UNO

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Gli stivali di gomma nuotavano nelle pozzanghere: non c’era verso di evitarne una. Per giunta, tutte le volte che passava un’auto, si innalzavano certe onde oceaniche che le arrivavano fino agli occhi. Sotto il cappello – una cloche di lana rosa con un pompon sulla sommità – i suoi poveri capelli erano flosci come meduse morte. Che notte di merda! E pensare che il tragitto dal locale era breve, due isolati, ma due isolati da incubo. Ogni notte, quei due isolati le rubavano anni di vita, e all’arrivo si sentiva come una che è riuscita ad attraversare un campo minato senza perdere neanche un’unghia. Una miracolata, una gran culo. La pioggia di quella sera era un’aggiunta, una zavorra affibbiatale dal destino per aggiungere la beffa al danno. Si fermò a una certa distanza, sperando che lui non ci fosse. Non c’era sempre, appariva con irregolare insistenza: un giorno sì, uno no, uno no, e poi eccolo. Che lucida perfidia in quel gioco. Sapeva cosa fare e cosa non fare per evitare che lo denunciasse. Tanto, è risaputo che se non muori non hai diritto di rivolgerti alla polizia affinché il tuo ex la smetta di tormentarti. E se muori non ne hai la possibilità. Quindi sei fregata comunque. Si fermò oltre il palo di un lampione che funzionava a intermittenza: luce accesa, luce spenta, uno sfrigolio come di pietre focaie e un buio da thriller. Perlomeno non sembrava davanti al portone. Tutto stava a capire se fosse dentro. Emise un sospiro gorgogliante di pioggia, si addentò le labbra e si disse che non poteva rimanere lì fuori ancora a lungo. Se non muoio perché mi accoltella, muoio di polmonite. Accelerò il passo, stringendosi nelle spalle. Raggiunse l’ingresso sollevando schizzi su schizzi, neanche ballasse il tip tap vestita di giallo come Debbie Reynolds in Singing in the Rain. Che brutto edificio! Uno di quei condomini disgraziati, cadenti, una tela scrostata per graffitari mediocri, un atrio spoglio ricoperto di carta da parati dal colore indistinto che pendeva scollata in più punti. Il posto ideale per tendere un agguato alla tua ex che non te l’ha voluta dare e devi fargliela pagare in qualche modo perché non sei del tutto normale. Varcò la soglia del palazzo col cuore in gola. Era completamente buio. L’interruttore della luce scattò a vuoto. La lampadina, che penzolava da un filo scoperto, rimase spenta. Quell’oscurità, concentrata come nebbia nera, le mozzò il respiro. Succedeva sempre. Penelope, che le persone più care chiamavano Penny, aveva seri problemi col buio: perdeva il senso della realtà, rimaneva paralizzata e in preda al panico, finché si imponeva di respirare e pensare e contare fino a dieci. Allora tornava in sé, il sangue le affluiva nelle braccia e nelle gambe e riusciva di nuovo a muoversi. Ma era una tregua passeggera, giusto il tempo di ingannare per un attimo il cervello. Se non avesse trovato subito una fonte di luce si sarebbe messa a gridare. Prese il cellulare dalla borsa e lo accese: il chiarore illuminò uno spazio grigio, desolato e deserto. Salì i gradini un pochino rincuorata. Abitava al penultimo piano, e sperava che Grant non si fosse preso la briga di fare tante scale per attenderla acquattato in qualche angolo. Aveva condiviso con lui sette giorni scarsi di stupida relazione fino a un mese prima. Si erano incontrati nel locale in cui Penny lavorava. Lui era entrato, bello come il sole, elegantemente trasandato e con un sorriso incantatore. Le aveva rivolto qualche parola mentre gli preparava un mojito, e infine l’aveva attesa fuori. Il tutto con astuta delicatezza, proponendosi come corteggiatore ma senza insistere. Davanti all’ingresso del Well Purple si erano messi a conversare con straordinaria facilità: nulla, in quella notte stellata, neppure il più debole indizio, le aveva fatto sospettare che tanta bellezza e tanta eleganza potessero essere un bluff. Ma già dal terzo incontro l’acume di Penny era stato costretto a darsi una mossa. Quel ragazzo dall’apparenza perfetta, il sogno di tutte le madri per le proprie figlie, era soltanto un viziato, complessato, violento stronzetto che godeva nel tentare di umiliare le donne. Perciò lo aveva mollato senza tanti discorsi. Lui non l’aveva perdonata: da allora aveva cominciato a tampinarla ovunque. Al momento si era limitato a incuterle paura, a osservarla con un sorrisetto ferino e a fare battute minacciose, ma sempre senza testimoni. In pubblico si comportava da autentico gentiluomo, lo stesso gentiluomo che l’aveva ammaliata con modi che sembravano venir fuori da una delle puntate più significative di Downton Abbey. Ma quando era certo che nessuno potesse sentirlo, faceva cadere la maschera e sottovoce le dava della puttana. La molestava con parole dal significato inequivocabile, le prometteva un male perverso. Penny non aveva detto niente a sua nonna, non voleva spaventarla. Si era documentata su Internet, e aveva scoperto che, senza una vera e propria aggressione, dei lividi, una capatina al pronto soccorso e un paio di testimoni attendibili, difficilmente le avrebbero creduto. Grant era figlio di un avvocato, si era da poco laureato in legge, era ricco e si vestiva sempre come un modello di Abercrombie. Era anche bello come un modello di Abercrombie. Chi avrebbe mai immaginato che rappresentasse un pericolo? Penny continuò a salire le scale. A un tratto il cellulare mandò il tipico trillo della batteria sull’orlo del collasso. «Non adesso, non adesso, non adesso!» lo supplicò. Ma lo stronzo reperto sgangherato se ne fregò delle sue ragioni e si spense all’improvviso. Rimase immersa nel buio più nero, a metà di una rampa di scale. Non le restava che continuare a salire, sperando di non mettere un piede in fallo su quei gradini sbreccati. Sperando che il panico non tornasse. Ma, soprattutto, sperando che Grant non sbucasse dall’oscurità. Trattenne il respiro inforcando le scale più in fretta che poteva. Ancora tre piani, ancora tre piani. Resisti. Puoi farcela. Il buio è solo buio, non è un muro, non è un pozzo, non è il centro della terra. A un tratto, udì un distinto rumore alle proprie spalle. Qualcuno saliva con passo rapido e pesante. Impossibile si trattasse di uno degli anziani abitanti del palazzo. Lei era l’unica inquilina giovane, in mezzo a un esercito di pensionati ultrasessantenni, di sicuro incapaci di muoversi in modo così agile e vigoroso. Impedire al cuore di battere fino a scoppiare divenne una missione impossibile. Le sembrava di avere nel petto una mandria di tori. Per un istante si fermò appoggiandosi al muro, con la sensazione di stare per svenire. Poi ordinò al coraggio di tornare nei ranghi. Col cacchio che ti permetto di farmi la festa, brutto schifoso! Accelerò di nuovo l’andatura, mentre un bagliore lattiginoso si condensava al piano inferiore. Lo stronzo aveva una torcia. Penny si mise proprio a correre, con la stessa foga caotica di un cervo ferito, e raggiunse il suo piano. Respirando a fatica, cercò le chiavi nella borsa. Dannate chiavi, presero a nascondersi come se fossero complici delle odiose intenzioni di Grant. Frugò e frugò, tastando una marea di cianfrusaglie – un libro tascabile, M&M’s disseminate sul fondo, fazzolettini di carta, una boccetta di smalto, burrocacao al cacao, e tutto l’artistico casino che popolava la sua borsa da Mary Poppins sfigata – tranne quelle. Poi finalmente le sentì, fredde e ostili sotto il suo palmo. Le tirò fuori vittoriosa e andò a caccia della serratura coi polpastrelli. Grant era vicinissimo ormai, la luce della sua torcia accesa stava per arrivarle addosso. In quel momento le chiavi le caddero a terra. Rintoccarono come monete sparpagliate. «Razza di cogliona imbranata!» gridò a se stessa. «Sembri la cretina sprovveduta di un film dell’orrore. Quella che si infila in garage sotterranei, strade deserte e boschi selvaggi per sfuggire al suo inseguitore. Quasi quasi ti meriti quello che sta per succederti!» Si inginocchiò sul pavimento, e sentì le lacrime affiorare, incontrollabili prove della sua paura. Trovò le chiavi nel momento esatto in cui il fascio di luce la centrò e la abbagliò. Rimase a terra, scivolando all’indietro, il dorso di una mano davanti al viso. La torcia puntava esattamente lei, come l’occhio illuminato di un ciclope cattivo. Dietro di essa si intuiva la sagoma confusa di un uomo. Grant, di sicuro era Grant. Un braccio si allungò nella sua direzione, mentre l’uomo si protendeva per sopraffarla. «Ti stacco le palle a furia di calci, se mi tocchi!» esclamò Penny, e non fu facile nascondere il panico sotto strati di finta audacia. Era digiuna, ma avvertì un rigurgito, come se i pasti degli ultimi dieci anni stessero scalando il suo esofago per avvelenarle la bocca. Mentre annaspava nell’indecisione – cosa faccio? tento di colpirlo? scappo? grido? prego? – una mano afferrò la sua e la tirò su, senza strattonarla né farle il male che si aspettava. Penny rimase interdetta per qualche istante. L’uomo abbassò il fascio di luce, smettendo di accecarla, e nella penombra si accorse che non era Grant. Ciò che vide, tuttavia, la fece sentire come un pesce caduto da una padella tiepida in una brace ardente. Vide una specie di gigante. Un uomo di circa venticinque anni, alto quanto una sequoia e robusto quanto una sequoia. Be’, di sicuro la sua fantasia stava esagerando coi paragoni, ma non dubitava che raggiungesse i due metri di altezza. E non doveva pesare meno di cento chili. Non perché fosse grasso ma perché possedeva un sontuoso corredo di muscoli, evidenti anche attraverso i vestiti. Avrebbe potuto spezzarla con un solo avambraccio. Lo stesso con cui la stava aiutando ad alzarsi e sul quale, oltre una manica tirata su, risaltava un fitto intreccio di tatuaggi tribali nei toni del grigio e del nero. Aveva un polso solido come legno fossile, striato di vene che affioravano, nitide nonostante la semioscurità. Dopo aver immaginato che si trattasse di Grant, il bellissimo Grant pazzo e crudele, le parve quasi che questo tipo vestito di nero, che somigliava a un peso massimo, coi capelli rasati come quelli di un soldato e due occhi chiari, forse azzurri o forse grigi, fosse una specie di spirito celeste. «Mi hai spaventata» sussurrò Penny, continuando a domandarsi se, in fin dei conti, avesse ragione a sentirsi sollevata o se non si fosse imbattuta in un nuovo pericolo da affrontare, di sicuro meno facile di Grant da tenere a bada. Come avrebbe potuto buttarlo giù, questo qui? Lui si fermò a fissarla, con due pupille che parevano schegge di vetro infilate nei bulbi oculari. Penny si sentì a disagio, percorsa da quell’occhiata glaciale. Eppure non abbassò le palpebre e, per una manciata di strani attimi, entrambi rimasero così, nella penombra, a osservarsi. Intorno imperava il silenzio, rotto solo dal respiro ancora ansante di Penny. «Che ci fai qui?» gli domandò infine. Era senz’altro una domanda stupida da rivolgere a uno sconosciuto erculeo e accigliato che forse intendeva farle del male esattamente come Grant, ma non le venne niente di meglio da dire. L’uomo indicò qualcosa, come se le mostrasse il cielo. «Sei un angelo?» continuò lei, ben sapendo che era una considerazione demenziale. Un angelo, con questo aspetto? Ha più l’aria del demonio incaricato di dare un’occhiata alla porta dell’inferno. «Sto al piano di sopra» replicò l’uomo. Aveva una voce abbinata a quell’insieme poderoso. Una voce roca, profonda, imponente come il suo corpo. Penny strizzò gli occhi, incredula. Al piano di sopra non stava proprio nessuno, che lei sapesse. C’era una specie di mansarda cadente, più una piccionaia che un appartamento, abitata da topi e vecchi mobili tarlati. Lui, interpretando il suo evidente stupore, le specificò, senza che la sua voce perdesse quella totale assenza di inflessioni: «Sono un nuovo inquilino». “Inquilino” non era una parola che gli si addiceva molto. Faceva pensare ad affittuari diligenti che portano in casa piante di ficus e divani di seta a righe, dipingono le pareti di giallo crema e comprano set di pentole per la cottura a vapore. Questo tizio, invece, faceva pensare a vecchie cantine dove la gente beve e si azzuffa, a ring pieni di sangue, sputi e sudore e a lenzuola umide di sesso sfrenato. Paonazza fino alle orecchie, pensò che non fosse il caso di rimanere in compagnia di uno che forse era davvero un nuovo inquilino o forse era un pazzo pericoloso. Allora gli domandò con più acredine: «Se abiti di sopra, perché non ci vai? Perché rimani qui?». «Aspetto che entri in casa» le rispose. «E perché mai?» gli domandò sospettosa. «Per la faccia che avevi.» «Che faccia?» Lui tacque un istante e poi si palpò le tasche della giacca, come se andasse in cerca di qualcosa. Penny pensò che stesse per estrarre un coltello col quale l’avrebbe sgozzata sul pianerottolo. Invece tirò fuori solo un pacchetto di Chesterfield e un accendino di metallo. Si portò una sigaretta alle labbra e fece scattare la fiamma. Il viso gli si accese di luce rossastra, illuminando per un istante due occhi dal taglio deciso, un naso diritto e una bocca incredibilmente carnosa, solcata, di lato, da una piccola cicatrice. Diede un tiro alla sigaretta e disse: «Quando vedo una donna con quella faccia, anche se non mi ha chiesto niente e nemmeno la conosco, di solito mi fermo per accertarmi che non le facciano la festa». «Nessuno vuole farmi la festa! È molto più probabile che voglia farmela tu!» Lui inarcò un sopracciglio e la sua espressione impassibile tradì un cenno di fastidio e il principio di una risata mordace. «Non faccio la festa alle donne, io, non nel senso che intendi. E in ogni caso, a te non la farei, non hai niente con cui festeggiare.» Penelope strinse i denti, detestandolo intensamente. Era consapevole d’essere poco interessante: conviveva da più di vent’anni con un aspetto semplice, per non dire anonimo, che da adolescente le aveva inflitto non poche lacrime segrete. La sua scarsa avvenenza era stata la ragione principale per la quale si era buttata fra le braccia di Grant. Non le era parso vero che un ragazzo così interessante la notasse in mezzo alla gente. Ma che quello sconosciuto si permettesse di insultarla, le parve una provocazione insopportabile. «Puoi toglierti dalle palle con la mia benedizione» gli disse. Lui non se lo fece ripetere due volte, diresse il fascio di luce verso la rampa successiva e si allontanò senza una sillaba. Penny non poté fare a meno di seguirlo con gli occhi finché si dissolse nella scala tornata buia. Quindi, infilò rapidamente la chiave nella toppa ed entrò in casa. Richiuse la porta dietro di sé con grande attenzione, agganciando anche il chiavistello che la nonna lasciava giù per permetterle di entrare. Solo allora si concesse un respiro normale. La casa nella quale abitava con nonna Barbara, che gli amici chiamavano Barbie da sempre, era un piccolo appartamento senza pretese e con poche finestre. Due stanze, un bagno e un soggiorno che faceva anche da cucina, tutto in dimensioni ridotte. La nonna diceva sempre: «Io sono Barbie e questa è la casa di Barbie, per questo è piccola!». Anche i sogni di Penny si erano rimpiccioliti come bambole. Avrebbe voluto iscriversi al college, ma non era riuscita a ottenere una borsa di studio. Meglio così, altrimenti sarebbe stata costretta a combattere una breve battaglia mentale e sentimentale per decidere il proprio destino. Breve perché alla fine si sarebbe data la stessa risposta: resto con la nonna. In questo modo, invece, ogni possibilità di conflitto era azzerata. Barbie aveva comunque insistito affinché si trasferisse al campus e si cercasse un lavoro per mantenersi agli studi, ma Penny sapeva che la sua dolce nonnina, che si sentiva sempre giovane nonostante i settant’anni ampiamente passati, ne avrebbe sofferto in mille modi. Così era rimasta, e non si era pentita. Amava sua nonna più di qualsiasi altra persona sulla terra. Accese la luce in cucina. Si svestì in quella stanza, lasciando cadere a terra gli abiti umidi: il cappotto grigio lungo fino ai polpacci, la T-shirt talmente stretch da fare concorrenza a una radiografia, la gonna cortissima tutta pieghettata, in stile “Sailor Moon un po’ troia”, i collant trasparenti con una giarrettiera rossa disegnata sulla coscia sinistra e gli stivaletti da pioggia che indossava prima di venire via dal locale, dove era costretta a portare dei tacchi vertiginosi, dodici centimetri di grattacieli pericolanti. Ciò che rimase, oltre quella buccia, fu il corpo di una ventiduenne magra e pallida, né bella né brutta. Occhi castani, naso uguale a mille altri nasi, labbra decenti: l’unica parte di sé che non detestasse. Capelli lisci, color rame bruciato, tagliati in un caschetto corto da una vicina che un tempo era stata parrucchiera per signora. Il risultato era tutt’altro che perfetto, asimmetrico, con effetto “ciotola da latte”. Sulla fronte, un’unica ciocca tinta di rosa chiaro, quasi un lilla esausto, più lunga delle altre, le arrivava fino al naso. Portava un solo orecchino, dal lato sinistro: una crocetta d’argento che penzolava fino alla spalla. Lo sfilò e lo posò sul tavolo. Entrò subito nella doccia e si tolse di dosso gli odori del locale, il cibo e il fumo e gli aromi dei cocktail che preparava. Solo allora, profumata e senza strani decori tranne quella ciocca pastello, si affacciò alla porta della stanza in cui dormiva Barbie. La nonna non si era accorta di nulla, non aveva udito lo strano scambio di parole avvenuto sul pianerottolo con quel tipo. Dormiva come un peluche sotto le coltri. Era piccola e magra come lei, era una Penelope più antica e più tenera, più sognatrice e più bizzarra, con dei capelli fantasticamente lunghi, un tempo biondi, adesso argentati. Da giovane la chiamavano “la Barbie tascabile” per quanto era bella e per quelle chiome spettacolari. Penny la baciò sulla fronte stando attenta a non svegliarla. Poi raggiunse la propria stanza. “Stanza” era un modo gentile per definire un buco. Aveva concesso alla nonna lo spazio maggiore e si era regalata quella specie di cassetto. Il letto ci entrava a stento, e non c’era posto per un armadio: si era dovuta accontentare di un appendiabiti a vista, al quale agganciava le sue poche cose. Però aveva una finestra che dava sulla scala antincendio e su una strada secondaria. Non un panorama da urlo, ma comunque uno spiraglio da cui filtrava la luce, al mattino, e l’aria frizzante, di sera, e talvolta il miagolio romantico dei gatti, che non la disturbava, anzi, le faceva da colonna sonora per addormentarsi. Dopo le chiacchiere stupide, ebbre, rissose e inutili, udite al locale, la voce semplice degli animali era purificatrice, era una ninna nanna materna. Indossò il solito pigiama e si mise a letto. Nel silenzio, poco prima di addormentarsi, non poté non ripensare a quel tipo tutto tatuato. Davvero abitava in mansarda? Ci entrava anche con la testa o doveva stare sempre chinato? Immaginò quel colosso che si muoveva carponi per evitare di prendere le travi sulla fronte, e le venne da ridere. Chissà cosa ci faceva lì un uomo simile: era decisamente fuori posto, più stridente di un coro da stadio a un concerto di musica classica. Era misterioso, bello nello stesso modo in cui si considera bella una tigre, o un drago col fuoco in bocca, o una voragine letale oltre cui si spalanca un panorama mozzafiato. Si addormentò ripensando ai suoi occhi chiari e freddi: aveva la sensazione che fossero capaci di osservare le proprie mani che uccidevano qualcuno senza concedersi la debolezza di battere neanche un ciglio.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Sep 25, 2017 ⏰

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