Capitolo due.

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La mattina arrivò veloce, così veloce che un millesimo di secondo fu più veloce del mio pisolino. Sdraiata sul letto, il mio visino giaceva sul candido cuscino bianco, i miei capelli lunghi e rossi ricadevano sulle lenzuola con molta leggerezza, mentre le mie mani erano ferme sulla pancia piatta, dove le dita lunghe ed esili continuavano ad accarezzare lievi cicatrici. La mia testa era totalmente altrove, il piano era così complicato, e tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare, lo sanno tutti. E se avessi fallito anche questa volta? Se non fossi stata all'altezza? Ed ecco che il mio sguardo verde si posò sulla foto di mia madre, dritta davanti a me. Sorrideva, era felice. Rimasi qualche secondo a contemplarla, per poi sentire una morsa al cuore.
In quel preciso istante la porta si spalancò, gli occhi di mio padre mi fissavano, mi squadravano, e anche lui rilasciò uno sguardo sulla foto di sua moglie.

'Avanti, sei pronta?'

Mi disse solo ciò, fortunatamente si limitò a non dire altro. Annuì, senza però proferire parola, nonostante la mia testa continuasse a formulare frasi da scagliargli contro. Un vero diavolo dentro, ma un angelo fuori. Che obbedisce ad ogni cosa, non dice mai no.  Una ragazzina fragile, a cui spaventa anche la sua ombra, ma che in realtà è così forte, tanto da non rendersene conto. Presi il telefono, lo misi nella tasca dei jeans, e legai i miei capelli in una coda abbastanza disordinata, poi seguì mio padre. Mi guardai attorno, osservai la mia camera, il corridoio, e anche la mia cucina. Mi ripromisi che quella sarebbe stata l'ultima volta in cui avrei visto quelle pareti ingiallite per via dal vapore, quel pavimento trasandato e pieno di cenere di quelle stupide sigarette. Le pareti piene di foto felici, apparivamo così: 'una famiglia felice.'

Presi un grande respiro ed uscì, mi misi in macchina, e per tutto il tragitto stetti in silenzio, nonostante la mano ruvida del maggiore si ostinava a finire sul mio ginocchio più e più volte.
Ed eccoci qui, davanti alla graziosa dimora di mia zia, Selene.
Una graziosa casetta devo dire, tutta di un color rosa, e sempre ordinata; ma chissà che caos c'era dietro a tutto questo. Ho imparato a mie spese come essere calmi fuori e disastrosi dentro.
Mi accarezzò i capelli con dolcezza, le sue mani erano morbide, e le sue unghie lunghe colorate di un rosso fuoco. Mi disse che ero diventata bellissima, nonostante fossi dimagrita davvero troppo. Mi guardava, e mi vedeva felice. Una maschera che avevo imparato ad indossare ormai da tempo. Ed ecco che dietro lei, spuntò Thomas, suo figlio, nonché mio cugino. Aveva sei anni, ed era un peperino, non stava mai fermo. Si avventò su di me correndo, così ridendo lo sollevai da terra e iniziai a riempire il suo viso di baci, sussurrandogli un 'ciao mostriciattolo.' Lo lasciai a terra, afferrai la sua mano come se in quel momento l'unica forza si racchiudeva in lui, in quel bimbo pieno di energia e che si arrabbiava se riceveva un semplice 'no.' Il mio opposto, diciamo. Cercai anche un orologio, lo trovai appeso alla parete, sarebbe stato un ottimo alleato. Non avemmo nemmeno il tempo di conversare qualche minuto, che il pranzo era pronto. Dalla cucina usciva un odorino delizioso, così ci accomodammo al tavolo, iniziando a mangiare, e parlare del più e del meno. Mio padre mangiava come un animale, sembrava non toccasse del cibo vero e proprio da anni. Mi imbarazzò da morire.
Mi schiarì la voce, scusandomi, e dicendo che avrei usufruito del bagno per qualche minuto. Mi alzai, e inizia a vedere doppio. L'ansia mi stava assalendo, non mi lasciava concentrare. Sentivo i battiti del mio cuore fino in gola, in testa, ed il petto sembrò voler esplodere da un momento all'altro. Le gambe erano diventate magicamente di gelatina. Ce l'avrei fatta? Mi ritrovai in bagno, mi sciacquai il viso, e strinsi il marmo del lavandino fra le dita. Dai, Alisha, ce la puoi fare.
Aprì la finestra, e l'aria gelida di Dicembre non si limitò a nulla. Fortunatamente eravamo al primo piano. Misi le mani sul davanzale, e mi feci peso per salire. Guardai sotto me, e con molta sicurezza mi lanciai, cadendo in un cespuglio che mi procurò graffi ovunque. Ma hei, almeno ero viva, nonostante fossero due metri d'altezza. Afferrai il borsone, e iniziai a correre verso la stazione. Attraversavo la strada e i clacson delle macchine mi maledicevano secondo per secondo, ma non gli stavo dando il minimo peso.
Cinque minuti, e fui in stazione. Il treno, con mio stupore, era in orario. Un grande traguardo. Salì, e mi misi a sedere, sperando vivamente di non incontrare l'immagine di mio padre fra i visi sconosciuti della stazione. Il treno partì, e alcune persone mi guardavano; osservavano i miei lividi e graffi come se fossi un rifiuto, mi guardavano con disprezzo, ma si sa che a nessuno importa. Scesa dal treno, presi un pullman, che mi portò in aeroporto. Ed eccomi qui. Aeroporto di Londra. Era immenso. Avevo fotocopiato la carta d'identità della mia migliore amica, e mi stavo spacciando per lei, dato che ormai con così tante tecnologie mi avrebbero ritrovata in un battito di ciglia. Ringraziai il ragazzo che mi fece passare, misi la valigia sul rullo che l'avrebbe portata sull'aereo, e mi precipitai al mio gate, con passo svelto e con il cuore in gola.
Mi sedetti su una sedia, mi slegai i capelli, e mi misi il cappuccio della felpa nera per non farmi riconoscere da nessuno. Stavo facendo una pazzia. Non avevo una casa a Sidney, non avevo cibo, niente di niente. Mi sarei dovuta arrangiare con ciò che avevo, ovvero dei vestiti, e alcuni spicci rimasti. Me la sarei cavata in qualche modo. Ed ecco che annunciarono il decollo del mio volo, così mi alzai, e mi stropicciai gli occhi. Iniziai a camminare, ma appena lo feci, una mano bloccò il mio polso, tanto da avvicinarmi a se e mormorarmi un 'dove vai?'.
Non mi girai, però mi crollò il mondo addosso.

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