L'inviato dell'inferno

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La strada ghiaiosa s'inerpicava sul colle ammantato di desolazione e alberi rinsecchiti, le cui radici a stento riuscivano a penetrare la terra dura, arida e bramosa di pioggia che non cadeva ormai da mesi.

Il cielo, benché annuvolato, scuro e minaccioso, non avrebbe beato l'arida terra del sapore dell'acqua e non l'avrebbe fatto ancora per molto tempo.

Mentre il vento secco sferzava la valle con raffiche taglienti, dalla strada si levarono nuvole di polvere che si posarono sugli abiti neri del viaggiatore, sulla sua placida figura che sostava immobile sul ciglio della via.

In realtà quell'uomo silenzioso e oscuro, frustato dal vento e dalla polvere, pareva tutto tranne che un comune viaggiatore, o almeno non un viaggiatore con un briciolo di senno.

Quella strada infatti, cosparsa di sassi frastagliati e pulviscolo sabbioso fin oltre il colle, conduceva alla malsana Palude dei Crocefissi, una distesa di melma e acqua fangosa, di croci e di cadaveri, di demoni e di morte.

Eppure il viaggiatore - o quello che si presumeva fosse - non pareva per nulla turbato da ciò che il colle roccioso nascondeva, o forse semplicemente non ne era a conoscenza.

Ma, come già asserito, quell'uomo non pareva affatto un comune viaggiatore.

Avvolto in pesanti vesti scure, il capo e la bocca coperti dalle stesse folte coltri di stoffa, stringeva con forza la mano attorno all'impugnatura della lunga spada, accuratamente celata sotto il mantello.

Unico dettaglio visibile erano gli occhi violetti che rilucevano come stelle brillanti anche sotto la scarsa luce che filtrava dalle nuvole dense, un solo spiraglio di colore intriso della stessa aridità di quella terra sterile.

Se quell'uomo si era recato in un luogo tanto ostile ai mortali, doveva essere per una ragione; nemmeno uno stolto ritardato si sarebbe avventurato tanto lontano dagli insediamenti umani, ma lui non sembrava affatto un incosciente, sebbene apparisse decisamente folle.

D'un tratto il vento si quietò, come un animale ammansito da un gelido e viscerale terrore.

La terra accanto ai piedi dell'uomo si smosse, zolle aride si sollevarono e si sbriciolarono, costrette a emergere sotto la spinta di qualcosa che desiderava uscire.

E alla fine, quattro piccole teste scheletriche affiorarono dal suolo sterile, protendendo sottili arti pallidi verso il cielo plumbeo e minaccioso.

Le quattro creature scheletriche emisero un verso stridulo, le bocche dentellate scricchiolarono come vetro in frantumi. I corpicini fragili affondavano nel suolo fino al bacino e stavano in cerchio, le orbite vuote fisse su di lui.

I Messaggeri ghignarono e lui ricambiò l'inconsueto saluto con uno sguardo tanto gelido da raffreddare anche il deserto più torrido.

«Esecutore Vildenkar» gracchiò il primo mentre si sistemava sul piccolo cranio uno strano cappello blu dalla tesa molto ampia. «Siete giunto di buon ora, ammirevole.» 

L'Esecutore - ora è stato appurato non essere un normale viaggiatore - abbassò i freddi occhi violetti nelle orbite vuote e cavernose del Messaggero ghignante. Pareva pronto a estrarre la spada e recidere quelle quattro insolenti testoline scheletriche a cui brandelli di carne putrida si attaccavano con ostinazione.

Ma non fece nulla e nemmeno disse nulla. Si limitò a fissarli, silenzioso, torvo.

«Abbiamo le informazioni che avevate richiesto, signor Vildenkar» esclamò uno degli scheletri, infilando il piccolo ed esile braccio nella terra dura. Cercò a lungo e solo dopo molti e snervanti secondi, estrasse una pergamena viola, accompagnata da una nuvola di pulviscolo sabbioso.

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