Capitolo 2

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Quella sarebbe stata la volta buona che mi avrebbe ucciso. Me lo sentivo. Varcai la soglia dell'aula già psicologicamente pronto a ricevere l'ennesima strigliata da parte di Miss Anderson, la mia prof di psicologia. Quella donna mi adorava ma non tollerava i ritardi e io purtroppo ero un ritardatario seriale. Io ci provavo, davvero, ad arrivare puntuale almeno alle sue lezioni ma ogni mattina era davvero una sofferenza abbandonare quel luogo caldo e paradisiaco anche conosciuto sotto il nome di "letto". Poi se la sera prima ci avevi dato dentro con la vodka, era già un miracolo fossi riuscito ad arrivare entro la seconda ora. A nulla però sarebbero valse queste inconfutabili giustificazioni così feci mentalmente il segno della croce e volsi il mio sguardo verso la cattedra, trovandola però vuota. Strano, molto strano. Miss Anderson non era mai in ritardo, mai. Comunque, se Dio per una buona volta aveva deciso di graziarmi, non vedevo perché lamentarmi. Così scossi le spalle, sorrisi e mi diressi verso il mio banco, arrestandomi però bruscamente alla vista di qualcosa -o per meglio dire qualcuno- che stava per rovinare il mio buonumore ritrovato. "Tu che ci fai qui?" non ci potevo credere, quella piccola nana aggressiva che avevo conosciuto la sera prima alla festa del mio migliore amico era seduta al mio posto, di fianco al ragazzo in questione che, in quel momento, stava schiacciando un sonnellino tranquillo sul suo banco. La ragazzina sussultò sentendo il tono scocciato della mia voce ma si voltò verso di me tranquillamente, come se le mie parole non le avessero fatto nè caldo nè freddo "Come scusa?" ero infastidito dalla sua sola presenza in quella classe, il suo atteggiamento non mi piaceva per niente "si dà il caso che quello sia il mio posto" la vidi abbassare lo sguardo e gongolai soddisfatto, finalmente aveva capito che contrariarmi non l'avrebbe portata da nessuna parte. Aspettai si alzasse e mi cedesse il posto ma lei corrugò le sopracciglia "No, niente. Non vedo scritto da nessuna parte il tuo nome". Digrignai i denti ed alzai un po' il tono della voce "Senti tu, non so chi ti credi di essere ma-" avrei continuato con un discorsetto coi fiocchi ma proprio sul più bello Mister sono-tuo-amico-ma-ti-accoltello-alle-spalle si risvegliò e mi trafisse con il suo sguardo. Ben era un armadio e all'apparenza sembrava uno di quei ragazzi da cui tenersi alla larga. Con i muscoli che aveva gli bastavano pochi pugni ben assestati per mandarti in ospedale. Io ero uno dei pochi in quella scuola che non lo temeva, però lo rispettavo e sapevo quando era il momento di chiudere la bocca in sua presenza. E questo era uno di quei momenti, così sbuffai e mi diressi sconfitto dall'altra parte dell'aula. Gettai la mia tracolla nera sulla sedia di fianco a Katherine Jefferson, la ragazza dai capelli ramati che si era trasferita nella nostra scuola un paio di giorni fa e mi sedetti imbronciato. Lei quando si accorse di me, mi sorrise e scostò dal suo volto un ciuffo ribelle di capelli, ponendolo dietro l'orecchio "Piacere Katy" la guardai, era così che una ragazza doveva comportarsi -non come un'isterica come aveva fatto qualcun'altro- e sorrisi a mia volta, decisi di strafare e le afferrai la mano ponendole un bacio sopra "Trevor al suo servizio". Le feci l'occhiolino e lei rise al mio piccolo teatrino, aveva una bellissima risata ma purtroppo non potei continuare la conversazione perchè la prof entrò in classe, zittendo il chiacchiericcio che si era venuto a formare e scusandosi per il ritardo dovuto a dei problemi in segreteria. La lezione, di cui non ascoltai nemmeno una parola -troppo preso a scambiarmi occhiate con Katy- trascorse velocemente e al termine dell'ora avevo quasi dimenticato l'essere che mi aveva fatto tanto innervosire col suo caratteraccio. Me ne ricordai quando, voltandomi sulla destra per fare un apprezzamento sulla rossa a Ben non lo trovai al mio fianco. Era già uscito dalla classe, senza neanche aspettarmi. Li stavo per raggiungere per dirgliene quattro quando la ragazzina saltò di nuovo tra le braccia di Ben, dondolandosi come una scimmietta come il giorno prima. Rideva e giocava, contagiando anche il mio amico che in quel momento, per la prima volta, sembrava spensierato e sereno, come se la nuvoletta nera che solitamente gli stava sopra fosse scomparsa. Non potevo piombare lì e fare la paternale al mio amico, cancellando dal suo viso quell'espressione così solo perchè mi sentivo un po' messo da parte, sospirai e mi voltai dall'altra parte. Imboccai il corridoio opposto al loro, la felicità di Ben, per me, veniva prima di tutto.

Tutta una questione di altezzaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora