Come tutto è iniziato

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Uno sfigato, ecco cos'era Richie Tozier. Dico era perché sono cambiate tante cose da quell'ultimo giorno di scuola in cui si limitava a prendere in giro la mamma di Eddie e a parlare del rito di passaggio di Stan. Lui non ha più paura, e ciò lo rende il ragazzo più coraggioso che io conosca. Perché? Perché la paura io ce l'ho ancora e l'unica cosa che la affievolisce è che tutto è iniziato grazie a quella, certo, mi ha portato ad essere quasi uccisa da un clown pazzo ma mi ha fatto conoscere lui. Se ripenso all'orribile sensazione provata tremo ancora, se ricordo quel pomeriggio soleggiato di inizio vacanze in cui tutto ciò che volevo era ridere e divertirmi e invece tutto ciò che ho avuto è stato un incubo che mi perseguiterà per il resto della vita.

In quel pomeriggio, il primo di quell'anno vissuto con la consapevolezza che il giorno dopo non ci sarebbe stata scuola, né quello dopo ancora e né tutti gli altri a venire, proprio in quel pomeriggio che si stava rivelando un pelo noioso, è iniziato tutto. Partendo dal soffice divano di casa mia non avrei mai immaginato di star per vivere il mio incubo peggiore, di star per essere attaccata da uno di quei bambolotti che mia madre mi ha costretto a conservare, nonostante non mi siano mai piaciute le bambole e i bambolotti, sempre vigili col loro sguardo a dir poco inquietante. Nonostante tutto ciò che non mi aspettavo la vita ha voluto sorprendermi, e devo aggiungere che ci è riuscita anche molto bene. La gonna lilla che portavo era incastrata tra le mie ginocchia, me lo ricordo perché quando ho alzato di scatto la testa dal bracciolo del divano e ho sentito che qualcuno chiamava il mio nome, la fissavo per la troppa paura di alzare lo sguardo. Io ero sola in casa, chi poteva essere? La voce si faceva via via più cupa e raccapricciante, tanto da farmi pensare per un momento di star sognando, scoprii ben presto che così non era. Caddi sul tappeto intrecciato nel vano tentativo di alzarmi e correre, alla vista di quella bambola all'apparenza innocua venire verso di me con andatura lenta ma costante, con quel suo vestitino rosa che muoveva i ricami in pizzo bianco sul fondo, ad ogni spinta che la bambola dava con le gambe, ad ogni passo conquistato per azzerare la distanza. La voce era ormai diventata proprio come quella di una bambola, il cui alimentatore è giunto al termine della sua lunga carriera. Chiamava il mio nome, mi intimava ad avere paura ricordandomi i tempi in cui ancora l'abbracciavo, diceva di volersi vendicare per essere stata dimenticata, per averla considerata persino da buttare. Ed io ero lì, immobile su quel maledetto tappeto, maledicendomi per non riuscire a muovere un muscolo. Ho sempre ridicolizzato i protagonisti delle storie di paura, che non appena arriva il mostro rimangono immobili e non scappano; questo perché non l'avevo mai provato sulla mia pelle. Ma in quel momento, lì, a terra, senza neanche la forza di staccare gli occhi da ciò che mi stava facendo divenire come roccia, ho capito cosa significa realmente avere paura. Man mano che le scarpette rosa si avvicinavano, e con loro la bambola e il palloncino rosso che questa teneva nella mano sinistra, riuscii a riprendere il controllo dei miei muscoli e mi alzai quanto più velocemente la paura mi permetteva. Mi soffermai stupidamente a guardare con orrore ciò che mi inseguiva solo per un paio di secondi, poi mi precipitai alla porta di ingresso per uscire nel vialetto, dove sicuramente sarei stata al sicuro. Ho raggiunto la maniglia ma la speranza mi è scivolata tra le dita quando ho compreso che era chiusa, eppure io non possedevo le chiavi, la porta non era mai stata chiusa servendosi di quelle, perciò non avevo nessuna opportunità di fuggire, o almeno così credevo. Ho iniziato a urlare con quanto fiato avevo in corpo e sbattere pugni e calci contro la porta chiusa, fino a ritrovarmi le treccine bionde accompagnate da un sorriso maligno a soltanto mezzo metro di distanza.

-Chloe, vieni qui, giuro che ti butterò io, ti serve soltanto qualche aggiustatina-

Grazie ai raggi solari proiettati nella zona antistante alla finestra, accanto alla porta sulla destra, notai la lama che era stretta nel pugnetto destro di quel diavolo di plastica. Fu allora che un vetro si incastrò sopra la tempia della bambola, facendomi urlare più forte per lo spavento. Non sapevo cosa ci fosse dietro a quella finestra, cosa l'avesse rotta, ma fui costretta a scoprirlo perché l'andatura che accompagnava il movimento del pizzo non si era mai fermata, ed era davvero vicina. Avevo smesso di gridare, perché l'agitazione è già un fattore molto potente che incrementa gli attacchi d'asma e io ne avevo uno in quel momento. Una mano mi si posò sulla spalla in modo forte e deciso, facendomi gridare ancora. Appena girai lo sguardo dei ragazzi mi tendevano le mani, esortandomi ad uscire. Con un po' di sforzo ce la feci e caddi a terra, la gonna mi era volata appena sopra le ginocchia ma non mi importava, l'unica cosa che mi importava era il mio fiato che a poco a poco veniva a mancare sempre di più. La vista si faceva sfocata e tutti i suoni si presentavano ovattati alle mie orecchie. Strisciai per allontanarmi il più possibile dalla finestra ancora aperta, fino a sbattere contro la balaustra. I miei movimenti non erano passati inosservati al gruppo di ragazzini che mi aveva appena salvata, che si era interamente immobilizzato per pochi secondi. A fermare la seduta di belle statuine era stato un ragazzino dai capelli marroni e un marsupio legato intorno alla vita, mi portò alla bocca un inalatore che mi aiutò a riprendere a respirare regolarmente e a ripristinare il controllo della vista e dell'udito. Chiusi gli occhi e sospirai piano, come a darmi coraggio, per poi guardarmi intono. Il ragazzo che si era fatto avanti per aiutarmi era schizzato subito indietro, come se l'avessi scottato. Mi accorsi ben presto qual'era il motivo: la gonna, era salita fino a sfiorare le mie mutande. Mi affrettai a portarla un po' più in basso con le dita snelle, continuando a guardami intorno per riuscire a trattenere il pianto isterico, causa della paura ancora impressa sulle mie sopracciglia corrugate. C'era silenzio, non un silenzio imbarazzato ma un silenzio che impregna l'aria di quiete sinistra. Quasi a voler confermare i miei pensieri la bambola volò dalla finestra, dritta su di me, facendomi riprendere ad urlare e provare freneticamente a spingerla via con le braccia, ancora prima che queste riuscissero a toccare la plastica di cui era fatta e la stoffa del suo vestito. Le ginocchia scattarono e divenni un fascio di nervi, mi calmai solo quando la bambola si schiantò sul legno dell'ingresso esterno, spinta violentemente dalle mie mani, e si rivelò senza vita. Quello spavento fu la goccia che non fece traboccare il vaso, lo fece esplodere. Mi buttai addosso al ragazzo più vicino e scoppiai in un pianto violento e pieno di singhiozzi, le mie braccia attorno collo del malcapitato, solleticate leggermente da dei ricci neri, le sue braccia pietrificate lungo i fianchi. Quando smisi di piangere appoggiai la fronte sulla spalla del ragazzo, senza lasciarlo un secondo, nel tentativo di smettere di pensare alla voce roca che chiamava il mio nome e del palloncino rosso sangue rimasto impresso nella mia memoria. Decisi di degnare i miei salvatori di tutta la mia attenzione e alzai la testa dal suo comodo appoggio, che si rivelò essere la spalla di Richie Tozier, il paladino del gruppo degli sfigati della scuola. I suoi occhi guardavano i miei, paralizzati come il resto del suo corpo, attraverso gli spessi occhiali che lo contraddistinguevano dal resto dei ragazzi con cui passava praticamente tutto il suo tempo. I miei occhi ricambiavano lo sguardo, più che paralizzati ancora spaventati. Guardai poi gli altri, erano tutti lì. Eddie Kaspbrak, che mi aveva offerto il suo inalatore poco prima, Stanley Uris, Bill Denbrough e, un inaspettata aggiunta, il nuovo arrivato Ben, il cui cognome mi era sconosciuto del tutto. Mi guardavano tutti.

-Grazie- li guardai tutti, uno ad uno per poi soffermare lo sguardo su Eddie -Grazie dell'inalatore, Eddie-

-Tu sai come mi chiamo?- era scioccato, non doveva succedere molte volte che qualcuno sapesse il suo nome. La realtà è che nessuno ignorava il suo nome, i loro nomi, bensì ignoravano la loro presenza.

-E' il minimo, so i nomi di tutti, d'altronde andiamo nella stessa scuola- parvero tutti leggermente scossi dalla mia dichiarazione, finché Stanley non ruppe il silenzio.

-Cosa è appena successo?-

-Mi ha abbracciato, amico, non prendertela- Richie

-No idiota, intendo, cosa è quella? Chi l'ha lanciata?- di nuovo tutti guardano me, che scuoto piano la testa.

-Non lo so-

-Sennò che cazzo di motivo aveva di urlare?!- chiese retoricamente Bill, con una certa difficoltà nel pronunciare la S di Sennò e la P di Perché.

E' così che tutto è iniziato, è grazie a quell'avvenimento che sono dove sono ora, con chi sono ora. Sono seduta sul bordo della cava, le gambe penzoloni nel vuoto, circondata dalle gambe magre del ragazzo dagli spessi occhiali marroni, le sue braccia sono avvolte attorno al mio busto e mi tengono vicine a lui. La nostra infanzia è stata a dir poco turbolenta, con IT a tormentarci, ma ora siamo qui, molto più forti di prima, insieme.

Come tutto è iniziato - RichieDove le storie prendono vita. Scoprilo ora