Mi chiamo Theodore Burnham e sono uno scienziato.
So già che la lettura di questa semplice frase vi ha proiettato in mente un'immagine ben precisa del sottoscritto: uomo di mezza età, occhiali spessi e con montatura datata, camice, pantaloni color kaki ed una camicia dal colore anonimo. I più fantasiosi mi avranno immaginato con una indomata zazzera di capelli bianchi sulla testa. Mi spiace deludere le vostre aspettative, ma esistono ben pochi uomini di scienza con i capelli da pazzoide e lo sguardo stralunato; nemmeno il vostro amato Einstein ha mantenuto questo look per più di pochi anni nella sua vita.
Mi chiamo Theodore Burnham, e sono uno scienziato più noioso di quanto immaginiate. Non ho un laboratorio, non indosso un camice, non ho pozioni esplosive disseminate in giro per la cucina. Tutto ciò che possiedo, e che tutti gli altri rispettabili scienziati hanno, è una laurea in ingegneria meccanica, incorniciata ed appesa sulla parete del salone di mia madre e mio padre. Non sono mai stato un bambino con il pallino per gli esperimenti, per i documentari e nemmeno per la fantascienza. Fino ai miei diciotto anni, non avevo la più piccola idea di cosa avrei fatto nella mia vita dopo la scuola: non avevo una passione, una disciplina in cui eccellevo, che mi indicasse una possibile via da percorrere dopo il diploma. L'ultimo anno di liceo, decisi di intraprendere il percorso di studi di ingegneria solo perché la matematica e la fisica erano le materie in cui i miei risultati erano n po' meno mediocri rispetto agli altri nella pagella.
Vennero gli anni dell'università. Anni devastanti in cui finalmente mi accorsi che, fin da quando ero bambino, ero stato lasciato indietro dai miei coetanei; o meglio, dalla società in generale. Non feci un granché per recuperare terreno. Durante il liceo, vedere alcuni compagni di classe eccellere ed essere premiati non mi turbava affatto: ero cosciente dell'esistenza di ragazzini più dotati di me, con più spirito d'iniziativa, che tendevano naturalmente a superare noi persone comuni. Per chi, come me, rimaneva indietro, c'era ancora una vita intera per recuperare le tappe e costruire un futuro radioso. Purtroppo, la vita è arrivata e mi ha colpito con tutta la forza che aveva.
Mi ritrovai come uno studente del liceo all'università. Uno studente troppo timido, troppo pigro per cogliere le frequenti opportunità che l'ambiente accademico mi offriva su piatti di bronzo, argento e anche oro, e che io rifiutavo, nascondendomi dietro il muro di cartapesta che avevo costruito su basi di interminabili scuse e snervanti ansie. Vedevo, ancora una volta, i miei compagni di corso eccellere ed essere premiati; li vedevo correre, a braccia aperte, verso quel futuro radioso che io ancora non avevo nemmeno cominciato ad inseguire. Cominciai a bramare il successo, ma non riuscivo a sfiorarlo. A ventitré anni, capì che sarei rimasto perennemente dato in sorte ad un futuro piatto, incolore.
Decisi, quindi, di mettere all'opera le mie scarse capacità, racimolare le briciole di forza di volontà e incanalare la mia bramosia di successo in un progetto che aveva le potenzialità di elevarmi al di sopra della massa dalla quale, per una vita intera, mi ero lasciato calpestare. Progettai l'invenzione che mi avrebbe regalato un posto nell'albo d'oro degli uomini di scienza. Lavorai per giorni, mesi, senza sosta; la stanchezza non mi tentò nemmeno per un istante. Un anno e quattro mesi dopo, la mia creazione fu portata ultimata. Era una macchina capace di scambiare le anime di due persone. Dopo vari e piccoli test su animali, capii che, quello che avevo compiuto, era un grande passo nel campo mondiale della scoperta scientifica.
Non ebbi il coraggio di segnalare la mia scoperta a nessun accademico e nessun collega. Il peso dei pregiudizi contro un prodotto che, attualmente, potrebbe solo suscitare ilarità, mi aveva definitivamente
schiacciato ed annientato. I numeri, la scienza, le macchine, il progresso, non parlavano forte come le ansie e le paure nella mia testa.
Decisi di utilizzare la macchina per scopi personali. Una sera, ebbi l'occasione di condividere uno dei laboratori dell'università con una delle figure di spicco nel panorama della ricerca accademica: Brad Keery. Brad aveva appena ottenuto lauti fondi per portare avanti la propria ricerca, e uno dei giornali nazionali più conosciuti e rispettati lo aveva piazzato nella top ten dei giovani più influenti del Regno Unito. Senza pensarci due volte, approfittati dell'assenza di altre persone, e lo tramortii; lo trasportai, successivamente, nel mio appartamento, dove lo collegai alla macchina scambia-corpi. Spinsi il tato di accensione con la certezza di non avere nulla da perdere se il mio primo esperimento su due persone fosse andato storto.
Mi svegliai sul pavimento della cucina del mio appartamento circa tre ore dopo. Fissai, immobile, il tetto da quella prospettiva per una quantità indefinita di tempo, nel quale, non riuscivo a sentire nemmeno la voce della mia coscienza. Ripresi conoscenza e, raccogliendo tutto il coraggio che avevo in corpo, rivolsi lo sguardo verso l'altro corpo nella stanza: ero io. Avevo gli occhi aperti, lo sguardo vuoto, etereo; dalla bocca, spalancata, scendeva un rivolo di bava. Questa vista mi fece rabbrividire, non dall'orrore, bensì dalla vergogna che provavo a vedere la mia figura e notare ancora più difetti di quanti ne fossi al corrente. Mi alzai da terra e tastai il polso del corpo che, sin dalla mia nascita, mi aveva ospitato: notai che non c'era battito. Ero morto. O meglio, avevo ucciso il rispettabile Keery nel mio corpo. Andai in bagno e guardai il riflesso nello specchio: feci scorrere le mie mani sul viso, sul collo, sui pettorali, sulle braccia, per controllare se tutto quello che vedevo allo specchio fosse vero. Il viso rotondo e il doppio mento erano stati sostituiti da una mascella definita, scolpita; i capelli crespi avevano lasciato il posto ad un'acconciatura curata di capelli lisci e corvini; la postura scoliotica era ora un portamento diritto e fiero. Ero Brad Keery. Il noto Brad Keery; il ricercato, il chiacchierato Brad Keery. Quella notte, mi disfeci del mio vecchio corpo, con la sensazione che si prova quando si getta via un vecchio mobile di cattivo gusto che un caro parente aveva regalato e che non hai mai avuto il coraggio di buttare.
Una settimana dopo, misi il mio nuovo, prezioso, piede sul suolo della sede dell'università. Non mancarono le domande cariche di preoccupazione e curiosità da parte dei colleghi, ma riuscì sapientemente a gestire queste eccessive attenzioni. Il nuovo corpo mi donava sicurezza, prontezza, e una giusta dose di faccia di bronzo. La favola durò quattro, cortissimi, giorni. I progetti che Brad portava avanti in vita mi erano totalmente sconosciuti. Ben presto, i colleghi capirono che qualcosa con andava nel noto Keery e, anche se inizialmente alcuni mostravano genuina preoccupazione, altri non esitarono ad approfittare della situazione di incertezza per derubare me e la faccia di Brad di scoperte, successi e, soprattutto, soldi. Mi ritrovai, ben presto, senza fondi e senza ricercatori, perché non ero riuscito a reggere le ambiguità. Inoltre, non ero riuscire ad approfittare dei miei momenti di credibilità e della mia nuova identità per far conoscere la mia sorprendente invenzione.
Passò un anno, ed io e la faccia di Brad riuscimmo ad arrivare, nella mediocrità, alla laurea. Qualche centimetro di polvere si era accumulato sulla mia gloriosa macchina e sulla mia voglia di tirare avanti giorno dopo giorno. Senza lavoro e senza prospettive migliori, capii -finalmente – che cambiare nome e vita non era servito a risolvere un problema che, in realtà, si trovava in un punto ben più nascosto, più profondo ed intimo. Il problema ero proprio io, Theodore Burnham, lo scienziato più noioso di quanto immaginiate.
Ho deciso di togliermi la vita nel corpo di un'altra, innocente, persona. Le mie più sincere scuse vanno alla famiglia del celebre Keery, per quanto possano importare le scuse di un morto.
L'unica cosa che rimpiango è non sapere cosa si prova a morire nel proprio corpo.
Addio,
Theodore Burnham