Risveglio

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Il giorno è arrivato.

Il freddo mi toglie il respiro mentre mille aghi tormentano la mia carne intorpidita che riemerge dalle acque del torrente che scorre sotto la capanna.

Il vento di novembre non è clemente, come è giusto che sia.

Mi trascino a fatica verso la porta. Nudo, vulnerabile e solo.

Sono qui da due settimane, ho studiato ogni angolo di questo bosco, ogni piega del terreno, ogni grotta, ogni rigagnolo, ogni frattura nella roccia. Ho scritto tutto nel mio rapporto, confrontandolo con quanto sapevamo. Non c'è niente che mi faccia pensare a qualche cambiamento.

Tutto è esattamente al suo posto, compreso me.

Mi rivesto lentamente, una camicia a quadri sopra un vecchio paio di jeans strappati. Resto a piedi nudi sopra le assi di legno scheggiato. Poi strappo un lembo del lenzuolo e lo avvicino alla faccia.

Lo appoggio sugli occhi, espiro e lo annodo dietro alla testa.

Un rituale antico che continuiamo a compiere da secoli.

Dal buio, la verità. Dall'ombra, il discernimento.

La stoffa attutisce la luce che filtra dalla finestra e mi impedisce di distinguere le forme ormai familiari dei pochi mobili. Mi siedo sul letto, di fronte alla porta, e aspetto che lui giunga.

Da qualche parte, là fuori, la sua gravità sta già cambiando.

Sono nato per questo, sono stato addestrato tutta la vita, come mio padre prima di me, solo per questo istante.

Per prima cosa annoterò il suo nome perché i Guardiani possano inserirlo nella Macchina.

Poi lo guiderò, attraverso la lunga notte, affinché sopravviva abbastanza da compiere il suo destino.

Vita, morte, sacrificio. Qualunque esso sia, io ne condividerò la fine.

Chissà se in questo momento il mio avversario sta facendo la stessa cosa, aspettando di percepire il contatto e di localizzarci. Il pensiero mi fa salire l'adrenalina e tendere i muscoli, mentre il cuore accelera.

Espiro, inspiro, espiro.

Devo restare lucido e freddo o non sarò in grado di difendere la mia risorsa.

Senza poter usare la vista riesco a percepire con estrema precisione lo sbattere irregolare di un'imposta sul retro, il rumore di un ramo che si spezza sotto il peso del vento, il frustare feroce dell'acqua sulla grande roccia alla curva del torrente.

Lo scricchiolio del tappeto di foglie secche.

Passi.

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Quando stamattina ho guardato verso le montagne, le due vette gemelle del parco nazionale si stagliavano così nitide nell'aria tersa da farmi pensare per un attimo di poter semplicemente allungare una mano e toccarle. Come quel gioco che facevo da bambina, seduta sulle ginocchia di mia madre, quando fingevo di afferrare le grosse nuvole spumose e mangiarle come fossero fatte di zucchero filato. Lei non smetteva di ridere e di ricoprire di baci la mia testa piena di ricci scuri, mentre io pensavo di essere nel posto più sicuro del mondo. Tra le sue braccia.

Ho stretto le palpebre per trattenere il ricordo di quella felicità piena ed innocente ancora per un attimo. Poi ho preso con me solo il vecchio zaino da escursione con la mappa dei sentieri, una bussola, una borraccia e un paio di barrette energetiche. Non molto allettanti a dire la verità, ma sufficienti a non farmi morire di fame se mi perdessi nel bosco.

E' curioso come mi senta meno sola in mezzo al silenzio assoluto piuttosto che tra mille persone. E' come se riuscissi a sintonizzarmi meglio con il mio battito, col mio respiro, e vedessi tutto più chiaramente.

Persino i miei fallimenti.

Ma non sono stata sempre così. Un tempo amavo la gente, la musica ad alto volume, ballare alle feste, ridere di niente. Amare, baciare, essere stupida.

Amavo semplicemente vivere.

Adesso vivo e basta. O forse sopravvivo a me stessa, ai miei sbalzi di umore, alla mia capacità distruttiva.

Oggi mio padre lavora fino a tardi in ospedale.

La mia migliore amica mi ha organizzato una festa a sorpresa, ignorando ostinatamente la mia volontà.

Jeremy mi ha scritto una lettera e me l'ha messa nella cassetta della posta. Non l'ho ancora aperta, anche se l'ho portata con me.

Cammino a passo svelto, seguendo il corso del torrente, inoltrandomi sempre di più nel folto del bosco. Ogni tanto mi fermo a riprendere fiato, ma le gambe smaniano di riprendere la strada.

Non so dove sto andando, non so perché lo faccio. Forse non mi sono ancora stufata di deludere gli altri, o forse ho solo bisogno di anestetizzare un dolore ancora troppo vivo.

So solo che oggi compio diciassette anni, e credo di non essermi mai sentita tanto vuota.

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Tutto quello che so è che non vorrei essere qui, in questo mondo disgustoso, fatto di odori e bagliori che si insinuano nelle narici e sotto le palpebre come particelle di una vita che non capisco.

Non che abbia scelta, del resto. Nessuno di noi ne ha mai avuta una.

Gli altri sono vicini ad ottenere quello che hanno cercato lungo tutte le nostre esistenze. Di vita in vita.

La Veggente stavolta ha previsto l'arrivo di un viaggiatore potente, capace di distruggere per sempre il velo che ci separa e svelarci al mondo.

Loro sanno dove e quando.

Loro hanno la Macchina. Hanno gli altri.

Ma non hanno calcolato che il cacciatore stavolta non aspetterà il contatto per iniziare la caccia, perché conosce il sangue dell'avversario e lo sente scorrere nelle sue stesse vene.

Ho attraversato il limite, mi sono fatto invadere da ossigeno e paura, ho resistito all'istinto di fuggire via, di strapparmi gli occhi con le mie stesse mani, di respirare veleno.

Ho respinto ogni debolezza.

E tutto per essere qui, adesso, con le gambe che tremano, ma le mani che stringono salda l'impugnatura di una lama, pronto a uccidere la preda, prima che scivoli nelle pieghe dei mondi.

Prima che venga usata contro se stessa e contro di noi.

La mia è prima di tutto pietà.

Mi passo una mano tra i capelli e mi soffermo sulla benda che mi ricopre gli occhi.

Lui starà portando la stessa benda, avrà ripetuto le parole rituali, si sarà gonfiato i polmoni con questa aria pesante, pronto a dare la vita.

Ma sarà pronto anche a prendere quella di suo fratello?

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