Finestra sul Nulla

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1.

Quando rinvenni mi ritrovai in un luogo familiare, ma non ne fui confortato. Le gambe mi dolevano come se avessi corso a perdifiato per miglia senza fermarmi. Intorno a me era buio e sebbene non riuscissi a discernere cosa celavano le ombre, sapevo che c’era qualcosa insieme a me. Qualcosa che mi stava fissando.

Boccheggiai in cerca di un'aria che non c'era. Che sciocco, avrei dovuto saperlo. I ricordi incombevano sul presente con la forza d’un deja’vu, tornavano pian piano a galla e la consapevolezza dell’orrore che la mia mente lentamente stava smascherando mi gelava il sangue.

Mi alzai barcollando, cercando a tentoni una parete alla quale poggiarmi: pian piano gli occhi si stavano abituando al buio e finalmente ebbi la definitiva conferma che il ricordo si stava riproducendo esattamente come lo avevo impresso nella memoria. Il corridoio era lo stesso, il dolore era lo stesso e il gelo… Dio onnipotente, il fiato gelido che mi alitava sul volto era lo stesso.

Il panico prese il controllo e cominciò a guidarmi alla deriva nella tempesta. Sapevo che la cosa si era finalmente manifestata, ma non volevo vederla, non ancora. Non sapevo per quanto la mia lucidità avrebbe retto in presenza di quella mostruosità senza sprofondare nel baratro della follia: mi scostai dal muro, cominciando a correre nuovamente lungo il corridoio nonostante le gambe mi facessero ancora un male del diavolo. Sentivo i passi calmi e inesorabili della cosa alle calcagna, ma non ebbi la forza di voltarmi per vedere quanta distanza ci separasse: sapevo di non averne bisogno. Non era quello il momento di guardarla negli occhi.

Durante la fuga accadde qualcosa di strano: per quanto corressi a perdifiato, il mio cuore batteva a un altro ritmo; era più lento,

(tum… tum… tum)

regolare e inesorabile come un pendolo. Era come se il ritmo del mio cuore fosse accordato secondo i dolci, lenti passi della creatura dietro di me. Non aveva bisogno di parlare o urlare per intimarmi di tornare da lei: il mio cuore era già suo.

Quando arrivai al capolinea del corridoio trovai la porta: era intagliata in una qualità di legno piuttosto scuro e si sarebbe mescolata senza fatica tra le ombre del corridoio se non fosse stato per la maniglia ricurva d’ottone; l'afferrai con forza tale da sbiancarmi le nocche, aprii la porta e mi gettai nella stanza, chiudendomi con violenza la porta alle spalle. Prima ancora che potessi esaminare la stanza, nella mia mente già rimbombava la sinistra consapevolezza d'essere in trappola. Nessuna via d’uscita.

Mi gettai di peso contro la porta nel disperato tentativo di impedire alla creatura d'entrare.

Tra le ondate di panico che mi assalivano, pensai: la chiave! Dove ho messo quella dannata chiave? Dov’è? Frugai inutilmente nelle tasche mentre ormai la sentivo vicina; era lì, dietro la porta. Il mio corpo da solo non sarebbe bastato a fermarla, mi serviva quella maledetta chiave, era l’unica cosa che potesse chiuderla fuori.

Mentre il suo gelido respiro trapelava da sotto la porta attanagliandomi le viscere, saccheggiai la stanza con gli occhi in cerca di una via d'uscita che non c'era. La stanza era solo un buco di calce e mattoni denudato dell’arredo.

Il panico non ebbe nemmeno tempo di sbattermi in faccia il suo poker d’assi e prendersi quanto restava del mio equilibrio, che la maniglia d’ottone cominciò a ruotare. Invece di esercitare ancor più pressione sulla porta per tenerla chiusa, me ne allontanai come una preda ferita.

La chiave.

Solo la chiave poteva bloccarla. Chiusi gli occhi per non guardare più; mi tappai le orecchie per non sentire il cigolio dei cardini della porta che ruotavano; ero impotente. Desiderai disperatamente una via d’uscita, la desiderai con ogni forza residua e, quando riaprii gli occhi, la vidi. Una piccola finestra si era materializzata sulla parete opposta alla porta.

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