Il tempo di un caffé

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Non ero neanche riuscito a prepararmi un caffè, l'inizio della giornata mi era già crollato addosso. Uscii rapidamente, col classico dubbio di non aver chiuso a chiave, e a passo svelto mi accinsi ad affrontare il mondo a cavallo di una metro.

Ma quando s'inizia una lotta contro il tempo si sa che gli eventi tendono a scorrere in una sola direzione: quella mattina la circolazione dei treni era temporaneamente interrotta e così anche la metro si prese la sua parte di presente lasciandomi un po' più d'inutile passato e un po' meno di futuro.

Alla ripresa dei viaggi i primi mezzi arrivarono già pieni, stracolmi di umanità con un bagaglio di ritardo che si accumulava sempre più. I visi erano stravolti nello sforzo di ottenere un posto, alcuni preoccupati per appuntamenti compromessi, altri depressi a immaginare faticosi recuperi del tempo perduto. Donne, vecchi e bambini, assieme a manager, studiosi, scansafatiche tutti stretti dentro vagoni che proseguivano dritti e sparivano nel tunnel di fronte.

Avevo previsto di arrivare in università con qualche minuto di anticipo per caffè e brioche nel baretto animato dalla migliore gioventù studiosa o aspirante tale. Ma col passare del tempo la durata residua della lezione all'università di cui avrei potuto usufruire andava scemando in modo inesorabile.

Sbuffando rinunciai a combattere contro l'ineluttabile e cercai di rimettermi in posizione di vantaggio cambiando del tutto l'obiettivo di quel lunedì mattina: abbandonai ogni velleità di proseguire e tornai sui miei passi emergendo dalla stazione della metro a riguadagnare la luce del mattino.

Improvvisamente libero da ritardi, mi misi in fila davanti al bar della metro per avere finalmente la mia dose di aroma e caffeina. Distratto e pensieroso non mi accorsi che alla fine della coda vendevano solo biglietti: alla porticina c'era un vecchino che scuoteva la testa alla domanda ripetuta, come uno di quei cagnolini da lunotto posteriore di una volta. Il banco del bar rimaneva chiuso.

Niente sembra così buono quanto quello che si pensava di poter avere facilmente, ma poi sfugge. L'aroma sognato punge le narici come fosse lì e, invece del sapore reale, l'immaginazione ti offre quello ideale, quello rincorso a ogni moka, a ogni macchina espresso, e difficilmente raggiunto.

Mentre giravo per la stretta via fino alla piazza del comune, passai dritto davanti alla serranda abbassata del vicino locale così frequentato da esponenti pubblici tutte le mattine, tranne evidentemente quel lunedì, primo giorno della settimana e anche giorno di chiusura.

La mia destinazione era la biblioteca, dove prendevano forma i miei pensieri e le lunghe sessioni di studio, dove fra il tesoretto di volumi faceva capolino anche un piccolo bar da pochi posti, famoso per il denso caffè dal sapore lievemente dolce di arabica, mai troppo bruciato.

Attraversai il cancello che già immaginavo la tazzina marrone con l'interno bianco, di porcellana panciuta.

Salii i pochi gradini dell'ingresso con il colore del caffè e il suo cappuccio di cremina sospesa negli occhi.

Spinsi la porta, invece di tirare, e come tutte le volte che prendevo questo ingresso diverso dagli altri, dovetti fermarmi e perdere ancora un secondo, ragionare e invertire la manovra. Intanto pregustavo la crema che avrebbe avuto un sapore come di anticipo di quello del caffè, un prologo raffinato prima dell'argomento principale.

Non c'era quasi nessuno al banco, solo un preciso impiegato che stava allineando i volumi proposti, in un florilegio di generi così diversi e così condensato in poco spazio da far girare la testa. Sentivo già che il forte caffè avrebbe sommerso la lingua avvolgendo contemporaneamente tutte le papille gustative, confondendo quelle più grossolane al centro e cullando le più delicate e precise ai bordi.

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