coperto di acqua. Mi guardava. Sorrideva e mi guardava. Porse il ciuffo verde nel cesto accanto a lei, si raddrizzò la schiena visibilmente deformata e fece cenno di avvicinarmi. Ed io mi avvicinai senza timore. Il sole si riflesse sull'acqua, accecandomi momentaneamente. Le mie scarpe affondavano nel fango e la mia camminata divenne sempre più goffa e pensante. Ma avanzavo. E nel frattempo la contadina continuava a farmi il gesto di avvicinarmi a lei, sempre più freneticamente e, quando arrivai a pochi passi da lei, iniziò a cercare in una delle tasche del suo vestito rosso. Estrasse del chapati, e me ne porse un pezzo. Ne presi un morso e iniziai a masticare, sentendo il sapore della farina avvolgermi la bocca delicatamente. E mi guardò. sorridendo. Sorrideva. Non faceva altro. I suoi occhi trasmettevano benessere. Ogni ruga sul suo volto narrava uno storia e le ascoltai tutte. Non disse una parola, ma comunicò ogni suo pensiero. Avevamo lingue totalmente diverse ma capii tutto. Capii tutto quello che non c’era da capire. Osservai tutto intorno a me. L’enorme distesa di risaie da cui ero circondato. Le montagne che laceravano la distesa piatta. Le colline che preavvisavano l'incombere delle montagne. E mi sentii libero. E mi mossi all'improvviso. Ero seduto in un molo. A Lebu. Una piccola barca stava piano portandosi nella mia direzione. Portava con se un ragazzo. Non avrà avuto più di vent'anni. Stava riportando a casa il pescato. Lo sguardo faceva capire che la stanchezza gli aveva avvolto il corpo. Lo copriva. E la piccola imbarcazione, sovraffollata da reti e canne da pesca, si avvicinava sempre di più al pontile che mi teneva sospeso a pochi centimetri dall'acqua. Il mare era calmo. Colmo di colori del tramonto che, di lì a poco, si sarebbe tramutato in buio. Il giovane ragazzo fece delicatamente abbordare la barca al pontile, ne assicurò le funi all'ormeggio e iniziò a scaricare le due casse di legno logore che custodivano il pescato del giorno. Mi alzai. Le gambe cedettero momentaneamente, facendomi barcollare. Quando dopo pochi secondi il mio equilibrio si ristabilì, mi offrii di dargli una mano. Il vento si alzò lievemente, abbastanza da raffreddare la pelle e far notare la sua presenza. Per ringraziarmi dell’aiuto mi offrì di mangiare con lui e la sua famiglia. Passammo la sera in questa piccola abitazione nella periferia della città. Mangiammo, e ogni boccone sapeva dello sforzo del ragazzo. Sapeva di fatica. Sapeva di qualcosa che non avevo mai provato. E quelle pareti rossastre davano calore.  E in quel piccolo salotto, seduto ad un tavolo di persone che non conoscevo, mi sentii a casa. La cena finì e mi diressi verso la porta, tra dolci saluti familiari e benedizioni da parte dell'anziana signora che governava la dimora. Varcai l'uscio e fui trasportato in numerosi altri posti. Dai Souk di Marrakech, tra gli infiniti profumi e colori di stoffe e spezie, all'isola di Nosy Mangabe, insieme all’unicità della fauna e della flora del Madagascar. Dalla Bluefield Beach giamaicana, dove il reggae dimora sovrano, alle strade di New Orleans, ammorbidite e cullate dal tono soffice del Jazz. Dalla vita frenetica di Tokio alle distese immense di foreste del Canada. Viaggiai, ovunque. Rimanendo immobile. Fino ad arrivare a questa auto. In questa auto su un'autostrada del Nord Italia. Cinque ragazzi, cinque amici, stanno attraversando la notte in cerca di qualcosa. In cerca di un'altra avventura. E cantano. Cantano a squarciagola, senza curarsi di intonazione o altro. Cantano, bevono birra e fumano. E si sentono più vicini che mai. Tra non molto saranno arrivati alla loro destinazione. E nel frattempo cantano. Cantano di tutto. E bevono senza porsi limiti. E fumano erba senza curarsi di niente. Hanno tutto ciò di cui hanno bisogno. La loro presenza in quell'auto era tutto. Il battistrada delle gomme avanzava veloce sull'asfalto. Una luna, accesa più del solito, dormiva sola nel cielo. E la luna faceva sognare. La musica volare. E quel canto all'unisono sulle note di Battiato alleggeriva. E qualcuno guardava fuori dal finestrino. Qualcuno. Io. Me. Me Stesso. Fissavo il cielo mentre la mia bocca urlava quelle parole. Fino a quando blackout. Una curva aveva dato luogo allo spettacolo che quei cinque ragazzi rincorrevano. Il mare avvolto nella sua totale oscurità. Una macchia nera che faceva da pavimento ad una costiera sovraffollata da case. E le luci dei lampioni segnavano la sua linea, il suo marchio in quel paesaggio. E c'era silenzio. Silenzio in quell'auto che scorreva sulla strada. La musica era eccessivamente alta, ma c'era puro e armonioso silenzio. Fino a quando non divenne muta anche lei. La macchina si fermò, scesero e si sistemarono per la notte in spiaggia. La notte che li salvava. La notte che li avrebbe custoditi. La notte che li avrebbe accolti e fatto compagnia fino all'alba. E quei 5 ragazzi e la notte rimasero svegli a scherzare e ridere. Tra birre, rhum e erba. Fino a quando, uno dopo l'altro si misero a dormire, sotto una palma. Cresciuta nel posto giusto. Ma uno dei cinque fingeva. Io fingevo. Non volevo dormire. Avevo troppo addosso. Troppo dentro. Troppo tutto intorno. Mi alzai e mi diressi verso la riva, dove il mare concentrava la sua voce tramite le onde. Ed iniziai ad ascoltare una canzone. Una canzone che parlava di chilometri. Distanze. E io,  povero scrittore convinto di non esserlo, ne avevo di distanze. Forse troppe. Una distanza effettiva e affettiva. Una distanza per cui il sentimento non basta. Niente sarebbe bastato, solo il desiderio di ballare con quel corpo continuava a dare vita. Di parlare con quella mente. Di accarezzare quegli occhi con lo sguardo. Capendo tutto, tranne il sentimento che provavano. In questo era sempre stata brava. Cosa stava  cercando? Cosa sta cercando? Non lo saprò mai. Ma non so se resterà. Quando arriverò sarà ancora lì? A dirmi tutto ciò che c'è da dire insieme ai miei inutili perché? E mentre la testa volteggiava in tutto questo, il mare gioiva per la sua esistenza e il cielo si schiariva, i miei occhi guardavano una foto. Una ragazza sorridente, dagli occhi selvaggi, portava una collana familiare e faceva una smorfia strana. Era bella. Bella oltre tutto. Più bella non era stata creata ancora in questo mondo marcio.
« Potrei scriverci un libro. “Una Bella Storia” »
Lo dissi ad alta voce. Sembrava potesse essere vero. Però mancavano i contenuti. I ricordi. Era tutto troppo poco vissuto. Ma eravamo una bella storia. Strampalata. Assurda. Incongruente. Andare. Tornare. Crederci per un po’, fino al successivo “vaffanculo” e ritorno. E io ci credevo un po’ di più su quella riva. Tutto poteva essere fatto in quel momento. Sembrava tutto molto più verosimile. Più ci pensavo, più mi svuotavo. Sentivo un oblio dentro. La avrei voluta veder sorridere ancora. Aveva un sorriso importante. Lei e quel sorriso. Quel tipo di importanza che non credeva le potesse appartenere. Non la reputava mai sua. E quella importanza mi fa scrivere di lei. Sempre. Continuamente. E non sapevo il perché. Non lo sapeva nemmeno lei. E non sapevo darle risposta. Inerme. Ma quella distesa d'acqua, mi urlò contro. La fece emergere dai fondali marini e me la buttò contro. E non era niente di più facile. Limpido tra noi due. Bastava che guardasse. Era lì. Ecco il perché. Nulla di più facile da leggere. E poi, come se avessi saputo troppo, distolsi lo sguardo perso, mi alzai, accesi una sigaretta e guardai velocemente ciò che mi circondava. Riguardai altrettanto velocemente la foto e sbuffai un po’ di fumo.
« Si, quel libro potrei proprio scriverlo » dissi a nessuno.
E tornai al mio posto per dormire. Il giorno stava nascendo. Non avevo mai così tanto apprezzato la notte in vita mia. E mi addormentai stanco di aver viaggiato così tanto. Senza un euro. Maledetti disguidi bancari. Ci penserò domani. Torno a viaggiare un po’, e tu? Vieni via con me? Che dici? Potremmo stare bene. Potremmo vivere un po’. Magari scrivo quel libro. Un viaggio Low Cost. Pago io. Vieni?

Via Parma, 12.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora