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La sirena era suonata ad un quarto del ciclo notturno, svegliandolo insieme al resto della ciurma.
In un attimo si era vestito e messo sull'attenti davanti alla sua branda a quattro piani, lui come tutto il resto della camerata. Questo era il protocollo e loro lo avevano nel DNA.
Per un istante il suo sguardo vagò attraverso la stanza; le poche lampade al neon sul soffitto diffondevano soltanto una lieve luce giallastra, i muri di metallo neri come la pece non aiutavano certo a rendere l'ambiente luminoso.
Finì per incrociare lo sguardo con il soldato davanti a lui; guardandosi allo specchio avrebbe ottenuto lo stesso risultato: corti capelli biondi, occhi marroni, un'espressione d'attesa sul volto dai lineamenti duri. Uguali come due gocce d'acqua, o quasi...
"ΔBX837" lesse tatuato sulla guancia dell'altro. Quel numero era l'unica cosa che li differenziava, l'unica cosa che lo distingueva dal resto della covata.
La loro nave, l'Horizon, faceva parte della flotta mobilitata 35 cicli prima dalla spazioporto di Deneb nel disperato tentativo della Federazione di metter fine alla ribellione del Conglomerato dell'Idra.
Alla partenza mille facce uguali occupavano quella camerata.
Sette volte era suonata la sirena; sette volte si era messo sull'attenti; sette volte aveva aspettato in silenzio di andare in battaglia; quelli che aspettavano con lui erano ogni volta meno.
No, la morte dei suoi compagni non lo turbava minimamente, non turbava nessuno di loro; d'altronde: come avrebbe potuto?
Paura, odio, rabbia, amore, felicità. Nessun Δ sapeva cosa fossero queste cose. Il loro DNA era stato modificato, la loro fisionomia scelta a tavolino così come il loro carattere, il processo di allevamento aveva pensato al resto.
Loro erano Δ e i Δ obbedivano.
Il loro capitano entrò con fare altezzoso nella camerata; era impeccabile in ogni aspetto, dalla divisa ai corti capelli neri. Percorse metà della stanza in silenzio per poi fermarsi; con gli occhi azzurro ghiaccio scrutò i soldati.
Non si trattava di un Δ come loro, niente tatuaggio sulla guancia per il capitano; no, lui aveva un nome.
Che cosa strana: un nome. Si era sempre chiesto a cosa servisse, lo trovava un accessorio inutile, una frivolezza senza senso.
Durante l'allevamento gli era stato insegnato che loro altro non erano il numero che avevano tatuato, nient'altro; quel numero serviva per ricordargli cosa erano e quale fosse il loro compito: seguire gli ordini.
Il suo numero non era un nome; il suo numero era lui stesso. Non era mai riuscito a capire cosa se ne facesse il capitano del nome se non serviva a definirlo, se non era parte di quello che avrebbe dovuto fare.
Aveva sentito dire che il nome sanciva la libertà del portatore, ma la libertà da cosa? Non era forse lui ad essere libero, non era forse lui a non dover portare il fardello di pensare? Come faceva il capitano a vivere senza nessuno che gli diceva cosa fare?
Ecco, questo sì, questo lo turbava, molto più della morte dei suoi camerati. Una vita senza comandi e ordini gli sembrava un inferno.
Lui però era tranquillo: gli ordini per lui stavano per arrivare.
Il capitano parlò, la voce autoritaria come l'aspetto. I comandi che ricevette furono semplici, gli stesse delle volte precedenti: raggiungere il proprio caccia, mettersi in formazione da battaglia, ingaggiare il nemico; il tutto evitando di essere abbattuti.
No, al capitano non interessava la loro vita, loro lo sapevano; a lui interessava il risultato della battaglia ed il costo dei caccia, non c'era paragone tra quello e la vita di un Δ.
Tutti loro si mossero all'unisono, come comandati da un cervello centrale, uscendo ordinatamente dalla camerata.
Mentre indossava la tuta spaziale si chiese quale numero non sarebbe tornato: forse il suo vicino, forse lui, forse..... in fondo non gli importava, lui aveva i sui ordini e questo era sufficiente a farlo sentire completo.
"Morire è parte della vita" era la prima cosa che gli era stato insegnato durante l'allevamento, "...e la vita sono gli ordini" aveva imparato presto ad aggiungere.

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