Posseduto

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Dall’inizio della settimana Stefano Marchi non riusciva a chiudere occhio. Ed era già venerdì. Era passato un mese da quando Linda lo aveva mollato e solo ora si rendeva conto di quanto il suo letto (un tempo era il loro letto) fosse maledettamente grande. Ognuna delle pieghe di quella fredda desolazione di lenzuola bianche nascondeva un ricordo che lo azzannava al cuore ogni volta che abbassava la guardia.

Quando lei gli confessò di essersi innamorata di un altro uomo, Stefano non batté ciglio. Tutto dentro di lui si congelò e solo ora che il ghiaccio cominciava a sciogliersi il suo cuore sentiva che era rimasto da solo a battere. Durante quel mese solitario aveva continuato la sua vita tenendosi occupato come meglio poteva e riguardando buona parte dei film della sua nutrita videoteca. Amava alla follia il cinema, eppure gli erano bastate poche maledette notti insonni per fargli perdere ogni attrattiva anche per quello.

Da quando Linda lo aveva lasciato si era raffreddata anche la sua passione per l’insegnamento: aveva deciso di diventare professore di letteratura dopo aver visto Dead Poets Society

(Dead Poets Society, 1989, Weir, Schulman, Williams)

tanti anni fa, ma ora come ora sarebbe salito sulla cattedra solo per ficcare la testa in un cappio. Che si fottesse il cambio di prospettiva, da quando aveva perso il sonno l’unica prospettiva che gli si presentava era il volto di Linda. Dall’inizio della settimana si sentiva come se un roditore gli stesse grattando il fondo del cervello per staccarne piccoli bocconi. Più che Keating si sentiva Al Pacino in Insomnia;

(Insomnia, remake del 2002, ancora Williams, Al Marchi)

sperava solo di non fare la stessa fine.

Fu durante quella orribile ultima notte che cominciò a vedere le cose più strane. Linda non era solo un volto ondivago che levitava davanti ai suoi occhi come un miraggio: era il rosicchiare dei maledetti topi nel muro. E dei vermi che strisciavano sotto le pieghe del letto. Era il puzzo di carogna che veniva da dentro il cuscino, perché quel cuscino non era solo suo, era il loro. Era stato di Linda. E come tutto ciò che era stato di Linda, ora stava marcendo. Tutta la casa rumoreggiava e gorgogliava come un condotto di scarico intasato dal dolore dei ricordi. E gli scarafaggi che si ammucchiavano nel lavandino dove lei non avrebbe più lavato i piatti, le scie di muco di lumache grosse come cani che si annidavano nel forno. E i vermi che continuavano a scavare e a cagare i ricordi sopiti nel letto, mangiavano e cagavano tutto nella sua mente. Gli stavano scavando dentro perché anche lui come il cuscino, il forno, il materasso, era stato di Linda e Linda lo stava uccidendo poco a poco.

Mentre si cambiava per uscire (per fuggire) da quella casa, si sentiva febbricitante. In condizioni normali era certo che se si fosse poggiato su una superficie morbida sarebbe crollato all’istante tanto era il sonno che gli appesantiva gli occhi. Ma i denti dei topi schioccavano e mangiavano, i vermi scavavano e cagavano tutto dentro quella pentola a pressione che era la sua testa. Doveva fuggire lontano da quella casa, lontano dal ricordo di Linda prima di perdere il senno.

Camminò di gran carriera lungo il marciapiede di Viale Roma, inseguito da una pletora strisciante di vermi. Sperava di essersi chiuso alle spalle Linda, ma voltandosi vedeva che i vermi si aggrovigliavano tra loro per formare una mano. Cristo, cinque dita che arrancavano sul marciapiede come Mano della famiglia Addams! Stefano cominciò a correre a perdifiato prima che quella orrenda mano di vermi lo raggiungesse e lo trascinasse indietro fino a casa. Sapeva che non era reale, eppure ogni volta che si voltava la vedeva ancora lì che muoveva le lunghe dita una dopo l’altra, lanciata all’inseguimento come un gigantesco ragno affamato. Avrebbe giurato sulla tomba di sua madre che quello non era che un incubo se non si fosse sentito così disperatamente lucido e sveglio. E sapeva di chi era la colpa: era Linda che teneva la sua mente lontana dall’oblio. Aveva affondato le unghie nel suo cervello e lo costringeva a tenere le palpebre aperte in una macabra riedizione della cura Ludovico di Arancia Meccanica.

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