Prologo

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Erano le sei. Me ne stavo seduta sul balconcino della mia camera a fissare il vuoto. Avevo un sigaretta tra le labbra, quel giorno sembrava non finire più. Sentii bussare alla porta della stanza, ma non mi alzai, ne andai ad aprire. Mi importava solo di finire quella dannata sigaretta. Sentii urlare il mio nome da dietro la porta, ma restai immobile. Solo voltai la testa, di poco, verso di essa. Poi delle chiavi, uno scatto, e Dylan Vattelapesca entrò. Mi guardò con rabbia mista a compassione, poi entrò un altro ragazzo. Mi rivoltai verso il vuoto.
-Lui è Ashton, cerca di non cacciarlo come gli altri- disse Dylan il direttore-senza-cervello.
-Sappiamo entrambi che sarà impossibile- risposi rauca.
Dylan mi ignorò sbuffando e uscendo sbattè la porta. Il ragazzo rimase dentro.
L'ennesimo inutile assistente di questo centro per cosiddetti "malati". Ho sempre pensato che i malati fossero quelli che avevano aperto questo dannato centro.
Il presunto Ashton si sedette sul mio letto, così da avere buona visuale della stanza e di me: squadró entrambe da cima a fondo, perlustrando bene l'orribile stanza grigia.
Poi fermò lo sguardo su di me, lo vidi con la coda dell'occhio. Intanto presi un'altra sigaretta.
Il silenzio assuluto.
Era strano, non aveva ancora detto una parola, a differenza della decina di persone che mi avevano presentato, che invece desideravano sapere, per qualche motivo non specificato, la marca di pannolini che portai a due anni, o altre informazioni di questo genere, sulla mia vita.
Poi si alzò e venne verso di me:-Sigaretta?-mi chiese. Gliela porsi nascondendo il mio stupore.
Si sedette al mio fianco, in quello stretto balconcino, e se la mise tra le labbra.
-Accendino?
Glielo porsi.
Poi iniziò a fumare, con calma, fissando anche lui il vuoto.
Fu strano vederlo fumare: era illegare dentro il centro. Io ero un'eccezione, ma solo perché dalla mia entrata ero stata molto brava a narcondere i pacchetti, così bene che dopo qualche mese gli assistenti avevano rinunciato a cercarli.
Continuò a stare zitto, dandomi la possibilità di scrutarlo. Era vestito in un modo milto semplice, maglia dei Metallica, skinny e una giacca. Portava un cappello nero dal quale fuoriuscivano riccioli dorati. Gli occhi verdi scheggiavano come impazziti da una parte all'altra del panorama di alti alberi. Aveva mani fini, dita affusolate ma grandi e possenti. Portava un anello, un piccoli cerchietto grigio, e molti braccialetti neri e bianchi.
Ma mi annoiava. Non diceva una parola, fumava e basta. Non mi dava la possibilità di provocarlo, ne di smentire qualche sua parola prendendolo in giro. Non parlava.
Lo vidi estrarre da una tasca un cellulare e maneggiarlo, quasi fosse annoiato dalla sua stessa presenza in un posto simile.
Si accorse che lo osservavo, e mise su un espressione particolare:-Serve qualcosa?-chiese.
-Si, la sua assenza in questa camera-risposi. Mi dava ai nervi.
-Sto lavorando, non posso andarmene-rispose.
-Non mi pare tu stia lavorando. Anzi, mi eviti, non hai detto una fottuta parola. Perciò esci, hai preso alle palle.
Mi guardò, poi spense la sigaretta, il cellulare e si sedette di nuovo sul letto.
-Allora parliamo. Come stai?- chiese, con sguardo interessato.
-Sono in una clinica, come vuoi che stia?
Mi aveva colta sul fallo, nessuno prima d'ora mi aveva posto una domanda del genere. La gente era più interessata a sapere il mio nome, la città della mia provenienza e altre cazzate simili.
-Infatti non intendo in generale. Intendo oggi.-ribattè.
-Oggi sto come sempre. Mi annoio. Non so perché sia chiusa qua dentro.
-E allora perché non scappi. Via, corri, liberati.
-No.
-Perché?
-Sei uno psicologo vero? Uno psichiatra? Uno specialista? Pensi che dicendomi questo mi aiuterai?
-Si. E lo vedrai. E si, sono uno psicologo.- detto questo si alzò e andò via.
Un mese dopo ero tornata a casa.

Oggi sennò mai più-ASHTON IRWINDove le storie prendono vita. Scoprilo ora